Di recente, al coro di Trump e Musk si è unito uno che da molti è ritenuto il maggior banchiere al mondo, Jamie Dimon, secondo cui «l’Europa ha dei seri problemi. Ha scoraggiato le imprese, gli investimenti e l’innovazione». La preoccupazione principale di Dimon è che la lentezza della burocrazia e l’eccessiva regolamentazione abbiano soffocato la crescita, causando una riduzione della quota di Pil mondiale dell’Europa. Il banchiere sostiene che un mercato europeo snello e integrato sia essenziale per l’innovazione e la forza globale. Il punto è che un sondaggio di due realtà importanti come Ert e The Conference Board dà ragione a un «big» come Dimon. Stando a un sondaggio svolto tra il 16 e il 31 ottobre 2025 la fiducia degli amministratori delegati in Europa ha smesso di precipitare, ma resta in territorio negativo, mentre le motivazioni per investire nel continente continuano a diminuire rispetto agli Stati Uniti e ad altre aree del mondo.
La «Measure of Ceo Confidence for Europe» è a quota 44, dopo essere crollata a 27 nella primavera 2025 in concomitanza con le tensioni commerciali tra Ue e Usa. Il livello 50 rappresenta la neutralità: 44 implica che il sentiment è ancora chiaramente negativo. È la prima volta da quando esiste questa rilevazione che la fiducia dei ceo rimane sotto 50 per tre edizioni consecutive, segnalando un pessimismo che non è più solo ciclico.
Nello studio si sottolinea come il divario tra Europa e resto del mondo si stia ampliando. Le condizioni di business al di fuori del continente migliorano, mentre in Europa la traiettoria resta discendente, soprattutto per la debolezza delle prospettive di investimento e occupazione. In altri termini, il sondaggio registra un disallineamento crescente tra il potenziale percepito all’estero e quello disponibile nel mercato europeo.
Il punto più sensibile del report riguarda la geografia dei piani di investimento. Per l’Europa, solo una piccola quota di ceo intende investire più di quanto previsto sei mesi fa: appena l’8% dichiara di voler aumentare gli investimenti rispetto ai piani originari, mentre oltre un terzo ha ridotto i programmi o messo in pausa le decisioni in merito. Gli Stati Uniti, al contrario, registrano una dinamica opposta: il 45% dei ceo ha rivisto i propri piani per investire nel mercato americano più di quanto inizialmente previsto.
Il problema è che un anno fa, circa l’80% dei leader Ert esprimeva entusiasmo per le raccomandazioni di Mario Draghi sulla competitività europea, con l’idea che una loro piena implementazione avrebbe riportato gli investimenti verso l’Ue. Oggi la narrativa è capovolta: il 76% dei ceo afferma di aver visto poco o nessun impatto positivo dalle iniziative europee per tradurre in pratica le raccomandazioni Draghi e Letta su semplificazione regolatoria, completamento del mercato unico, politica di concorrenza e costo dell’energia.
All’interno dello studio, la Commissione europea ottiene un giudizio relativamente meno negativo: circa il 30% dei ceo riconosce progressi, ma il 60% si dichiara deluso. Il Parlamento europeo è percepito in modo ancora più critico, e i governi nazionali risultano i peggiori: il 74% dei ceo giudica «insufficiente» la performance degli Stati membri nel dare seguito alle raccomandazioni di Draghi e Letta. L’indagine insiste su un punto non banale: il tradizionale riflesso di imputare i ritardi a «Bruxelles» non regge più. Secondo i ceo, il collo di bottiglia principale è costituito dai governi nazionali riuniti in Consiglio, che rallentano o annacquano le riforme in nome di interessi domestici di breve periodo.
Viene, insomma, da sperare che le profezie del duo Trump-Musk non siano corrette. Secondo il presidente degli Stati Uniti, «nel giro di vent’anni l’Europa è destinata a sparire dalla scena», mentre per il miliardario ed ex vertice del Doge, il Dipartimento dell’efficienza governativa, creato durante il secondo mandato Trump, l’Unione europea «andrebbe smantellata, restituendo la piena sovranità ai singoli Stati, così che i governi tornino a rappresentare davvero i propri cittadini».
Musk ha messo nero su bianco queste posizioni in un post su X, pubblicato poche ore dopo la maximulta da 120 milioni di euro comminata da Bruxelles alla sua piattaforma per violazione del regolamento Ue che, da febbraio 2024, impone alle big tech nuovi obblighi di trasparenza e responsabilità sui contenuti. Si tratta della prima sanzione nell’ambito del Digital Services Act europeo. Inoltre, Musk ha fatto saltare l’intero pacchetto di spazi pubblicitari utilizzato dalla Commissione europea su X, accusandola di aver sfruttato in modo improprio una falla tecnica del sistema; subito dopo ha pubblicato un post in cui l’Unione europea veniva assimilata al «Quarto Reich», accompagnato da un fotomontaggio che affiancava la bandiera con le dodici stelle a una svastica.