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2018-03-20
Dopo un anno
nulla è cambiato: Ong e governo ci prendono per i fondelli
ANSA
A poco meno di un anno di distanza, ci tocca rivedere lo stesso, pessimo film. La nave della Ong spagnola Proactiva open arms è stata posta sotto sequestro a Pozzallo proprio come accadde alla Iuventa, imbarcazione dell'organizzazione tedesca Jugend Rettet, fermata il 2 agosto scorso. L'accusa è sempre la medesima: associazione per delinquere finalizzata all'immigrazione clandestina. Sono identiche perfino le polemiche: gli attivisti «umanitari» si sbracciano e protestano, sostenendo che l'Italia abbia introdotto «il reato di solidarietà». Le animucce pie di casa nostra già sono scese il campo, a partire da Gad Lerner, secondo cui «il sequestro a Pozzallo della nave Proactiva open arms che ha tratto in salvo 218 migranti sembra anticipare le scelte politiche dei vincitori delle elezioni: criminalizzazione delle Ong, la solidarietà in mare diventa reato». Tutto già visto, tutto già sentito. Compreso il grottesco valzer di attacchi a Carmelo Zuccaro, procuratore di Catania che per primo, parecchi mesi fa, ha avuto il coraggio di schierarsi contro i taxi del mare e che oggi continua a fare il proprio lavoro nonostante l'assalto mediatico.
Viene da chiedersi: ma la questione Ong non l'avevamo già risolta? Il governo ci aveva fatto credere che non ci sarebbero più stati problemi, grazie al meraviglioso «codice di condotta» elaborato da Marco Minniti con il benestare dell'Unione europea. Eppure, guarda un po', adesso scopriamo che non abbiamo risolto proprio un bel nulla. Le Ong, in questi mesi, hanno continuato a operare nel Mediterraneo, con poche eccezioni. Vero, hanno traghettato sulle nostre coste meno migranti, ma questo perché le partenze dalla Libia sono state ridotte, almeno per qualche mese. Una situazione che presto, tuttavia, potrebbe cambiare.
Ora che la campagna elettorale è finita e che la bella stagione è in arrivo, pare che i flussi provenienti dal Nord Africa potrebbero aumentare di nuovo. Non lo diciamo noi, bensì il Viminale, che lo ha messo nero su bianco in una nota di cui ha dato conto il Messaggero sabato scorso. Tutto questo dimostra che il caos migratorio, nonostante i roboanti proclami di Minniti, del premier Paolo Gentiloni e di tutti gli altri, non è affatto concluso.
Non solo continuiamo a patire le conseguenze dell'immigrazione forzata dal punto di vista della sicurezza (stupri, omicidi, aggressioni, rivolte nei centri di accoglienza), ma non abbiamo messo la parola fine nemmeno sugli sbarchi. La questione Ong è stata semplicemente tamponata. Lo dimostra il fatto che i signori attivisti hanno continuato a seguire una sola legge: quella dell'ideologia. Riccardo Gatti, capo missione di Proactiva, lo ha detto chiaramente: «In Libia non ci sono porti sicuri e non vogliamo essere complici di quello che i governi italiano e libico hanno deciso in barba al diritto internazionale». Come a dire: ce ne freghiamo degli accordi internazionali e delle regole stabilite dalle autorità italiane, noi vogliamo portare i migranti sulle coste della Penisola. L'Ue, dal canto suo, si è limitata a sbuffare. La portavoce della Commissione europea per le migrazioni, Natasha Bertaud, ha dichiarato che «tutte le parti coinvolte» devono rispettare «il diritto internazionale, ma anche il codice di condotta italiano». Bella forza.
Nel frattempo, la nave spagnola è entrata in Italia e i migranti a bordo sono sbarcati qui (compresi due scafisti), mica a Malta o in Spagna. Dobbiamo soltanto sperare che gli investigatori riescano finalmente a inchiodare questi trafficanti travestiti da benefattori. E che arrivi presto un governo che, in materia d'immigrazione, non si limiti a raccontare frottole.
Francesco Borgonovo
Le Ong se ne fregano: «Li portiamo in Italia»
L'unico scopo della Ong era quello di portare in Italia i migranti, anche a costo di violare la legge e gli accordi internazionali. La Procura di Catania, che ha sequestrato la nave Open arms della spagnola Proactiva, sottolinea questo aspetto nel provvedimento giudiziario: «C'era la volontà» di recuperare in acque libiche i migranti e di fare la traversata fino ai porti italiani. E quella che la Ong indagata chiama «solidarietà», per i giudici ha un altro nome: associazione a delinquere finalizzata all'immigrazione clandestina.
Gli indagati sono il coordinatore della Ong Gerard Canals, che si trova in Spagna, il comandante della nave Marc Reig Creus e il capo della missione Ana Isabel Montes Mier. Gli ultimi due sono accusati anche di non aver rispettato le disposizioni imposte dalla Guardia costiera italiana dopo aver soccorso a poche miglia dalla costa libica il barcone che trasportava i migranti e di essersi rifiutati di consegnarli immediatamente alla polizia marittima di Tripoli. La loro posizione è andata a completare i tasselli che la Procura di Catania, guidata da Carmelo Zuccaro, stava raccogliendo sulla Ong. Ed è scattato il sequestro. Il secondo dopo quello della nave Iuventa della Ong tedesca Jungen Retten, lo scorso agosto (l'indagine, confermano alla Verità da Trapani, è vicina alla chiusura), ma il primo dopo la firma del codice per le Ong al quale Open Arms aveva deciso di aderire.
Gli investigatori sono saliti a bordo poche ore dopo lo sbarco dei 218 migranti, l'altro giorno, nel porto di Pozzallo (ora li stanno identificando e poi verranno assegnati ai centri d'accoglienza), per notificare al capitano che la nave che da quel momento doveva restare al molo. Per ricostruire i fatti bisogna tornare al 15 marzo, quando dalla nave hanno risposto a un Sos lanciato dal gommone carico di migranti che si trovava in acque libiche «nonostante la Guardia costiera avesse assunto il comando delle operazioni». Il personale della Open arms si impone e riesce a ottenere il via libera al salvataggio. Poco dopo, però, viene comunicato via radio un attacco dalla Libia. Per questo viene chiesto all'Italia di poter attraccare in un porto siciliano. Il centro di coordinamento della Guardia costiera risponde che la responsabilità di quelle acque è dei libici e che quindi bisogna portare lì i migranti. E invece la nave continua la traversata. Il giorno dopo arriva in acque maltesi. Lì il medico di bordo comunica che è necessario sbarcare un bimbo di tre mesi e sua madre. Le autorità concedono l'ok e chiedono al capitano se hanno altri migranti da far scendere, ma dalla Open arms fanno sapere che proseguiranno la navigazione verso l'Italia. Il centro di coordinamento di Roma, a quel punto, comunica che la richiesta andava fatta al proprio Stato, ossia alla Spagna. Ma Open arms arriva in acque italiane e alla fine ottiene il via libera per Pozzallo. Ma dal centro di coordinamento, insieme all'indicazione alle autorità portuali per l'attracco, viene inviata anche la segnalazione alla magistratura. Subito dopo lo sbarco la polizia ferma due uomini: Alpha Oumar Bamgoura, 25enne senegalese, e Mohammed Alnema Yusef, sudanese di 28 anni. Secondo i testimoni sarebbero loro ad aver guidato l'imbarcazione partita dalle coste tunisine. I migranti sono salpati dalla Libia e hanno pagato circa 600 dollari ciascuno. Grazie alle testimonianze è emerso che i due indagati si sono occupati uno di timonare il gommone, l'altro di mantenere la rotta con la bussola. I migranti erano quindi scortati da trafficanti di esseri umani. E sono stati proprio loro a lanciare l'Sos al quale ha risposto Open arms. Ora, però, uno dei capi missione, Riccardo Gatti, accusa: «Per la prima volta il centro della Guardia costiera di Roma ci ha prima detto di raggiungere il luogo del naufragio per poi intervenire e cedere il coordinamento delle operazioni di soccorso ai libici. Noi non abbiamo accettato, perché in Libia non ci sono porti sicuri e non vogliamo essere complici di quello che i governi italiano e libico hanno deciso in barba al diritto internazionale». Ora sarà il gip di Ragusa a decidere sul sequestro. Nel frattempo i legali della Ong cercano di correre ai ripari. «Le dichiarazioni spontanee rese dall'equipaggio e le notifiche dei provvedimenti sono avvenute in assenza di un traduttore ufficiale», denuncia l'avvocato Rosa Emanuela Lo Faro, legale di Proactiva. E su twitter Oscar Camps, direttore della Ong, ha rincarato la dose: «L'Italia in prima linea e l'Unione europea dietro vogliono farci pagare ciò che dovremmo fare. Il crimine di solidarietà è stato inventato».
Ma secondo i magistrati, «i responsabili della Ong hanno agito con l'unico scopo di approdare in Italia benché ciò non fosse imposto dalla situazione, in quanto avrebbero dovuto attenersi alle disposizioni della Guardia costiera». E invece «non hanno seguito le indicazioni di andare a Malta, porto più vicino, nonostante avrebbe costituito un approdo comodo e sicuro per le vite dei migranti». I migranti, insomma, dovevano arrivare in Italia. A tutti i costi.
Fabio Amendolara
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Riduci
Sequestrata a Pozzallo la nave degli attivisti spagnoli di Proactiva open arms. Il capo missione: «In Libia non ci sono porti sicuri Abbiamo disobbedito a Roma, non siamo complici». Fermati anche due africani presenti a bordo, sospettati di essere scafisti. Le false promesse vengono al pettine. Il caos immigrazione non è stato risolto nonostante le dichiarazioni del governo.A poco meno di un anno di distanza, ci tocca rivedere lo stesso, pessimo film. La nave della Ong spagnola Proactiva open arms è stata posta sotto sequestro a Pozzallo proprio come accadde alla Iuventa, imbarcazione dell'organizzazione tedesca Jugend Rettet, fermata il 2 agosto scorso. L'accusa è sempre la medesima: associazione per delinquere finalizzata all'immigrazione clandestina. Sono identiche perfino le polemiche: gli attivisti «umanitari» si sbracciano e protestano, sostenendo che l'Italia abbia introdotto «il reato di solidarietà». Le animucce pie di casa nostra già sono scese il campo, a partire da Gad Lerner, secondo cui «il sequestro a Pozzallo della nave Proactiva open arms che ha tratto in salvo 218 migranti sembra anticipare le scelte politiche dei vincitori delle elezioni: criminalizzazione delle Ong, la solidarietà in mare diventa reato». Tutto già visto, tutto già sentito. Compreso il grottesco valzer di attacchi a Carmelo Zuccaro, procuratore di Catania che per primo, parecchi mesi fa, ha avuto il coraggio di schierarsi contro i taxi del mare e che oggi continua a fare il proprio lavoro nonostante l'assalto mediatico.Viene da chiedersi: ma la questione Ong non l'avevamo già risolta? Il governo ci aveva fatto credere che non ci sarebbero più stati problemi, grazie al meraviglioso «codice di condotta» elaborato da Marco Minniti con il benestare dell'Unione europea. Eppure, guarda un po', adesso scopriamo che non abbiamo risolto proprio un bel nulla. Le Ong, in questi mesi, hanno continuato a operare nel Mediterraneo, con poche eccezioni. Vero, hanno traghettato sulle nostre coste meno migranti, ma questo perché le partenze dalla Libia sono state ridotte, almeno per qualche mese. Una situazione che presto, tuttavia, potrebbe cambiare.Ora che la campagna elettorale è finita e che la bella stagione è in arrivo, pare che i flussi provenienti dal Nord Africa potrebbero aumentare di nuovo. Non lo diciamo noi, bensì il Viminale, che lo ha messo nero su bianco in una nota di cui ha dato conto il Messaggero sabato scorso. Tutto questo dimostra che il caos migratorio, nonostante i roboanti proclami di Minniti, del premier Paolo Gentiloni e di tutti gli altri, non è affatto concluso.Non solo continuiamo a patire le conseguenze dell'immigrazione forzata dal punto di vista della sicurezza (stupri, omicidi, aggressioni, rivolte nei centri di accoglienza), ma non abbiamo messo la parola fine nemmeno sugli sbarchi. La questione Ong è stata semplicemente tamponata. Lo dimostra il fatto che i signori attivisti hanno continuato a seguire una sola legge: quella dell'ideologia. Riccardo Gatti, capo missione di Proactiva, lo ha detto chiaramente: «In Libia non ci sono porti sicuri e non vogliamo essere complici di quello che i governi italiano e libico hanno deciso in barba al diritto internazionale». Come a dire: ce ne freghiamo degli accordi internazionali e delle regole stabilite dalle autorità italiane, noi vogliamo portare i migranti sulle coste della Penisola. L'Ue, dal canto suo, si è limitata a sbuffare. La portavoce della Commissione europea per le migrazioni, Natasha Bertaud, ha dichiarato che «tutte le parti coinvolte» devono rispettare «il diritto internazionale, ma anche il codice di condotta italiano». Bella forza.Nel frattempo, la nave spagnola è entrata in Italia e i migranti a bordo sono sbarcati qui (compresi due scafisti), mica a Malta o in Spagna. Dobbiamo soltanto sperare che gli investigatori riescano finalmente a inchiodare questi trafficanti travestiti da benefattori. E che arrivi presto un governo che, in materia d'immigrazione, non si limiti a raccontare frottole.Francesco Borgonovo<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/ong-governo-immigranti-zuccaro-2550035537.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="le-ong-se-ne-fregano-li-portiamo-in-italia" data-post-id="2550035537" data-published-at="1765634425" data-use-pagination="False"> Le Ong se ne fregano: «Li portiamo in Italia» L'unico scopo della Ong era quello di portare in Italia i migranti, anche a costo di violare la legge e gli accordi internazionali. La Procura di Catania, che ha sequestrato la nave Open arms della spagnola Proactiva, sottolinea questo aspetto nel provvedimento giudiziario: «C'era la volontà» di recuperare in acque libiche i migranti e di fare la traversata fino ai porti italiani. E quella che la Ong indagata chiama «solidarietà», per i giudici ha un altro nome: associazione a delinquere finalizzata all'immigrazione clandestina.Gli indagati sono il coordinatore della Ong Gerard Canals, che si trova in Spagna, il comandante della nave Marc Reig Creus e il capo della missione Ana Isabel Montes Mier. Gli ultimi due sono accusati anche di non aver rispettato le disposizioni imposte dalla Guardia costiera italiana dopo aver soccorso a poche miglia dalla costa libica il barcone che trasportava i migranti e di essersi rifiutati di consegnarli immediatamente alla polizia marittima di Tripoli. La loro posizione è andata a completare i tasselli che la Procura di Catania, guidata da Carmelo Zuccaro, stava raccogliendo sulla Ong. Ed è scattato il sequestro. Il secondo dopo quello della nave Iuventa della Ong tedesca Jungen Retten, lo scorso agosto (l'indagine, confermano alla Verità da Trapani, è vicina alla chiusura), ma il primo dopo la firma del codice per le Ong al quale Open Arms aveva deciso di aderire.Gli investigatori sono saliti a bordo poche ore dopo lo sbarco dei 218 migranti, l'altro giorno, nel porto di Pozzallo (ora li stanno identificando e poi verranno assegnati ai centri d'accoglienza), per notificare al capitano che la nave che da quel momento doveva restare al molo. Per ricostruire i fatti bisogna tornare al 15 marzo, quando dalla nave hanno risposto a un Sos lanciato dal gommone carico di migranti che si trovava in acque libiche «nonostante la Guardia costiera avesse assunto il comando delle operazioni». Il personale della Open arms si impone e riesce a ottenere il via libera al salvataggio. Poco dopo, però, viene comunicato via radio un attacco dalla Libia. Per questo viene chiesto all'Italia di poter attraccare in un porto siciliano. Il centro di coordinamento della Guardia costiera risponde che la responsabilità di quelle acque è dei libici e che quindi bisogna portare lì i migranti. E invece la nave continua la traversata. Il giorno dopo arriva in acque maltesi. Lì il medico di bordo comunica che è necessario sbarcare un bimbo di tre mesi e sua madre. Le autorità concedono l'ok e chiedono al capitano se hanno altri migranti da far scendere, ma dalla Open arms fanno sapere che proseguiranno la navigazione verso l'Italia. Il centro di coordinamento di Roma, a quel punto, comunica che la richiesta andava fatta al proprio Stato, ossia alla Spagna. Ma Open arms arriva in acque italiane e alla fine ottiene il via libera per Pozzallo. Ma dal centro di coordinamento, insieme all'indicazione alle autorità portuali per l'attracco, viene inviata anche la segnalazione alla magistratura. Subito dopo lo sbarco la polizia ferma due uomini: Alpha Oumar Bamgoura, 25enne senegalese, e Mohammed Alnema Yusef, sudanese di 28 anni. Secondo i testimoni sarebbero loro ad aver guidato l'imbarcazione partita dalle coste tunisine. I migranti sono salpati dalla Libia e hanno pagato circa 600 dollari ciascuno. Grazie alle testimonianze è emerso che i due indagati si sono occupati uno di timonare il gommone, l'altro di mantenere la rotta con la bussola. I migranti erano quindi scortati da trafficanti di esseri umani. E sono stati proprio loro a lanciare l'Sos al quale ha risposto Open arms. Ora, però, uno dei capi missione, Riccardo Gatti, accusa: «Per la prima volta il centro della Guardia costiera di Roma ci ha prima detto di raggiungere il luogo del naufragio per poi intervenire e cedere il coordinamento delle operazioni di soccorso ai libici. Noi non abbiamo accettato, perché in Libia non ci sono porti sicuri e non vogliamo essere complici di quello che i governi italiano e libico hanno deciso in barba al diritto internazionale». Ora sarà il gip di Ragusa a decidere sul sequestro. Nel frattempo i legali della Ong cercano di correre ai ripari. «Le dichiarazioni spontanee rese dall'equipaggio e le notifiche dei provvedimenti sono avvenute in assenza di un traduttore ufficiale», denuncia l'avvocato Rosa Emanuela Lo Faro, legale di Proactiva. E su twitter Oscar Camps, direttore della Ong, ha rincarato la dose: «L'Italia in prima linea e l'Unione europea dietro vogliono farci pagare ciò che dovremmo fare. Il crimine di solidarietà è stato inventato».Ma secondo i magistrati, «i responsabili della Ong hanno agito con l'unico scopo di approdare in Italia benché ciò non fosse imposto dalla situazione, in quanto avrebbero dovuto attenersi alle disposizioni della Guardia costiera». E invece «non hanno seguito le indicazioni di andare a Malta, porto più vicino, nonostante avrebbe costituito un approdo comodo e sicuro per le vite dei migranti». I migranti, insomma, dovevano arrivare in Italia. A tutti i costi.Fabio Amendolara
Kaja Kallas (Ansa)
Kallas è il falco della Commissione, quando si tratta di Russia, e tiene a rimarcarlo. A proposito dei fondi russi depositati presso Euroclear, l’estone dice nell’intervista che il Belgio non deve temere una eventuale azione di responsabilità da parte della Russia, perché «se davvero la Russia ricorresse in tribunale per ottenere il rilascio di questi asset o per affermare che la decisione non è conforme al diritto internazionale, allora dovrebbe rivolgersi all’Ue, quindi tutti condivideremmo l’onere».
In pratica, cioè, l’interpretazione piuttosto avventurosa di Kallas è che tutti gli Stati membri sarebbero responsabili in solido con il Belgio se Mosca dovesse ottenere ragione da qualche tribunale sul sequestro e l’utilizzo dei suoi fondi.
Tribunale sui cui l’intervistata è scettica: «A quale tribunale si rivolgerebbe (Putin, ndr)? E quale tribunale deciderebbe, dopo le distruzioni causate in Ucraina, che i soldi debbano essere restituiti alla Russia senza che abbia pagato le riparazioni?». Qui l’alto rappresentante prefigura uno scenario, quello del pagamento delle riparazioni di guerra, che non ha molte chance di vedere realizzato.
All’intervistatore che chiede perché per finanziare la guerra non si usino gli eurobond, cioè un debito comune europeo, Kallas risponde: «Io ho sostenuto gli eurobond, ma c’è stato un chiaro blocco da parte dei Paesi Frugali, che hanno detto che non possono farlo approvare dai loro Parlamenti». È ovvio. La Germania e i suoi satelliti del Nord Europa non vogliano cedere su una questione sulla quale non hanno mai ceduto e per la quale, peraltro, occorre una modifica dei trattati su cui serve l’unanimità e la ratifica poi di tutti i parlamenti. Con il vento politico di destra che soffia in tutta Europa, con Afd oltre il 25% in Germania, è una opzione politicamente impraticabile. Dire eurobond significa gettare la palla in tribuna.
In merito all’adesione dell’Ucraina all’Unione europea già nel 2027, come vorrebbe il piano di pace americano, Kallas se la cava con lunghe perifrasi evitando di prendere posizione. Secondo l’estone, l’adesione all’Ue è una questione di merito e devono decidere gli Stati membri. Ma nel piano questo punto è importante e sembra difficile che venga accantonato.
Kallas poi reclama a gran voce un posto per l’Unione al tavolo della pace: «Il piano deve essere tra Russia e Ucraina. E quando si tratta dell’architettura di sicurezza europea, noi dobbiamo avere voce in capitolo. I confini non possono essere cambiati con la forza. Non ci dovrebbero essere concessioni territoriali né riconoscimento dell’occupazione». Ma lo stesso Zelensky sembra ormai convinto che almeno un referendum sulla questione del Donbass sia possibile. Insomma, Kallas resta oltranzista ma i fatti l’hanno già superata.
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Riduci
Carlo Messina all'inaugurazione dell'Anno Accademico della Luiss (Ansa)
La domanda è retorica, provocatoria e risuona in aula magna come un monito ad alzare lo sguardo, a non limitarsi a contare i droni e limare i mirini, perché la risposta è un’altra. «In Europa abbiamo più poveri e disuguaglianza di quelli che sono i rischi potenziali che derivano da una minaccia reale, e non percepita o teorica, di una guerra». Un discorso ecumenico, realistico, che evoca l’immagine dell’esercito più dolente e sfinito, quello di chi lotta per uscire dalla povertà. «Perché è vero che riguardo a welfare e democrazia non c’è al mondo luogo comparabile all’Europa, ma siamo deboli se investiamo sulla difesa e non contro la povertà e le disuguaglianze».
Le parole non scivolano via ma si fermano a suggerire riflessioni. Perché è importante che un finanziere - anzi colui che per il 2024 è stato premiato come banchiere europeo dell’anno - abbia un approccio sociale più solido e lungimirante delle istituzioni sovranazionali deputate. E lo dimostri proprio nelle settimane in cui sentiamo avvicinarsi i tamburi di Bruxelles con uscite guerrafondaie come «resisteremo più di Putin», «per la guerra non abbiamo fatto abbastanza» (Kaja Kallas, Alto rappresentante per la politica estera) o «se vogliamo evitare la guerra dobbiamo preparaci alla guerra», «dobbiamo produrre più armi, come abbiamo fatto con i vaccini» (Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea).
Una divergenza formidabile. La conferma plastica che l’Europa dei diritti, nella quale ogni minoranza possibile viene tutelata, si sta dimenticando di salvaguardare quelli dei cittadini comuni che alzandosi al mattino non hanno come priorità la misura dell’elmetto rispetto alla circonferenza cranica, ma il lavoro, la famiglia, il destino dei figli e la difesa dei valori primari. Il ceo di Banca Intesa ricorda che il suo gruppo ha destinato 1,5 miliardi per combattere la povertà, sottolinea che la grande forza del nostro Paese sta «nel formidabile mondo delle imprese e nel risparmio delle famiglie, senza eguali in Europa». E sprona le altre grandi aziende: «In Italia non possiamo aspettarci che faccia tutto il governo, se ci sono aziende che fanno utili potrebbero destinarne una parte per intervenire sulle disuguaglianze. Ogni azienda dovrebbe anche lavorare perché i salari vengano aumentati. Sono uno dei punti di debolezza del nostro Paese e aumentarli è una priorità strategica».
Con l’Europa Carlo Messina non ha finito. Parlando di imprenditoria e di catene di comando, coglie l’occasione per toccare in altro nervo scoperto, perfino più strutturale dell’innamoramento bellicista. «Se un’azienda fosse condotta con meccanismi di governance come quelli dell’Unione Europea fallirebbe». Un autentico missile Tomahawk diretto alla burocrazia continentale, a quei «nani di Zurigo» (copyright Woodrow Wilson) trasferitisi a Bruxelles. La spiegazione è evidente. «Per competere in un contesto globale serve un cambio di passo. Quella europea è una governance che non si vede in nessun Paese del mondo e in nessuna azienda. Perché è incapace di prendere decisioni rapide e quando le prende c’è lentezza nella realizzazione. Oppure non incidono realmente sulle cose che servono all’Europa».
Il banchiere è favorevole a un ministero dell’Economia unico e ritiene che il vincolo dell’unanimità debba essere tolto. «Abbiamo creato una banca centrale che gestisce la moneta di Paesi che devono decidere all’unanimità. Questo è uno degli aspetti drammatici». Ma per uno Stato sovrano che aderisce al club dei 27 è anche l’unica garanzia di non dover sottostare all’arroganza (già ampiamente sperimentata) di Francia e Germania, che trarrebbero vantaggi ancora più consistenti senza quel freno procedurale.
Il richiamo a efficienza e rapidità riguarda anche l’inadeguatezza del burosauro e riecheggia la famosa battuta di Franz Joseph Strauss: «I 10 comandamenti contengono 279 parole, la dichiarazione americana d’indipendenza 300, la disposizione Ue sull’importazione di caramelle esattamente 25.911». Un esempio di questa settimana. A causa della superfetazione di tavoli e di passaggi, l’accordo del Consiglio Affari interni Ue sui rimpatri dei migranti irregolari e sulla liceità degli hub in Paesi terzi (recepito anche dal Consiglio d’Europa) entrerà in vigore non fra 60 giorni o 6 mesi, ma se va bene fra un anno e mezzo. Campa cavallo.
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Riduci
Luca Casarini. Nel riquadro, il manifesto abusivo comparso a Milano (Ansa)
Quando non è tra le onde, Casarini è nel mare di Internet, dove twitta. E pure parecchio. Dice la sua su qualsiasi cosa. Condivide i post dell’Osservatore romano e quelli di Ilaria Salis (del resto, tra i due, è difficile trovare delle differenze, a volte). Ma, soprattutto, attacca le norme del governo e dell’Unione europea in materia di immigrazione. Si sente Davide contro Golia. E lotta, invitando anche ad andare contro la legge. Quando, qualche giorno fa, è stata fermata la nave Humanity 1 (poi rimessa subito in mare dal tribunale di Agrigento) Casarini ha scritto: «Abbatteremo i vostri muri, taglieremo i fili spinati dei vostri campi di concentramento. Faremo fuggire gli innocenti che tenete prigionieri. È già successo nella Storia, succederà ancora. In mare come in terra. La disumanità non vincerà. Fatevene una ragione». Questa volta si sentiva Oskar Schindler, anche se poi va nei cortei pro Pal che inneggiano alla distruzione dello Stato di Israele.
Chi volesse approfondire il suo pensiero, poi, potrebbe andare a leggersi L’Unità del 10 dicembre scorso, il cui titolo è già un programma: Per salvare i migranti dobbiamo forzare le leggi. Nel testo, che risparmiamo al lettore, spiega come l’Ue si sia piegata a Giorgia Meloni e a Donald Trump in materia di immigrazione. I sovranisti (da quanto tempo non sentivamo più questo termine) stanno vincendo. Bisogna fare qualcosa. Bisogna reagire. Ribellarsi. Anche alle leggi. Il nostro, sempre attento ad essere politicamente corretto, se la prende pure con gli albanesi che vivono in un Paese «a metà tra un narcostato e un hub di riciclaggio delle mafie di mezzo mondo, retto da un “dandy” come Rama, più simile al Dandy della banda della Magliana che a quel G.B. Brummel che diede origine al termine». Casarini parla poi di «squadracce» che fanno sparire i migranti e di presunte «soluzioni finali» per questi ultimi. E auspica un modello alternativo, che crei «reti di protezione di migranti e rifugiati, per sottrarli alle future retate che peraltro avverranno in primis nei luoghi di “non accoglienza”, così scientificamente creati nelle nostre città da un programma di smantellamento dei servizi sociali, educativi e sanitari, che mostra oggi i suoi risultati nelle sacche di marginalità in aumento».
Detto, fatto. Qualcuno, in piazzale Cuoco a Milano, ha infatti pensato bene di affiggere dei manifesti anonimi con le indicazioni, per i migranti irregolari, su cosa fare per evitare di finire nei centri di permanenza per i rimpatri, i cosiddetti di Cpr. Nessuna sigla. Nessun contatto. Solo diverse lingue per diffondere il vademecum: l’italiano, certo, ma anche l’arabo e il bengalese in modo che chiunque passi di lì posa capire il messaggio e sfuggire alla legge. Ti bloccano per strada? Non far vedere il passaporto. Devi andare in questura? Presentati con un avvocato. Ti danno un documento di espulsione? Ci sono avvocati gratis (che in realtà pagano gli italiani con le loro tasse). E poi informazioni nel caso in cui qualcuno dovesse finire in un cpr: avrai un telefono, a volte senza videocamera. E ancora: «Se non hai il passaporto del tuo Paese prima di deportarti l’ambasciata ti deve riconoscere. Quindi se non capisci la lingua in cui ti parla non ti deportano. Se ti deportano la polizia italiana ti deve lasciare un foglio che spiega perché ti hanno deportato e quanto tempo deve passare prima di poter ritornare in Europa. È importante informarci e organizzarci insieme per resistere!».
Per Sara Kelany (Fdi), «dire che i Cpr sono “campi di deportazione” e “prigioni per persone senza documenti” è una mistificazione che non serve a tutelare i diritti ma a sostenere e incentivare l’immigrazione irregolare con tutti i rischi che ne conseguono. Nei Cpr vengono trattenuti migranti irregolari socialmente pericolosi, che hanno all’attivo condanne per reati anche molto gravi. Potrà dispiacere a qualche esponente della sinistra o a qualche attivista delle Ong - ogni riferimento a Casarini non è casuale - ma in Italia si rispettano le nostre leggi e non consentiamo a nessuno di aggirarle». Per Francesco Rocca (Fdi), si tratta di «un’affissione abusiva dallo sgradevole odore eversivo».
Casarini, da convertito, diffonde il verbo. Che non è quello che si è incarnato, ma quello che tutela l’immigrato.
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