2021-02-25
Per le palestre e le piscine chiuse gli intellettuali non si mobilitano
Lo sport resta ancora senza date né criteri per ripartire. Nessuno però si preoccupa.Un anno dopo, i teatri hanno riacceso le luci. A un anno di distanza dai provvedimenti che ne hanno imposto la chiusura causa emergenza sanitaria, le cattedrali della cultura hanno voluto dare un segno di vita. Hanno aperto simbolicamente, si sono illuminate per far capire che esistono ancora, anche se si continua a tenerle sbarrate. Per i teatri e per i cinema, insomma, il cono d'ombra è stato per un attimo sconfitto. Si sono mobilitati attori famosi, registi, uomini di spettacolo e di lettere. Persino certi intellettuali di sinistra che, fino a qualche mese fa, non avevano altro da fare se non dare la caccia ai (presunti) negazionisti del Covid, ora hanno preso la parola per invocare la ripresa dei lavori. Finalmente, viene da dire. Purtroppo si spendono meno parole infuocate per un altro genere di attività. Ci sono meno Vip a perorarne la causa, negli editoriali gravidi di emozione le loro esigenze passano in secondo piano. Per piscine e palestre, come del resto era facilmente prevedibile, non si scioglie la briglia all'indignazione. Non così tanto come si dovrebbe, almeno. Il Comitato tecnico scientifico ha emesso una sentenza fin troppo attesa: i luoghi dell'attività fisica dovranno restare chiusi. Per quanto? Ancora non è dato sapere. Settimane, forse. «Non abbiamo parlato di riaperture, se ne parlerà in un'altra occasione», ha commentato freddamente Agostino Miozzo del Cts. L'idea è che si possa pensare a una ripresa solo quando il livello del contagio sarà sceso sotto la soglia di 50 casi per 100.000 abitanti. La notizia ha suscitato un poco di malumore, come no. Ma è stata anche accolta con una certa rassegnazione, quasi che non valesse nemmeno la pena scaldarsi troppo o anche solo immaginare soluzioni diverse. Quale sia la situazione allo stato attuale lo ha ben chiarito ieri Claudio Barbaro, senatore di Fratelli d'Italia e presidente dell'Asi (la sigla che riunisce le associazioni sportive sociali italiane): «Lo sport è il settore più penalizzato in questo anno di Covid. Palestre, piscine e centri sportivi sono chiusi in pratica da 12 mesi, se si esclude la breve parentesi estiva», ha detto Barbaro. «Il 60 per cento di queste attività non riaprirà anche perché i ristori sin qui avuti sono irrisori. Ormai di sport non si parla nemmeno più, sembra scontato che debba rimanere chiuso. Senza considerare che la pratica sportiva abbatte sensibilmente il rischio di malattie e che le palestre non sono veicolo di contagio». Già: di piscine e palestre si parla poco, sempre dando per scontato che riaprire non si possa, ed è un automatismo mentale piuttosto strano. Sembra quasi passato il concetto che fare esercizio fisico aumenti il contagio. È un'imposizione ideologica che ci trasciniamo dietro dal primo lockdown, dai mesi in cui si bastonava chiunque desiderasse anche solo farsi una corsetta o una passeggiata all'aperto. Se ci riflettete, noterete che il paradosso è clamoroso. L'emergenza coronavirus ha sancito la definitiva affermazione della religione del corpo. In nome della sopravvivenza fisica, cioè della conservazione della nostra carne, siamo stati disposti a qualunque sacrificio dello spirito. Primum sopravvivere, poi il resto. Fortunatamente, c'è stato chi ha fatto notare che rinunciare alle messe non si può e c'è chi ancora ribadisce che rinunciare alla cultura è un suicido, morale innanzitutto. Ebbene, rinunciare all'esercizio fisico è, da molti punti di vista, anche peggiore. Da qualche anno a questa parte ci siamo abituati a considerare l'attività ginnica soltanto nella prospettiva dell'efficienza. Il discorso dominante ci ha imposto di considerarla indispensabile per mantenerci belli, magri, scattanti, funzionali in ogni ambito dell'esistenza ridotta a mercato. Ma non appena il quadro cambia e i contorni dell'efficienza vengono modificati, quello che chiamiamo sport cade nel dimenticatoio. Oggi ci viene richiesto di fornire un diverso tipo di prestazione: dobbiamo stare buoni e obbedienti, rispettare i divieti e igienizzarci. Al massimo arrangiarci a casa con qualche tutorial. Ora, con la scusa di preservare il corpo, colpiamo la nostra anima, ma pure lo stesso corpo. L'intera tradizione europea e occidentale ci insegna che una «buona vita» passa dall'unione felice di spirito e carne, di corpo e anima. Per i greci valeva la regola del «bello e buono», nel senso che il saggio esercitava la cura di sé in ogni ambito. Il ginnasio, la palestra, era insieme luogo di filosofia e allenamento. Nel cristianesimo tale unione non viene meno. Nella Quaresima che stiamo attraversando, ad esempio, il corpo non è mortificato, bensì purificato, di modo che il credente possa accogliere Cristo nel cuore e nelle membra. Eccoci al punto. In tempi di pandemia, esercizio e rafforzamento del corpo sarebbero fondamentali. È così folle pensare che, con tutte le precauzioni del caso, si possa riprendere a praticarli? Vero: teatri e luoghi di cultura custodiscono il senso profondo della nostra identità. Ma lo stesso vale per i luoghi in cui il corpo si mantiene in forma, allenato. Essere «sani», dopo tutto, non significa soltanto evitare le malattie. Significa, prima di tutto, vivere una vita buona. Cosa che da un anno ci viene impedita.
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