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2019-12-25
La strada per Tokyo 2020 tra doping e speranze azzurre
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Ansa
Mancano esattamente 212 giorni alle Olimpiadi. Il 24 luglio 2020 a Tokyo, in Giappone, si terrà la cerimonia di inaugurazione della trentaduesima edizione dei giochi. Sebbene in queste ultime settimane i riflettori siano tutti puntati sulla vicenda doping che vedrà, salvo clamorosi colpi di scena, l'esclusione di tutti gli atleti russi, proviamo a fare il punto della situazione su quelle che saranno le discipline, con molte novità, su chi sono gli italiani già qualificati, chi può ancora farlo e chi invece non ci sarà.
A Tokyo, per la prima volta nella storia olimpica, faranno il loro esordio ben quattro nuovi sport, mentre per un altro si potrà celebrare un ritorno a distanza di 28 anni. Si tratta del baseball e del softball, che altro non è che la versione femminile. Queste discipline di squadra erano già state ammesse alle Olimpiadi, rispettivamente, nel 1992 a Barcellona e nel 1996 ad Atlanta, salvo poi essere escluse nel 2012 a Londra. Gli sport che faranno il loro debutto assoluto ai giochi sono il karate, lo skateboarding, il surfing e l'arrampicata sportiva. Si tratta di discipline che porteranno inevitabilmente a tutto il movimento a cinque cerchi una ventata di freschezza oltre che di innovazione e, flessibilità e gioventù nello sviluppo delle Olimpiadi, criteri decisivi nella scelta del Comitato olimpico internazionale, presa in via definitiva a Rio de Janeiro, in Brasile, nel corso della sessione numero 129 del Cio. «I cinque sport sono una combinazione innovativa di eventi, consolidati ed emergenti, popolari in Giappone e si andranno ad aggiungere al lascito dei giochi di Tokyo» aveva affermato il presidente del Cio Thomas Bach.
E gli atleti italiani a che punto sono? A sette mesi dalla rassegna a cinque cerchi possiamo già contare su 166 azzurri qualificati per il Giappone. Un buon numero che supera di poco la metà dell'obiettivo posto dal Coni che in ogni edizione delle Olimpiadi fissa la soglia a circa 300 atleti qualificati. Tra i 166 già qualificati ci sono 83 uomini e 83 donne, distribuiti in 22 discipline differenti, tra cui quattro sport di squadra che sono appunto il softball (15 giocatori), la pallavolo maschile (12 giocatori) e quella femminile (12 giocatori) e la pallanuoto maschile (11 giocatori). Nel nuoto, disciplina nella quale l'Italia dovrà andare a caccia di un cospicuo numero di medaglie, oltre a quattro staffette già ammesse (4x100 stile libero maschile, 4x100 mista maschile, 4x200 stile libero maschile e la 4x100 mista femminile), hanno staccato il pass per la capitale giapponese i due fuoriclasse della vasca Gregorio Paltrinieri, già medaglia d'oro nei 1500 metri stile libero a Rio nel 2016, e Simona Quadarella, all'esordio in una Olimpiade, anche se già nel 2014 a Nanchino, in Cina, era stata la prima nuotatrice italiana ad aver trionfato ai giochi olimpici giovanili, Nicolò Martinenghi nei 100 rana e Margherita Panziera nei 200 dorso. Nel nuoto di fondo possono godere di un pass nominale per la gara dei 10 chilometri Rachele Bruni, Mario Sanzullo e ancora Paltrinieri. Nei tuffi siamo già qualificati nella piattaforma dei 10 metri con Noemi Batki, anche se poi spetterà al direttore tecnico stabilire chi mandare a Tokyo. Nella vela abbiamo già 9 posti da suddividere tra 470 femminile, 470 maschile, laser radial femminile, nacra 17 misto, Rs:x maschile e femminile. Restando in acqua, ma sulla canoa, ci sono già diverse discipline che vedranno tra i protagonisti atleti azzurri. Il K1 200 maschile e il K2 1000 maschile nella canoa velocità, il K1 femminile, il C1 femminile e il K1 maschile nella canoa slalom, il due senza senior maschile, il due senza senior femminile, il doppio pesi leggeri maschile, il quattro senza senior maschile e il quattro di coppia senior maschile nel canottaggio. L'atletica leggera può contare già su due staffette, la 4x100 maschile e quella femminile con cinque posti ciascuno che verranno poi decisi dai direttori tecnici, mentre sia la squadra femminile della ginnastica ritmica (cinque posti più altri due nelle discipline all-around individuali) che di quella artistica (quattro posti più Marco Lodadio agli anelli e Ludovico Edalli nell'all-around individuale) hanno assicurato il biglietto olimpico. In più abbiamo due squadre di ciclismo su strada (cinque atleti nel maschile e quattro nella femminile). Nel taekwondo si è qualificato con un pass nominale Vito Dell'Aquila, nella lotta c'è un posto conquistato da Frank Chamizo Marquez nei 74 chilogrammi stile libero, ma non ancora assegnato dal direttore tecnico, mentre Ludovico Fossali e Laura Rogora guideranno l'avventura italiana nell'arrampicata sportiva. Altre discipline dove l'Italia ha sempre ben figurato sono quelle dei tiri. Andremo a Tokyo con quattro atleti nel tiro a segno (due nella carabina libera 3 posizioni 50 metri maschile, uno nella carabina 10 metri aria compressa maschile, uno nella pistola automatica 25 metri maschile), sei nel tiro a volo (due nel trap femminile, due nello skeet maschile, due nello skeet femminile) e due nel tiro con l'arco. Chiudono l'elenco il pentathlon moderno con Elena Micheli nell'individuale femminile, la coppia del beach volley (ancora da stabilire, anche se il pass lo hanno conquistato gli storici Paolo Nicolai e Daniele Lupo) e l'equitazione con quattro posti nel completo a squadre. Per gli altri che non hanno ancora staccato il pass ci sarà ancora tempo e modo durante le ultime gare di qualificazione preolimpiche nei primi mesi dell'anno.
La nostra campionessa paraolimpica che rischia di saltare Tokyo 2020

Ansa
Da due mesi Martina Caironi, due ori paralimpici nei 100 metri per amputati a Londra 2012 e Rio 2016, è finita nell'occhio del ciclone. E' risultata positiva a un controllo antidoping e rischia di non partecipare alle Olimpiadi di Tokyo nel settembre 2020. Il tema è delicato e complesso. Perché la sostanza che ha usato le serve per curare proprio la ferita alla gamba sinistra che la rende un'atleta paralimpica: nel novembre del 2007 fu investita da una macchina che le schiacciò l'arto poi amputato. Il problema è una crema, il Trofodermin, una pomata che contiene anche il Clostebol, uno steroide anabolizzante. Il pochi lo sanno ma gli atleti paralimpici hanno lo stesso elenco di sostanze vietate degli atleti olimpici e, come loro, chiunque richieda farmaci aggiuntivi per il dolore o il trattamento deve richiedere un'esenzione. Ma è giusto?
Lei già a novembre aveva spiegato così la vicenda. «La crema è stata acquistata nel gennaio 2019 per ulcera all'apice del moncone che avevo da tre mesi. In gennaio ho chiesto al medico federale la possibilità di usare questa crema. Mi è stato detto che non era necessario il Tue (l'autorizzazione all'uso del farmaco per fini terapeutici) per le quantità basse. Tanto che a luglio il test antidoping è risultato negativo. Ma la ferita si è aperta altre due volte. Per questo ho ritenuto di poter continuare in piccole dosi, sicura di non incorrere in alcun tipo di infrazione. Una posizione che mi ha portato all'ultimo controllo antidoping a dichiarare tale sostanza». Pochi giorni fa è arrivato il provvedimento con cui la procura Nazionale Antidoping l'ha deferita alla Seconda Sezione del Tribunale Nazionale Antidoping con la richiesta di un anno di sospensione. Il punto è che è stata la stessa campionessa
Era stata la stessa campionessa paralimpica ad ammettere di aver usato una pomata (Trofodermin) per curare un'ulcera al moncone della gamba amputata e di averlo fatto solo dopo aver consultato il medico federale che le ha precisato come la Tue (esenzione per fini terapeutici) non fosse necessaria per un uso localizzato e non protratto nel tempo.La pena per l'utilizzo di steroidi anabolizzanti prevede una squalifica di quattro anni dalle competizioni sportive. La procura Nazionale Antidoping, dopo aver ascoltato lei e il medico federale coinvolto nella vicenda, ha riconosciuto la non intenzionalità dell'atleta e la necessità terapeutica per l'uso del Trofodermin chiedendo un anno di squalifica. Il legale di Martina, l'avvocato Giovanni Fontana, conta di portare in fase dibattimentale elementi ed argomentazioni a ulteriore discolpa della velocista paralimpica.
«Ci conforta il fatto che la procura antidoping ha riconosciuto l'uso terapeutico del medicinale e non a fini di doping. Questo è già un grande passo in avanti nel dimostrare la correttezza dell'atleta Martina Caironi. Possiamo quindi dire che non si tratta di un caso di doping ma di un errore formale. Ora abbiamo questa richiesta di un anno di sospensione che però ritengo comunque enorme rispetto ad un atleta che ha avuto solo la necessità di curarsi e si è fidata delle indicazioni datele da chi era preposto a questo compito. Indicazioni che poi combaciavano con quanto è scritto nel foglietto illustrativo del Trofodermin ovvero che l'utilizzo terapeutico del medicinale non è doping», dichiara il legale della campionessa paralimpica. Un anno di squalifica però non le permetterebbe comunque di partecipare ai giochi di Tokyo.
Presentato il ricorso, la Russia spera in una seconda «grazia»

Craig Reedie, presidente Wada (Ansa)
Restando in tema di doping non si può ignorare quanto accaduto a inizio dicembre con l'ufficialità dell'esclusione degli atleti russi da tutte le competizioni internazionali e quindi dai giochi olimpici fino al 2022 (Tokyo 2020 e Pechino 2022). La Wada, l'agenzia mondiale antidoping, attribuisce alla Russia l'accusa di aver falsificato i dati di laboratorio forniti nel gennaio del 2019 con l'obiettivo di occultare i casi di doping che avevano visti coinvolti numerosi atleti russi.
Una sentenza senza precedenti nella storia dello sport mondiale, aggravata dalla recidività. Già nel 2015, infatti, si era verificato il cosiddetto «doping di stato» che coinvolgeva non solo atleti, ma anche allenatori, dirigenti e perfino ministri. La Wada aveva offerto alla Russia la possibilità di ripulire la propria posizione in cambio di tutti i dati del laboratorio analogico di Mosca. Dati che, secondo l'agenzia, si sono rivelati falsi e manomessi tanto che il presidente Craig Reedie ha commentato così la stangata inflitta: «Alla Russia è stata offerta ogni opportunità per mettere ordine su tutto ciò che accadeva in casa propria e ricongiungersi alla comunità antidoping, ma ha scelto di continuare nella sua posizione di inganno». Parole alle quali ha prontamente reagito il premier russo Dmitri Medvedev: «La sentenza della Wada va contestata. È una decisione ingiusta che non ha senso e che va contro il diritto internazionale. Il fatto che queste decisioni continuino a ripetersi contro degli atleti che sono già stati sanzionati fa pensare a un'isteria anti Russia che è diventata cronica». A poche ore dal ricorso ufficiale al Tas, il Tribunale arbitrale dello sport di Losanna, presentato il 19 dicembre dall'agenzia antidoping russa Rusada, è arrivata anche la reazione di Vladimir Putin, che nel corso della consueta conferenza stampa di fine anno ha detto: «Se la Wada non ha problemi con il nostro Comitato olimpico, la nostra squadra deve poter gareggiare sotto la sua bandiera. Se la maggior parte degli atleti è pulita come si possono infliggere delle sanzioni per le azioni di altri? Le punizioni devono essere individuali».
Quella che si è scatenata è una vera e propria guerra, non solo sportiva, ma anche informatica. Già alla vigilia delle ultime Olimpiadi invernali del 2018, a Pyeongchang in Corea del Sud, agli atleti russi era stata negata la possibilità di partecipare ai giochi, salvo poi consentirlo a chi aveva dimostrato la completa estraneità agli episodi di doping. Quello che però fece scalpore in quell'occasione fu un attacco informatico che in molti attribuirono proprio alla Russia. Il 9 febbraio, durante la cerimonia di apertura, un gruppo di hacker dell'agenzia di intelligence denominata Gru avrebbe causato il black out di migliaia di computer, smartphone, router wifi e server. Un tentativo di far fallire le Olimpiadi dalle quali erano stati esclusi gli atleti russi per doping. Inizialmente le responsabilità dell'attacco informatico, noto come Olimpiac destroyer, furono attribuite alla Cina e alla Corea del Nord. Eventualità smentita poi da un'indagine condotta dalla società americana di sicurezza di reti informatiche, FireEye, in collaborazione con Google, che accusava proprio la Russia del tentativo di sabotaggio informatico.
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I giochi, in programma dal 24 luglio al 9 agosto, vedono già 166 atleti italiani qualificati, poco oltre la metà rispetto all'obiettivo fissato. Curiosità per 5 nuove discipline: baseball/softball, karate, skateboarding, surfing e arrampicata sportiva.La nostra campionessa paraolimpica Martina Caironi rischia di non partecipare all'edizione giapponese per una crema che le serve per cauterizzare la ferita della gamba amputata. Il pochi lo sanno ma i paralimpici hanno lo stesso elenco di sostanze vietate agli atleti olimpici.A sette mesi dalla cerimonia di apertura incombe il caso doping: la Russia, già graziata una volta, è stata squalificata per quattro anni dalla Wada. Già presentato il ricorso al Tas.Lo speciale contiene tre articoli.Mancano esattamente 212 giorni alle Olimpiadi. Il 24 luglio 2020 a Tokyo, in Giappone, si terrà la cerimonia di inaugurazione della trentaduesima edizione dei giochi. Sebbene in queste ultime settimane i riflettori siano tutti puntati sulla vicenda doping che vedrà, salvo clamorosi colpi di scena, l'esclusione di tutti gli atleti russi, proviamo a fare il punto della situazione su quelle che saranno le discipline, con molte novità, su chi sono gli italiani già qualificati, chi può ancora farlo e chi invece non ci sarà.A Tokyo, per la prima volta nella storia olimpica, faranno il loro esordio ben quattro nuovi sport, mentre per un altro si potrà celebrare un ritorno a distanza di 28 anni. Si tratta del baseball e del softball, che altro non è che la versione femminile. Queste discipline di squadra erano già state ammesse alle Olimpiadi, rispettivamente, nel 1992 a Barcellona e nel 1996 ad Atlanta, salvo poi essere escluse nel 2012 a Londra. Gli sport che faranno il loro debutto assoluto ai giochi sono il karate, lo skateboarding, il surfing e l'arrampicata sportiva. Si tratta di discipline che porteranno inevitabilmente a tutto il movimento a cinque cerchi una ventata di freschezza oltre che di innovazione e, flessibilità e gioventù nello sviluppo delle Olimpiadi, criteri decisivi nella scelta del Comitato olimpico internazionale, presa in via definitiva a Rio de Janeiro, in Brasile, nel corso della sessione numero 129 del Cio. «I cinque sport sono una combinazione innovativa di eventi, consolidati ed emergenti, popolari in Giappone e si andranno ad aggiungere al lascito dei giochi di Tokyo» aveva affermato il presidente del Cio Thomas Bach.E gli atleti italiani a che punto sono? A sette mesi dalla rassegna a cinque cerchi possiamo già contare su 166 azzurri qualificati per il Giappone. Un buon numero che supera di poco la metà dell'obiettivo posto dal Coni che in ogni edizione delle Olimpiadi fissa la soglia a circa 300 atleti qualificati. Tra i 166 già qualificati ci sono 83 uomini e 83 donne, distribuiti in 22 discipline differenti, tra cui quattro sport di squadra che sono appunto il softball (15 giocatori), la pallavolo maschile (12 giocatori) e quella femminile (12 giocatori) e la pallanuoto maschile (11 giocatori). Nel nuoto, disciplina nella quale l'Italia dovrà andare a caccia di un cospicuo numero di medaglie, oltre a quattro staffette già ammesse (4x100 stile libero maschile, 4x100 mista maschile, 4x200 stile libero maschile e la 4x100 mista femminile), hanno staccato il pass per la capitale giapponese i due fuoriclasse della vasca Gregorio Paltrinieri, già medaglia d'oro nei 1500 metri stile libero a Rio nel 2016, e Simona Quadarella, all'esordio in una Olimpiade, anche se già nel 2014 a Nanchino, in Cina, era stata la prima nuotatrice italiana ad aver trionfato ai giochi olimpici giovanili, Nicolò Martinenghi nei 100 rana e Margherita Panziera nei 200 dorso. Nel nuoto di fondo possono godere di un pass nominale per la gara dei 10 chilometri Rachele Bruni, Mario Sanzullo e ancora Paltrinieri. Nei tuffi siamo già qualificati nella piattaforma dei 10 metri con Noemi Batki, anche se poi spetterà al direttore tecnico stabilire chi mandare a Tokyo. Nella vela abbiamo già 9 posti da suddividere tra 470 femminile, 470 maschile, laser radial femminile, nacra 17 misto, Rs:x maschile e femminile. Restando in acqua, ma sulla canoa, ci sono già diverse discipline che vedranno tra i protagonisti atleti azzurri. Il K1 200 maschile e il K2 1000 maschile nella canoa velocità, il K1 femminile, il C1 femminile e il K1 maschile nella canoa slalom, il due senza senior maschile, il due senza senior femminile, il doppio pesi leggeri maschile, il quattro senza senior maschile e il quattro di coppia senior maschile nel canottaggio. L'atletica leggera può contare già su due staffette, la 4x100 maschile e quella femminile con cinque posti ciascuno che verranno poi decisi dai direttori tecnici, mentre sia la squadra femminile della ginnastica ritmica (cinque posti più altri due nelle discipline all-around individuali) che di quella artistica (quattro posti più Marco Lodadio agli anelli e Ludovico Edalli nell'all-around individuale) hanno assicurato il biglietto olimpico. In più abbiamo due squadre di ciclismo su strada (cinque atleti nel maschile e quattro nella femminile). Nel taekwondo si è qualificato con un pass nominale Vito Dell'Aquila, nella lotta c'è un posto conquistato da Frank Chamizo Marquez nei 74 chilogrammi stile libero, ma non ancora assegnato dal direttore tecnico, mentre Ludovico Fossali e Laura Rogora guideranno l'avventura italiana nell'arrampicata sportiva. Altre discipline dove l'Italia ha sempre ben figurato sono quelle dei tiri. Andremo a Tokyo con quattro atleti nel tiro a segno (due nella carabina libera 3 posizioni 50 metri maschile, uno nella carabina 10 metri aria compressa maschile, uno nella pistola automatica 25 metri maschile), sei nel tiro a volo (due nel trap femminile, due nello skeet maschile, due nello skeet femminile) e due nel tiro con l'arco. Chiudono l'elenco il pentathlon moderno con Elena Micheli nell'individuale femminile, la coppia del beach volley (ancora da stabilire, anche se il pass lo hanno conquistato gli storici Paolo Nicolai e Daniele Lupo) e l'equitazione con quattro posti nel completo a squadre. Per gli altri che non hanno ancora staccato il pass ci sarà ancora tempo e modo durante le ultime gare di qualificazione preolimpiche nei primi mesi dell'anno.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/olimpiadi-e-doping-2641666497.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-nostra-campionessa-paraolimpica-che-rischia-di-saltare-tokyo-2020" data-post-id="2641666497" data-published-at="1766348659" data-use-pagination="False"> La nostra campionessa paraolimpica che rischia di saltare Tokyo 2020 Ansa Da due mesi Martina Caironi, due ori paralimpici nei 100 metri per amputati a Londra 2012 e Rio 2016, è finita nell'occhio del ciclone. E' risultata positiva a un controllo antidoping e rischia di non partecipare alle Olimpiadi di Tokyo nel settembre 2020. Il tema è delicato e complesso. Perché la sostanza che ha usato le serve per curare proprio la ferita alla gamba sinistra che la rende un'atleta paralimpica: nel novembre del 2007 fu investita da una macchina che le schiacciò l'arto poi amputato. Il problema è una crema, il Trofodermin, una pomata che contiene anche il Clostebol, uno steroide anabolizzante. Il pochi lo sanno ma gli atleti paralimpici hanno lo stesso elenco di sostanze vietate degli atleti olimpici e, come loro, chiunque richieda farmaci aggiuntivi per il dolore o il trattamento deve richiedere un'esenzione. Ma è giusto? Lei già a novembre aveva spiegato così la vicenda. «La crema è stata acquistata nel gennaio 2019 per ulcera all'apice del moncone che avevo da tre mesi. In gennaio ho chiesto al medico federale la possibilità di usare questa crema. Mi è stato detto che non era necessario il Tue (l'autorizzazione all'uso del farmaco per fini terapeutici) per le quantità basse. Tanto che a luglio il test antidoping è risultato negativo. Ma la ferita si è aperta altre due volte. Per questo ho ritenuto di poter continuare in piccole dosi, sicura di non incorrere in alcun tipo di infrazione. Una posizione che mi ha portato all'ultimo controllo antidoping a dichiarare tale sostanza». Pochi giorni fa è arrivato il provvedimento con cui la procura Nazionale Antidoping l'ha deferita alla Seconda Sezione del Tribunale Nazionale Antidoping con la richiesta di un anno di sospensione. Il punto è che è stata la stessa campionessaEra stata la stessa campionessa paralimpica ad ammettere di aver usato una pomata (Trofodermin) per curare un'ulcera al moncone della gamba amputata e di averlo fatto solo dopo aver consultato il medico federale che le ha precisato come la Tue (esenzione per fini terapeutici) non fosse necessaria per un uso localizzato e non protratto nel tempo.La pena per l'utilizzo di steroidi anabolizzanti prevede una squalifica di quattro anni dalle competizioni sportive. La procura Nazionale Antidoping, dopo aver ascoltato lei e il medico federale coinvolto nella vicenda, ha riconosciuto la non intenzionalità dell'atleta e la necessità terapeutica per l'uso del Trofodermin chiedendo un anno di squalifica. Il legale di Martina, l'avvocato Giovanni Fontana, conta di portare in fase dibattimentale elementi ed argomentazioni a ulteriore discolpa della velocista paralimpica.«Ci conforta il fatto che la procura antidoping ha riconosciuto l'uso terapeutico del medicinale e non a fini di doping. Questo è già un grande passo in avanti nel dimostrare la correttezza dell'atleta Martina Caironi. Possiamo quindi dire che non si tratta di un caso di doping ma di un errore formale. Ora abbiamo questa richiesta di un anno di sospensione che però ritengo comunque enorme rispetto ad un atleta che ha avuto solo la necessità di curarsi e si è fidata delle indicazioni datele da chi era preposto a questo compito. Indicazioni che poi combaciavano con quanto è scritto nel foglietto illustrativo del Trofodermin ovvero che l'utilizzo terapeutico del medicinale non è doping», dichiara il legale della campionessa paralimpica. Un anno di squalifica però non le permetterebbe comunque di partecipare ai giochi di Tokyo. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/olimpiadi-e-doping-2641666497.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="presentato-il-ricorso-la-russia-spera-in-una-seconda-grazia" data-post-id="2641666497" data-published-at="1766348659" data-use-pagination="False"> Presentato il ricorso, la Russia spera in una seconda «grazia» Craig Reedie, presidente Wada (Ansa) Restando in tema di doping non si può ignorare quanto accaduto a inizio dicembre con l'ufficialità dell'esclusione degli atleti russi da tutte le competizioni internazionali e quindi dai giochi olimpici fino al 2022 (Tokyo 2020 e Pechino 2022). La Wada, l'agenzia mondiale antidoping, attribuisce alla Russia l'accusa di aver falsificato i dati di laboratorio forniti nel gennaio del 2019 con l'obiettivo di occultare i casi di doping che avevano visti coinvolti numerosi atleti russi.Una sentenza senza precedenti nella storia dello sport mondiale, aggravata dalla recidività. Già nel 2015, infatti, si era verificato il cosiddetto «doping di stato» che coinvolgeva non solo atleti, ma anche allenatori, dirigenti e perfino ministri. La Wada aveva offerto alla Russia la possibilità di ripulire la propria posizione in cambio di tutti i dati del laboratorio analogico di Mosca. Dati che, secondo l'agenzia, si sono rivelati falsi e manomessi tanto che il presidente Craig Reedie ha commentato così la stangata inflitta: «Alla Russia è stata offerta ogni opportunità per mettere ordine su tutto ciò che accadeva in casa propria e ricongiungersi alla comunità antidoping, ma ha scelto di continuare nella sua posizione di inganno». Parole alle quali ha prontamente reagito il premier russo Dmitri Medvedev: «La sentenza della Wada va contestata. È una decisione ingiusta che non ha senso e che va contro il diritto internazionale. Il fatto che queste decisioni continuino a ripetersi contro degli atleti che sono già stati sanzionati fa pensare a un'isteria anti Russia che è diventata cronica». A poche ore dal ricorso ufficiale al Tas, il Tribunale arbitrale dello sport di Losanna, presentato il 19 dicembre dall'agenzia antidoping russa Rusada, è arrivata anche la reazione di Vladimir Putin, che nel corso della consueta conferenza stampa di fine anno ha detto: «Se la Wada non ha problemi con il nostro Comitato olimpico, la nostra squadra deve poter gareggiare sotto la sua bandiera. Se la maggior parte degli atleti è pulita come si possono infliggere delle sanzioni per le azioni di altri? Le punizioni devono essere individuali».Quella che si è scatenata è una vera e propria guerra, non solo sportiva, ma anche informatica. Già alla vigilia delle ultime Olimpiadi invernali del 2018, a Pyeongchang in Corea del Sud, agli atleti russi era stata negata la possibilità di partecipare ai giochi, salvo poi consentirlo a chi aveva dimostrato la completa estraneità agli episodi di doping. Quello che però fece scalpore in quell'occasione fu un attacco informatico che in molti attribuirono proprio alla Russia. Il 9 febbraio, durante la cerimonia di apertura, un gruppo di hacker dell'agenzia di intelligence denominata Gru avrebbe causato il black out di migliaia di computer, smartphone, router wifi e server. Un tentativo di far fallire le Olimpiadi dalle quali erano stati esclusi gli atleti russi per doping. Inizialmente le responsabilità dell'attacco informatico, noto come Olimpiac destroyer, furono attribuite alla Cina e alla Corea del Nord. Eventualità smentita poi da un'indagine condotta dalla società americana di sicurezza di reti informatiche, FireEye, in collaborazione con Google, che accusava proprio la Russia del tentativo di sabotaggio informatico.
Bill Clinton e Jeffrey Epstein (Ansa)
Neanche a dirlo, è scoppiato uno scontro tra il Dipartimento di Giustizia e alcuni parlamentari. «La legge approvata dal Congresso e firmata dal presidente Trump era chiarissima: l’amministrazione Trump aveva 30 giorni di tempo per pubblicare tutti i file di Epstein, non solo alcuni. Non farlo equivale a violare la legge. Questo dimostra che il Dipartimento di Giustizia, Donald Trump e Pam Bondi sono determinati a nascondere la verità», ha tuonato il capogruppo dell’Asinello al Senato, Chuck Schumer, mentre il deputato dem Ro Khanna ha ventilato l’ipotesi di un impeachment contro la Bondi. Strali all’amministrazione Trump sono arrivati anche dai deputati Thomas Massie e Marjorie Taylor Greene: due dei principali critici repubblicani dell’attuale presidente americano.
«Il Dipartimento di Giustizia sta pubblicando una massiccia tranche di nuovi documenti che le amministrazioni Biden e Obama si sono rifiutate di divulgare. Il punto è questo: l’amministrazione Trump sta garantendo livelli di trasparenza che le amministrazioni precedenti non avevano mai nemmeno preso in considerazione», ha replicato il dicastero guidato dalla Bondi, per poi aggiungere: «La scadenza iniziale è stata rispettata mentre lavoriamo con diligenza per proteggere le vittime». Insomma, se per i critici di Trump la deadline di venerdì era assoluta e perentoria, il Dipartimento di Giustizia l’ha interpretata come una «scadenza iniziale». Ma non è finita qui. Ulteriori polemiche sono infatti sorte a causa del fatto che numerosi documenti pubblicati venerdì fossero pesantemente segretati: un’accusa a cui il Dipartimento di Giustizia ha replicato, sostenendo di aver voluto tutelare le vittime di Epstein.
Ma che cosa c’è di interessante nei file divulgati venerdì? Innanzitutto, tra i documenti pubblicati l’altro ieri, compare la denuncia presentata all’Fbi nel 1996 contro Epstein da una sua vittima, Maria Farmer. In secondo luogo, sono rispuntate le figure di Trump e Bill Clinton, anche se in misura differente. «Trump è appena visibile nei documenti, con le poche foto che lo ritraggono che sembrano essere di pubblico dominio da decenni. Tra queste, due in cui Trump ed Epstein posano con l’attuale first lady Melania Trump nel febbraio 2000 durante un evento nel suo resort di Mar-a-Lago», ha riferito The Hill. Svariate foto riguardano invece Bill Clinton. In particolare, una ritrae l’ex presidente dem in una piscina insieme alla socia di Epstein, Ghislaine Maxwell, e a un’altra donna dal volto oscurato. In un’altra, Clinton è in una vasca idromassaggio sempre in compagnia di una donna dall’identità celata: una donna che, secondo quanto affermato su X dal portavoce del Dipartimento di Giustizia Gates McGavick, risulterebbe una «vittima». In un’altra foto ancora, l’ex presidente dem è sul sedile di un aereo, con una ragazza che gli cinge il collo con un braccio. Clinton compare infine in foto anche con i cantanti Mick Jagger e Michael Jackson.
«La Casa Bianca non ha nascosto questi file per mesi, per poi pubblicarli a tarda notte di venerdì per proteggere Bill Clinton», ha dichiarato il portavoce di Clinton, Angel Ureña, che ha aggiunto: «Si tratta di proteggersi da ciò che verrà dopo, o da ciò che cercheranno di nascondere per sempre. Così possono pubblicare tutte le foto sgranate di oltre 20 anni che vogliono, ma non si tratta di Bill Clinton». «Persino Susie Wiles ha detto che Donald Trump si sbagliava su Bill Clinton», ha concluso. «Questa è la sua resa dei conti», ha invece dichiarato al New York Post un ex assistente di Clinton, riferendosi proprio all’ex presidente dem. «Voglio dire, se accendete la Cnn, è di questo che stanno parlando. Ho ricevuto un milione di messaggi a riguardo», ha proseguito. «La gente pensa: non posso credere che fosse in una vasca idromassaggio. Chi è quella donna lì dentro?», ha continuato, per poi aggiungere: «Voglio dire, è incredibile. È semplicemente scioccante», ha continuato. Vale la pena di sottolineare che né Trump né Clinton sono accusati di reati in riferimento al caso Epstein. Caso su cui i coniugi Clinton si sono tuttavia recentemente rifiutati di testimoniare alla Camera. Per questo, il presidente della commissione Sorveglianza della Camera stessa, il repubblicano James Comer, ha offerto loro di deporre a gennaio: in caso contrario, ha minacciato di avviare un procedimento per oltraggio al Congresso contro la coppia.
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Il Tribunale dei minori de l'Aquila. Nel riquadro, la famiglia Trevallion Birmingham (Ansa)
Un bambino è un teste fragile estremamente suggestionabile, perché è abituato al fatto che non deve contraddire un adulto, e, soprattutto se il bambino è spaventato, tende a compiacere l’adulto e a dire quello che l’adulto vuole. Ricordiamo che esiste la Carta di Noto, un protocollo di linee guida per l’ascolto del minore in caso di presunti abusi sessuali o maltrattamenti, elaborato da esperti di diverse discipline (magistrati, avvocati, psicologi, ecc.), che sono state sistematicamente disattese per esempio a Bibbiano. Un bambino deportato dalla sua famiglia è per definizione terrorizzato. Il termine corretto per i bambini tolti dalle famiglie dalle assistenti sociali è deportazione. La deportazione avviene all’improvviso, da un istante all’altro, con l’interruzione totale di tutti gli affetti, genitori, nonni, amici, eventuali animali domestici. Il deportato è privato dei suoi oggetti e del suo ambiente e con la proibizione di contatti con la sua vita precedente. Il deportato non ha nessuna padronanza della sua vita. Questo è lo schema della deportazione. Assistenti sociali possono mentire e psicologi possono avvallare queste menzogne con interrogatori suggestivi che portano i bambini a mentire. I motivi sono tre: compiacenza verso superiori o colleghi (è già successo), interesse economico (è già successo), fanatismo nell’applicare le proprie teorie: l’abuso sessuale dei padri sui bambini è diffusissimo, una famiglia non ha il diritto di vivere in un bosco, una madre povera non ha diritto ad allevare suo figlio, i bambini appartengono allo Stato, a meno che non siano rom allora appartengono al clan, un non vaccinato è un nemico del popolo oltre che della scienza e va deportato e vaccinato (è già successo).
Un’assistente sociale può mentire. E dato che la menzogna è teoricamente possibile deve essere necessario, per legge, che a qualsiasi interazione tra lo psicologo e l’assistente sociale e il bambino sia presente un avvocato di parte o un perito di parte, psicologo o altra figura scelta dalla famiglia. È necessario quindi che venga fatta immediatamente una legge che chiarisca che sia vietato una qualsiasi interazione tra il bambino e un adulto, assistente sociale, psicologo, ovviamente magistrato, dove non sia presente un perito di parte o un avvocato. Facciamo un esempio a caso. Supponiamo (siamo nell’ambito delle supposizioni, il posto fantastico dei congiuntivi e dei condizionali) che l’assistente sociale che ha dichiarato che i bambini della famiglia del Bosco sono analfabeti, oltre ad aver compiuto il crimine deontologico gravissimo della violazione di segreto professionale, abbia mentito. Certo è estremamente probabile che i figli di una famiglia con un livello culturale alto, poliglotta, la cui madre lavora in smart working siano analfabeti. È la cosa più logica che ci sia, però supponiamo per ipotesi fantastica che l’assistente sociale abbia mentito. In questo caso è evidente che i bambini non possono tornare a casa per Natale. Se i bambini tornassero a casa in tempi brevi, non sarebbe difficile fare un video dove si dimostra che scrivono benissimo, che leggono benissimo, molto meglio dei coetanei in scuole dove il 90% degli utenti sono stranieri che non sanno nemmeno l’italiano e meno che mai l’inglese, si potrebbe dimostrare che sono perfettamente in grado di farsi una doccia da soli e anche di cucinare un minestrone.
La deportazione di un bambino, coi rapporti troncati da un colpo di ascia, produce danni incalcolabili. I bambini sono stati sottratti ai loro affetti per darli in mano a una tizia talmente interessata al loro interesse che sputtana loro e la loro famiglia davanti a tutta l’Italia e per sempre (il Web non dimentica) con affermazioni (vere?) sul loro analfabetismo e sulla loro incapacità a fare una doccia. Questi bambini rischiano di essere aggrediti e sfottuti dai coetanei per questo, si è spianata la strada a renderli vittime di bullismo per decenni. Con impressionante sprezzo di qualsiasi straccio di deontologia gli operatori, tutti felici di squittire a cani e porci informazioni che dovrebbero essere assolutamente riservate (anche questi il segreto professionale e la deontologia non sanno che cosa siano), ci informano che i bambini annusano con perplessità i vestiti che profumano di pulito. I vestiti non profumano di pulito. Hanno l’odore dei pessimi detersivi industriali reclamizzati alla televisione che deve essere la fonte principale se non l’unica da cui nasce la cultura degli operatori. I loro componenti sono pessimi, non solo inquinanti, ma anche pericolosi per la salute umana a lungo termine: stesso discorso per lo sciampo e il bagno schiuma, soprattutto negli orfanatrofi di Stato, le cosiddette case famiglie, dove si comprano i prodotti meno cari, quindi quelli con i componenti peggiori.
Nessuno dei libricini su cui hanno studiato gli operatori ha spiegato che ci sono ben altri sistemi per garantire una pulizia impeccabile. In tutte le foto che li ritraggono con i genitori, ai tempi distrutti per sempre in cui erano felici, i bambini sono pulitissimi. Tra l’altro tutte queste incredibili esperte di comportamento infantile, non hanno mai sentito parlare di comportamento oppositivo? Un bambino normale, una volta deportato con arbitrio dalla sua vita e dalla sua famiglia, può spezzarsi ed essere malleabile o può resistere ed essere oppositivo. Fai la doccia. Non la voglio fare. Scrivi. Non sono capace. Il bambino oppositivo deve essere frantumato. Non ti mando a casa nemmeno per Natale.
Sia fatta una legge immediatamente. Subito. I bambini del bosco devono avere di fianco un avvocato. Noi popolo italiano, che con le nostre tasse paghiamo i servizi sociali e la deportazione dei bambini, abbiamo il diritto a pretendere che non siano soli. I bambini nel bosco passeranno un Natale da deportati. Qualcuno si sentirà in dovere di informarci che in vita loro non avevano mai mangiato un qualche dolce industriale a base di zucchero, grassi idrogenati e coloranti e che grazie alla deportazione questa lacuna è stata colmata.
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La famiglia Trevallion-Birmingham (Ansa)
È infatti una prepotenza senza significato confrontare una bomba affettiva e esistenziale come tre fratellini che giocano e si vogliono evidentemente bene, accompagnata da genitori altrettanto uniti, e naturalmente affettivi con norme e abitudini di un Paese dove il nucleo abitativo più frequente nelle città più prestigiose consiste in un cittadino singolo. Pretendere che i pochi figli superstiti in qualche «terra di nessuno», con i suoi boschi e le affettuosità (che ancora esistono fuori dalle famiglie-tipo), si uniformino ai secchi diritti e cupe abitudini del sociologico e disperato «gruppo dei pari» è un’operazione di una freddezza stalinista, per fortuna destinata allo scacco. È coltivata da burocrazie che scambiano relazioni profonde e vere, comunque indispensabili alla vita e alla sua felicità, con strumenti tecnici, adoperabili solo quando la famiglia purtroppo non c’è più, molto spesso per l’ottusità e la corruzione dello Stato stesso che le subentra (come racconta Hanna Arendt) quando è riuscito a distruggerla. Se non si vuole creare danni inguaribili, tutti, anche i funzionari dello Stato, dovrebbero fare attenzione a non sostituire gli aspetti già legati all’umano fin dalla creazione del mondo, con pratiche esterne magari infiocchettate dalle burocrazie ma che non c’entrano nulla con la sostanza dell’uomo e la sua capacità di sopravvivere.
Certo, la bimba Utopia Rose, citata nel bel pezzo di Francesco Borgonovo del 18 dicembre, è una testimone insostituibile di un’altra visione del mondo rispetto alle varie ideologie che prevalgono in questo momento, unendo ferocia e ricchezza, cinismo e follia. Impossibile di fronte ai fratellini che tanto scandalizzano le burocrazie perbene non ricordare (oltretutto a pochi giorni dal Natale) l’ordine di Gesù: «Lasciate che questi piccoli vengano a me». Nessuno dubita che entreranno nel Regno prima degli assistenti sociali. Utopia Rose, la più grande, è affettuosa e impegnata, lavoratrice e giocattolona, organizzatrice e sognatrice. Però non è sola (Come si fa a non amarla, e anche un po’ invidiarla?). Non soltanto perché ha i suoi due fratellini, e i tre quarti del pubblico fa il tifo per loro. Ma perché questa visione loro e dei genitori di cercare una vita buona e naturale, semplicemente felice e affettuosa verso sé e verso gli altri e tutto il mondo vivente, cresce con la stessa velocità con la quale si sviluppa l’idolatria verso tutto ciò che è artificiale, fabbricato, mentale, non affettivo. È già qualche anno che chi viene in analisi scopre soprattutto questo: l’urgenza di mettersi al riparo dagli egoismi e pretese grandiose, vuote e fredde, e invece amare. Ormai il fenomeno trasborda nelle cronache. Trasgressione conclusiva, dialettale e popolaresca (milanese): «Spérèm»!
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(Imagoeconomica)
A leggere queste parole c’è davvero da impazzire. In pratica si continua a ripetere che questi bambini sono bravi, educati, felici e amati. Ma hanno difficoltà con la lettura e si cambiano i vestiti troppo raramente. E alle nostre istituzioni, oltre che a una parte della politica, sembra normale che tanto basti per strapparli ai genitori e lasciarli in una casa famiglia a tempo indeterminato. In aggiunta, si continuano a trattare papà e mamma Trevallion come discoli da raddrizzare. Si scrive e si dice che ora si comportano bene, che hanno accettato di modificare la propria casa, di vaccinare i figli, di farli incontrare con un insegnante. Lo ripetono pure i giudici della Corte d'appello che hanno confermato venerdì la validità del provvedimento di allontanamento e hanno passato la palla al Tribunale dei minori dell'Aquila per eventuali nuove decisioni. La corte conferma «tutte le criticità rilevate nell'ordinanza del Tribunale dei minorenni» tra cui i «gravi rischi per la salute fisica e psichica dei bambini, per la loro sana crescita, per lo sviluppo armonioso della loro personalità». Ma rileva «gli apprezzabili sforzi di collaborazione» da parte dei genitori e auspica «un definitivo superamento del muro di diffidenza da loro precedentemente alzato verso gli interventi e le offerte di sostegno». Chiaro, no? Quando papà e mamma saranno più docili e addomesticati, il ricatto potrà forse concludersi.
Pare infatti che il nodo di tutta questa storia, sia soltanto questo: bisogna compiacere i magistrati. Chi non lo fa è un pericoloso pasdaran della destra, è uno che fa campagna politica per il referendum sulla giustizia. Lo dice chiaramente Elisabetta Piccolotti di Alleanza verdi e sinistra, la quale se la prende con i ministri Matteo Salvini e Eugenia Roccella «che continuano a fare gli sciacalli con l’unico scopo di preparare il terreno per il referendum sulla giustizia. Noi di Avs», spiega Piccolotti, «crediamo che il percorso di dialogo con la famiglia debba dare i giusti frutti, come sostengono anche gli avvocati: i bambini devono tornare a casa dai genitori, con la garanzia che non saranno negati loro il diritto all’istruzione e alla socialità che solo la scuola assicura davvero». Ah, ma dai: i bambini devono tornare a scuola, perché quella parentale non va. Di più: bisogna che il ministro Valditara invii «gli ispettori nella scuola paritaria che ha certificato l’assolvimento dell’obbligo scolastico per la bambina di 11 anni, nonostante pare che la bimba sappia a stento scrivere il proprio nome sotto dettatura».
Interessante cortocircuito. Con la famiglia del bosco i compagni di Avs sono inflessibili, invocano perquisizioni e correzioni. Ma con altri sono molto più teneri. Nei riguardi degli antagonisti di Askatasuna, per dire, hanno parole di miele. Marco Grimaldi, vicecapogruppo di Avs alla Camera, si è aggregato al corteo di protesta contro lo sgombero del centro sociale. «Noi non abbiamo nulla da nascondere», grida. «Siamo parte, alla luce del sole, di un’associazione a resistere, quella dell’antifascismo che i trumpiani di tutto il mondo vorrebbero dichiarare fuori legge. Ma fino a quando la nostra Costituzione sarà in piedi nessuno potrà impedirmi di manifestare il mio dissenso ed io continuerò a farlo». La sua compagna di partito Ilaria Salis ribadisce che «lo spirito di Askatasuna continuerà ad ardere». Bravi, bravissimi, dei veri rivoluzionari, dei grandi ribelli antisistema. Ma per chi sceglie davvero un modello di vita alternativo, a quanto risulta, non hanno pietà. Anzi, dicono le stesse cose dei magistrati.
Fateci caso: Elisabetta Piccolotti ha pronunciato praticamente le stesse frasi scandite da Virginia Scalera, giudice del tribunale di Pescara e presidente della sezione Abruzzo dell’Anm. Costei è intervenuta ieri dicendo che c’è «stato un attacco scomposto e offensivo nei confronti dei giudici da parte dei ministri Salvini e Roccella, espresso peraltro in mancanza di conoscenza del provvedimento, perché le motivazioni non sono ancora uscite. E comunque è inaccettabile il tono. Abbiamo l’impressione chiara», insiste Scalera, «che sia un modo per riattivare l’attenzione dell’opinione pubblica, strumentalizzando una storia significativa in ottica referendaria. Ogni volta si additano i giudici, si parla di sequestro di bambini. Stigmatizziamo gli attacchi del governo».
Siamo sempre lì: guai a sfiorare i giudici, guai ad avanzare anche solo un minuscolo dubbio sul loro operato. Persino la sinistra radicale, quella che si batte contro i confini e contro la fantomatica «repressione», alla bisogna si rimette in riga al fianco delle toghe. E intanto tre bambini bravi e educati sono ancora tenuti lontano dai loro genitori.
A proposito di cortocircuiti sinistri, sia concessa un’ultima considerazione. Negli anni passati, con l’avvicinarsi del Natale, fior di sacerdoti e militanti progressisti hanno proposto presepi pieni zeppi di barconi e migranti. È un vero peccato che quest’anno qualcuno di questi impegnati a favore dei più deboli non abbia pensato a un bel presepe con la famiglia del bosco posizionata in mezzo ai pastori.
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