2019-09-26
Odissea (antirazzista) nello spazio: spunta l’afrofuturismo
Illustrazione Jamila the teenage terminator (jinfeng)
Sempre più artisti uniscono battaglie della comunità nera e temi della fantascienza. Ma il risultato è solo un vittimismo cosmico.Una civiltà idilliaca, che vive nelle profondità degli abissi, i cui abitanti sono i discendenti delle schiave africane incinte gettate in mare dagli schiavisti. Un po' Wakanda, l'immaginaria e sviluppatissima civiltà africana che fa da ambientazione al fumetto Black Panther, un po' Atlantide. Il curioso intreccio tra rivendicazioni afro e fantascienza lo troviamo in The Deep, romanzo in uscita a novembre di Rivers Solomon, scrittrice americana da tempo residente in Gran Bretagna. Forte della sua laurea in Comparative studies, specializzazione in Race and ethnicity, alla Stanford university, Rivers si è recentemente imposta come capofila dell'afrofuturismo. Alt, di che si parla? Anche se in questi tempi sta tornando di moda, la tendenza non è nuovissima. È nel 1994 che Mark Dery, giornalista di Washington Post e Rolling Stone (peraltro di carnagione bianchissima) conia il termine all'interno del suo saggio Black to the Future. Per Dery, l'afrofuturismo è «una fiction fantastica che tratta di tematiche afroamericane […] nel contesto della tecnocultura del XX secolo […], una semantica afroamericana che s'impadronisce di un immaginario tecnologico e di un futuro profeticamente aumentato». Per farla breve, si tratta di fantascienza collegata a tematiche della comunità nera e orientata secondo le battaglie politiche di quest'ultima. Il già citato Wakanda ne è un esempio plastico: la patria di Pantera Nera è un regno tecnologicamente avanzatissimo situato da qualche parte nell'Africa orientale e le avventure che da qui si sviluppano hanno a che fare con tutta una serie di rivendicazioni politiche (si veda l'intreccio tra l'uscita del film sul supereroe Marvel e le tematiche del movimento Black lives matter). Che la tendenza stia tornando a riscuotere una certa attenzione lo testimonia pure un recente festival presso la prestigiosa Künstlerhaus Bethanien di Berlino, intitolata Space is the place. L'evento ha suscitato varie polemiche perché, pur essendo una retrospettiva sull'afrofuturismo, ospitava solo interlocutori bianchi. Il titolo non era comunque stato scelto a caso: Space is the place è infatti un film di fantascienza diretto da John Coney e uscito nel 1974. La pellicola, in cui ci si immagina di trasportare tutti i neri su un'altra galassia per affrancarli dalla schiavitù, venne scritta dal musicista jazz Sun Ra, che era anche tra i protagonisti. Sun Ra è forse il vero capostipite dell'afrofuturismo, tant'è che, come una sorta di David Bowie colored, amava raccontare di venire da Saturno: «Non ho mai voluto far parte del pianeta Terra ma mi trovo condannato a starci», dichiarava.Ma se negli anni Settanta tali riferimenti si legavano alle battaglie per i diritti civili, se negli anni Novanta il termine restava ancorato al dibattito sulla cultura cyberpunk, è in questi anni, con il riesplodere delle tensioni razziali negli Usa, i dibattiti sull'immigrazione e il dilagare di un politicamente corretto incontrollato, che l'afrofuturismo ha ritrovato una sorta di seconda giovinezza. Nel 2014, il filosofo camerunense Achille Mbembe ha pubblicato su Politique africaine un saggio su Afrofuturisme et devenir-nègre du monde, in cui ha spiegato che «l'afrofuturismo tenta di riscrivere questa esperienza negra del mondo in termini di metamorfosi più o meno continue, di inversioni multiple, di plasticità anche anatomiche, di corporalità dal bisogno macchinico». L'idea è che se l'umanismo occidentale è stato essenzialmente un umanismo «bianco», creato separando una parte di umanità dal resto e degradando tutti altri umani a cose, la rivendicazione del «negro» (il termine è di Mbembe e chi siamo noi per contraddirlo) deve passare per un immaginario post umano, dall'ibridazione con l'alieno a quella con la macchina.Intanto, a Detroit, Ingrid Lafleur ha creato un progetto per organizzare conferenze, mostre e Dj set sul tema afrofuturista chiamato Afrotopia, che anche il titolo di un saggio dello scrittore senegalese Felwine Sarr uscito nel 2016. Nel novembre del 2013, Lafleur ha partecipato alla retrospettiva Mille ans d'histoire non linéaire presentata al Centre George Pompidou il cui tema era: «Scenari alternativi presentati dagli artisti per ripensare il racconto storico». Sul fronte della cultura «bassa», oltre a Black Panther si segnalano, a partire dagli anni 2000, un buon numero di fumettisti di Nigeria, Sudafrica o Togo che hanno iniziato a creare supereroi autoctoni come Eru, Kwezi o Ago, che sono nati e vivono in Africa.Ma, se tutto questo non bastasse, va inoltre detto che l'afrofuturismo ha la tendenza a saldarsi con altre rivendicazioni, come ad esempio quelle gender. Insomma, detta nel gergo universitario postmoderno, esso è «altamente intersezionale», come scrive Ytasha L. Womack in Afrofuturism: the world of black sci-fi fantasy and fantasy culture. E qui torniamo al punto di partenza, cioè a Rivers Solomon. Nel suo primo romanzo, An unkindness of ghosts, del 2017, l'autrice ha ambientato la sua storia sull'immensa nave spaziale Matilda (l'ispirazione viene dalla Clotilda, l'ultima nave negriera statunitense), in cui vige una severa apartheid razziale: i bianchi vivono sui ponti superiori, al caldo, nel lusso, esprimono la classe dirigente dell'astronave e si ritengono investiti da un mandato celeste; la popolazione nera vive invece nei ponti inferiori, al freddo, vessata e controllata da guardie perfide e razziste. La protagonista, Aster, è nera ed ermafrodita. Capita spesso, nei ponti inferiori, dove una anomalia genetica rende gli abitanti dalla sessualità incerta. In alcuni ponti inferiori, tutti i nuovi nati vengono chiamati con pronomi femminili, a prescindere dal loro vero sesso, su altri si usa invece un pronome neutro di nuovo conio. «Tutti i miei testi integrano personaggi Lgbt», ha detto l'autrice in un'intervista a Libération. «Anche nel mio terzo romanzo che sto scrivendo ora: è ambientato nel 2019 negli Usa e ha a che fare con le situazioni e le problematiche di genere di oggi», ha spiegato. Benché, da un certo punto di vista, affascinante, l'operazione lascia comunque più che perplessi: ha davvero senso, oggi, raccontare le tematiche antirazziste e gender come se fossero una controcultura carbonara ed eversiva, quando praticamente ogni film, serie Tv, fumetto, romanzo o saggio parla di questo e quando l'autrice stessa vi si è potuta dedicare tranquillamente a Stanford e non certo attraverso samizdat clandestini? E, soprattutto: perché, potendo immaginare infiniti mondi alternativi, dalle articolazioni sociali più svariate, si finisce solo per dare una veste futuribile allo schiavismo storico? Forse il vittimismo spaziale non è quello di cui abbiamo bisogno. Né noi, né i neri.
Jose Mourinho (Getty Images)