La falla nel gasdotto Nord Stream (Ansa)
«Der Spiegel»: Serhij Kuznietzov, arrestato a Rimini per la distruzione del gasdotto, stava eseguendo ordini. Attaccando un membro Nato...
I gasdotti Nord Stream 1 e Nord Stream 2, infrastrutture strategiche per l’approvvigionamento energetico europeo, corrono in parallelo sul fondo del Mar Baltico collegando direttamente la Russia alla Germania. Il primo è entrato in funzione nel 2011, diventando per oltre un decennio uno dei principali canali di fornitura di gas russo verso l’Europa. Nord Stream 2, completato nel 2021, non è invece mai entrato in esercizio a causa dello scoppio della guerra in Ucraina e del conseguente blocco politico e regolatorio imposto dai Paesi occidentali. Nella notte del 26 settembre 2022, una serie di potenti esplosioni sottomarine ha gravemente danneggiato entrambe le condotte in acque internazionali, al largo delle coste danesi e svedesi.
Fin dalle prime ore, le autorità europee hanno escluso l’ipotesi dell’incidente, parlando apertamente di atto deliberato di sabotaggio. L’attacco ha avuto un impatto immediato non solo sul piano energetico, ma anche su quello politico e strategico, alimentando tensioni già altissime nel contesto della guerra in Ucraina. Le indagini si sono concentrate su un’operazione condotta da un gruppo altamente specializzato, dotato di competenze militari, logistiche e subacquee. Nel corso dei mesi sono emersi nomi e movimenti sospetti tra diversi Paesi europei, fino all’emissione di mandati di arresto nei confronti di cittadini ucraini ritenuti coinvolti nell’azione. Tra questi figura Serhij Kuznietzov, 49 anni, cittadino ucraino arrestato in Italia mentre si trovava sul territorio nazionale e successivamente estradato in Germania, dove dovrà rispondere delle accuse legate al sabotaggio dei gasdotti. La sua posizione è diventata centrale nell’inchiesta dopo le rivelazioni pubblicate dalla rivista tedesca Der Spiegel, che ha citato documenti ufficiali del ministero della Difesa ucraino. Secondo tali documenti, Kuznietzov al momento dell’attacco era in servizio attivo in un’unità speciale dell’esercito ucraino. In una lettera del ministero della Difesa, datata 21 novembre 2025, indirizzata al Commissario per i diritti umani del Parlamento ucraino, si afferma che l’uomo ha prestato servizio dal 10 agosto 2022 al 28 novembre 2023 nell’unità A0987, identificata come il comando delle forze speciali ucraine, con il grado di capitano. A confermare la ricostruzione è stato anche Roman Chervinsky, ex superiore di Kuznietzov, che in un’intervista a Der Spiegel ha dichiarato: «Serhij era sotto il mio comando all’epoca. Ha eseguito tutti gli ordini della nostra unità e non si è mai allontanato dalla truppa senza autorizzazione», confermando di fatto la sua appartenenza operativa alle forze speciali nel periodo in cui avvenne il sabotaggio. Lo stesso Roman Chervinsky era già stato indicato in precedenti inchieste giornalistiche come figura chiave nella pianificazione dell’operazione Nord Stream. Secondo Der Spiegel, avrebbe avuto un ruolo centrale nel coordinamento dell’azione, ipotizzando che l’attacco fosse stato approvato a livelli elevati della catena di comando militare ucraina. Su questo punto, tuttavia, Chervinsky ha mantenuto il silenzio, dichiarando di non essere autorizzato a rilasciare commenti su singole operazioni militari, né per quanto riguarda se stesso né per Kuznietzov. Il caso Nord Stream rimane uno dei dossier più delicati sul tavolo europeo. Molte domande restano ancora senza risposta, ma gli ultimi sviluppi giudiziari sembrano avvicinare l’inchiesta a un punto di svolta. Ciò che appare certo, è che l’esercito di un Paese finanziato da anni da Paesi Ue e Nato, ha attaccato un’infrastruttura tedesca. Non si dovrebbe forse attivare l’articolo 5 del Patto Atlantico?
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Reprimenda di Leone XIV: «Siamo oltre la legittima difesa: è destabilizzazione planetaria. Provano persino a rieducare al conflitto tramite media e corsi scolastici. E considerano una colpa non prepararsi alla guerra».
Nel giorno in cui il Consiglio Ue dava il via libera al ReArm, il Papa ha voluto tirare le orecchie degli eurocrati, nascoste sotto gli elmetti. Lo ha fatto con un messaggio datato 8 dicembre, ma dedicato alla Giornata mondiale della pace del primo gennaio 2026. Un testo nel quale Leone XIV non ha nemmeno avuto bisogno di fare nomi. Si capisce benissimo a chi possano essere rivolte parole del genere: «Nel rapporto fra cittadini e governanti si arriva a considerare una colpa il fatto che non ci si prepari abbastanza alla guerra, a reagire agli attacchi, a rispondere alle violenze». Una coincidenza ha voluto che, proprio ieri, contestualmente al discorso di Robert Francis Prevost, uscisse il dissennato ultimatum del premier polacco, Donald Tusk, sulla confisca degli asset russi: «O soldi oggi o sangue domani».
«Molto al di là del principio della legittima difesa», ha scritto il pontefice, «sul piano politico tale logica contrappositiva è il dato più attuale in una destabilizzazione planetaria che va assumendo ogni giorno maggiore drammaticità e imprevedibilità». Reprimenda in cui si coglie un accenno a Israele, ma che non esenta la «martoriata Ucraina» - così la definiva Francesco - per la quale è stato tirato in ballo l’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, che giustamente riconosce il «diritto naturale di autotutela», in caso si subisca un attacco. Lo sguardo del vescovo di Roma si spinge più in là delle ovvie attribuzioni di responsabilità ad aggressori e aggrediti. È proiettato alle conseguenze indesiderabili di una retorica bellicista che affolla le dichiarazioni dei politici e le strisce dei notiziari.
Si obietterà: la colpa è di Vladimir Putin. Che non è immune al monito papale. Leone, però, ha invitato anzitutto a considerare i rischi della corsa agli armamenti, che si pretende puramente difensiva e dalla quale deriva un’illusione di sicurezza, mentre in verità essa spiana la strada a future tragedie. «I ripetuti appelli a incrementare le spese militari e le scelte che ne conseguono», ha notato Prevost, «sono presentati da molti governanti con la giustificazione della pericolosità altrui». Viene voglia di metterli in fila: Ursula von der Leyen, Kaja Kallas, Mark Rutte, Emmanuel Macron, Friedrich Merz, i leader dei Paesi baltici, quelli di Varsavia. Benjamin Netanyahu è una nota a piè di pagina, soltanto perché si era già armato fino ai denti.
Il pontefice è arrivato a ribaltare il mantra delle classi dirigenti del Vecchio continente, Giorgia Meloni inclusa: si vis pacem, para bellum; se vuoi la pace, prepara la guerra. «Se volete attirare gli altri alla pace», ha suggerito all’opposto Leone, citando Sant’Agostino, «abbiatela voi per primi; siate voi anzitutto saldi nella pace». «La forza dissuasiva della potenza e, in particolare, la deterrenza nucleare», ha continuato infatti il vicario di Cristo, «incarnano l’irrazionalità di un rapporto tra popoli basato non sul diritto, sulla giustizia e sulla fiducia, ma sulla paura e sul dominio della forza». Ne è lo specchio l’incremento degli investimenti bellici, cui corrisponde la tendenza ancora più preoccupante al «riallineamento delle politiche educative: invece di una cultura della memoria», ha denunciato il successore di Pietro, «che custodisca le consapevolezze maturate nel Novecento e non ne dimentichi i milioni di vittime, si promuovono campagne di comunicazione e programmi educativi, in scuole e università, così come nei media, che diffondono la percezione di minacce e trasmettono una nozione meramente armata di difesa e di sicurezza». Ricordare i morti di Stalingrado, quindi, non è solamente un favore a Maria Zakharova. Dopodiché, l’ aria che tira su giornali e televisioni la respiriamo quotidianamente; e qualcuno ricorderà il parossismo marziale dei corsi all’uso dei droni, avviati la settembre per 9.000 bambini della Lituania.
A proposito delle guerre condotte schierando robot e velivoli senza pilota, il pontefice si è soffermato pure su un altro dei suoi argomenti ricorrenti: la minaccia dell’Ia. «Constatiamo», ha scritto, «come l’ulteriore avanzamento tecnologico e l’applicazione in ambito militare delle intelligenze artificiali abbiano radicalizzato la tragicità dei conflitti armati. Si va persino delineando un processo di deresponsabilizzazione dei leader politici e militari, a motivo del crescente “delegare” alle macchine decisioni riguardanti la vita e la morte di persone umane».
La controproposta del Papa resta quella della «pace disarmata e disarmante», portata al mondo sin dall’uscita sulla Loggia delle Benedizioni in Vaticano, subito dopo l’elezione al soglio. È una lotta che rifiuta il ricorso alla forza, giacché segue la via di Gesù «che tutti», ha sottolineato Prevost, «Pietro per primo», colui che ferì il centurione incaricato di imprigionare il Maestro, «gli contestarono». È anche una campagna disarmante, perché la violenza e i soprusi dei principati e delle dominazioni - per usare la formula di San Paolo - alla fine nulla hanno potuto contro i veri cristiani.
«Apriamoci alla pace!»: è questo l’invito di Leone, che risuona alla stregua dell’esortazione di Giovanni Paolo II ad «aprire i sistemi economici come quelli politici», ai tempi del comunismo sovietico. «Accogliamola e riconosciamola», questa pace, ha insistito il pontefice, «piuttosto che considerarla lontana e impossibile». Poiché «quando trattiamo la pace come un ideale lontano, finiamo per non considerare scandaloso che la si possa negare e che persino si faccia la guerra per raggiungere la pace». Sembra la replica alla micidiale allocuzione della Von der Leyen di mercoledì: «La pace di ieri è finita. Non abbiamo tempo per indulgere nella nostalgia».
Quello del capo della Commissione Ue può sembrare un atteggiamento disilluso ma pragmatico. Quello del Papa può apparire un ideale nobile ma ingenuo. Utopismo. E invece, secondo Prevost, è questo il vero realismo. Mica quello di quanti vedono addensarsi inesorabili le nubi del disastro - di quanti ci vogliono in trincea, in attesa che sbuchino i carri dello zar. Costoro cedono «a una rappresentazione del mondo parziale e distorta, nel segno delle tenebre e della paura», a «narrazioni prive di speranza, cieche alla bellezza altrui, dimentiche della grazia di Dio che opera sempre nei cuori umani, per quanto feriti dal peccato». Forse - chissà - pure nel cuore rancido di Putin.
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Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa podcast del 19 dicembre con Flaminia Camilletti
Alberto Stasi (Ansa)
Ieri l’udienza dell’incidente probatorio: al centro, il materiale ritenuto compatibile con quello di Sempio o dei suoi familiari in linea paterna, ma non con il fidanzato della vittima. Il quale, a sorpresa, si è presentato in aula, scatenando l’ira dei Poggi e di Venditti.
La presenza del Dna di Alberto Stasi sulle unghie di Chiara Poggi era rimasta sospesa come una minaccia perenne. Non era una certezza, ma un’ombra. Un residuo tecnico buono per tenere aperta ogni porta o per alimentare il dubbio.
Ieri, nell’aula del tribunale di Pavia, quell’ombra è stata cancellata dall’incidente probatorio. «È stato chiarito definitivamente che Stasi è escluso». Lo dice senza giri di parole all’uscita dal palazzo di giustizia Giada Bocellari, difensore con Antonio De Rensis di Stasi. «Tenete conto», ha spiegato Bocellari, «che noi partivamo da una perizia del professor Francesco De Stefano (il genetista che nel 2014 firmò la perizia nel processo d’appello bis, ndr) che diceva che il Dna era tutto degradato e che Stasi non poteva essere escluso da quelle tracce». È il primo elemento giudiziario della giornata di ieri. La stessa Bocellari, però, mette anche un freno a ogni lettura forzata: «Non è che Andrea Sempio verrà condannato per il Dna. Non verrà mai forse neanche rinviato a giudizio solo per il Dna». Gli elementi ricavati dall’incidente probatorio, spiega, sono «un dato processuale, una prova che dovrà poi essere valutata e questo lo potrà fare innanzitutto la Procura quando dovrà decidere, alla fine delle indagini, cosa fare». Dentro l’aula, però, la tensione non è stata solo scientifica. È stata anche simbolica. Perché Stasi era presente. Seduto, in silenzio. E la sua presenza ha innescato uno scontro.
«È venuto perché questa era una giornata importante», spiega ancora Bocellari, aggiungendo: «Tenete conto che sono undici anni che noi parliamo di questo Dna e finalmente abbiamo assunto un risultato nel contraddittorio». Una scelta rivendicata senza tentennamenti: «Tenete conto anche del fatto che lui ha sempre partecipato al suo processo, è sempre stato presente alle udienze e quindi questo era un momento in cui esserci, nel massimo rispetto anche dell’autorità giudiziaria che oggi sta procedendo nei confronti di un altro soggetto». E quel soggetto è Sempio. Indagato. Ma assente. Una scelta opposta, spiegata dai suoi legali. «In ogni caso non avrebbe potuto parlare», chiarisce Angela Taccia, che spiega: «Il Dna non è consolidato, non c’è alcuna certezza contro Sempio. Il software usato non è completo, anzi è molto scarno, non si può arrivare a nessun punto fermo». Lo stesso tono lo usa Liborio Cataliotti, l’altro difensore di Sempio. «Confesso che non mi aspettavo oggi la presenza di Stasi. Però non mi sono opposto, perché si è trattato di una presenza, sia pur passiva, di chi è interessato all’espletamento della prova. Non mi sembrava potessero esserci controindicazioni alla sua presenza». Se per la difesa di Sempio la presenza di Stasi è neutra, sul fronte della famiglia Poggi il clima è diverso. L’avvocato Gian Luigi Tizzoni premette: «Vedere Stasi non mi ha fatto nessun effetto, non ho motivi per provare qualsiasi tipo di emozione». Ma la linea processuale è chiara. Durante l’udienza i legali dei Poggi (rappresentati anche dall’avvocato Francesco Compagna) hanno chiesto che Stasi uscisse dall’aula perché «non è né la persona offesa né l’indagato». Richiesta respinta dal gip Daniela Garlaschelli come «irrilevante e tardiva», perché giunta «a sei mesi di distanza dall’inizio dell’incidente probatorio». Stasi è stato quindi ammesso come «terzo interessato». Ma l’avvocato Compagna tiene il punto: «Credo che di processuale ci sia poco in questa vicenda, è un enorme spettacolo mediatico». E attacca sul merito: «La verità è che le unghie sono prive di significato, visto che la vittima non si è difesa e giocare su un dato che non è scientifico è una follia».
La perita Denise Albani, ricorda Compagna, «ha ribadito che non si può dire come, dove e quando quella traccia è stata trasferita e quindi non ha valore». Deve essersi sentito un terzo interessato anche il difensore dell’ex procuratore aggiunto di Pavia Mario Venditti (indagato a Brescia per un’ipotesi di corruzione in atti giudiziari riferita all’archiviazione della posizione di Sempio nel 2017). L’avvocato Domenico Aiello, infatti, ha alzato il livello dello scontro: «Non mi risulta che esista la figura della parte processuale del “terzo interessato”. Si è palesato in aula a Pavia il titolare effettivo del subappalto di manodopera nel cantiere della revisione». E insiste: «Sarei curioso di capire se sia soddisfatto e in quale veste sarà registrato al verbale di udienza, se spettatore abusivo o talent scout od osservatore interessato. Ancora una grave violazione del Codice di procedura penale. Spero non si sostituisca un candidato innocente con un altro sfortunato innocente e a spese di un sicuro innocente».
Ma mentre le polemiche rimbalzano fuori dall’aula, dentro il dato resta tecnico. E su quel dato, paradossalmente, tutti escono soddisfatti. «Dal nostro punto di vista abbiamo ottenuto risposte che riteniamo molto ma molto soddisfacenti sulla posizione di Sempio», dice Cataliotti. Taccia conferma: «Siamo molto soddisfatti di com’è andata oggi». La difesa di Sempio ribadisce che il dato è neutro, parziale, non decisivo. La difesa di Stasi incassa l’esclusione definitiva del Dna. E alla fine l’incidente probatorio ha fatto la sua parte. Ha prodotto una prova. Ha chiarito un equivoco storico. E ha lasciato ognuno con il proprio argomento in mano. Fuori dall’aula, però, il processo mediatico si è concentrato tutto sulla presenza di Stasi e sull’assenza di Sempio, come se l’innocenza o la colpevolezza di qualcuno fosse misurabile a colpi di apparizioni sceniche.
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