2022-05-14
Tira un’aria di censura: notizie e opinioni «filtrate»
Nelle trasmissioni televisive, soprattutto in quelle del servizio pubblico, tira una brutta aria di censura. Chi non si allinea al verbo atlantista-bellicista viene bollato come putiniano. Però ci risulta che esista ancora la Costituzione a tutela della libertà di espressione.Tira una brutta aria e non solo per i fumi che s’innalzano dalle città ucraine bombardate dai missili russi, con il pericolo che uno di questi colpisca un sito nucleare. No, il clima sta peggiorando anche nelle redazioni dei giornali, dove ormai i giornalisti sono stati arruolati come combattenti per la libertà e indotti a sguainare le stilografiche contro Putin. Come abbiamo detto e scritto più volte, il presidente della Federazione russa è l’invasore e il principale responsabile di quello che sta succedendo. Tuttavia, se si vuole evitare il peggio, se cioè si intende scongiurare lo scoppio di una guerra mondiale, la soluzione non è inviare armi all’Ucraina, affinché il conflitto si allunghi e magari si espanda, ma è costringere i principali attori a sedersi intorno a un tavolo. Vale a dire che per fare la pace o anche soltanto raggiungere una tregua o un cessate il fuoco è indispensabile che Russia e Stati Uniti si parlino. Senza i secondi, e senza un’Europa che appoggia tutto ciò che viene deciso a Washington, Kiev avrebbe già alzato bandiera bianca. Se l’esercito ucraino resiste non è solo perché vuole difendere il proprio territorio, ma soprattutto perché l’America ha messo in mano a ogni soldato un lanciarazzi o il telecomando di un drone. Dunque, il cessate il fuoco non può passare necessariamente che dalla Casa Bianca. Solo quando Biden e Putin si parleranno sarà possibile far tacere i cannoni, a meno che - come osserva qualche commentatore americano - gli Usa non intendano combattere fino all’ultimo ucraino. Quanto scriviamo (da settimane, non da ieri) a noi sembrano considerazioni di buon senso, ma per tornare all’atmosfera che si respira nelle redazioni di giornali e tv, il buon senso non pare avere più diritto di cittadinanza. Anzi: ad aver perso il diritto garantito dalla Costituzione, ossia quello di esprimere liberamente le proprie opinioni, è chi non canta in coro, sostenendo una guerra a Mosca senza se e senza ma. Da giorni, infatti, si è aperta la caccia ai putiniani d’Italia, anzi alle spie del Cremlino. Dopo l’intervista su Rete 4 al ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, la politica ha cominciato ad avere voglia di bavaglio. L’idea di mettere la mordacchia alla stampa è da sempre una vecchia aspirazione di quasi tutti i partiti, prova ne sia che, pur facendosi paladino della libertà di espressione, non c’è gruppo o schieramento che in Parlamento abbia mai voluto seriamente cancellare la norma che condanna alla galera i giornalisti. Eh già, mentre tanti onorevoli si preoccupano del sistema di informazione che vige in Russia, dicendo che i cronisti che non si allineano al pensiero unico di Putin rischiano la galera, il Parlamento italiano continua a mantenere inalterata una legge che punisce con una pena da sei mesi a tre anni i reati a mezzo stampa. Sì, magari all’opinionista sgradito non si mandano i sicari sotto casa, ma gli agenti sì e qualche collega ne ha avuto testimonianza diretta.Tuttavia, anche senza ricorrere a metodi estremi, ovvero ai carabinieri, l’aria che tira è quella di censura. Così come invocato da Mario Monti ai tempi del Covid, quando disse che quando c’è un’emergenza bisogna ridurre la libertà della stampa, adesso che siamo in guerra si intende creare una specie di Minculpop, ovvero un ministero che vigili sulla corretta informazione. Vale a dire che le notizie vanno corrette, anzi filtrate, lasciando al regime il compito di decidere quali abbiano diritto di essere diffuse o rappresentate e quali invece debbano essere censurate. Mi ha fatto una certa impressione vedere Carlo Fuortes, amministratore delegato della Rai, dire di fronte ai parlamentari del Comitato che vigila sui servizi segreti che i talk show dovranno cambiare e che alcune persone non dovranno più essere invitate. Chi è Fuortes per decidere quali opinionisti abbiano diritto di esprimere le proprie idee? È stato forse eletto dagli italiani? No: è pagato dagli italiani per fare un servizio pubblico e dunque dovrebbe essere al loro servizio. Sono loro che scelgono, con il telecomando, chi sia giusto ascoltare e chi sia giusto zittire. Non è un burocrate, ancorché caro al Pd o designato da Palazzo Chigi. Ma ancor più di Fuortes, che non mi risulta abbia alcuna esperienza nel mondo dell’informazione, mi ha colpito l’intervento di Andrea Romano a Piazzapulita, dove l’onorevole del Partito democratico pareva voler dare lezione di giornalismo a Corrado Formigli. Si può dissentire da alcune opinioni del conduttore de La7, ma non si può sostenere che non sappia fare il proprio mestiere, mettendo a confronto, e a volte facendole scontrare, tesi diverse. Chi è Romano per stabilire che cosa sia giusto mandare in onda e che cosa no? Che titolo ha per dettare le regole dell’informazione? A parte aver contribuito alla chiusura dell’Unità e di Democratica, due testate che inspiegabilmente erano state affidate alle sue cure, non mi pare che abbia altri requisiti. Ma forse è proprio questa la ragione: avendo accompagnato al cimitero l’una e l’altra, è un killer perfetto di ogni voce libera.
Thierry Sabine (primo da sinistra) e la Yamaha Ténéré alla Dakar 1985. La sua moto sarà tra quelle esposte a Eicma 2025 (Getty Images)
La Dakar sbarca a Milano. L’edizione numero 82 dell’esposizione internazionale delle due ruote, in programma dal 6 al 9 novembre a Fiera Milano Rho, ospiterà la mostra «Desert Queens», un percorso espositivo interamente dedicato alle moto e alle persone che hanno scritto la storia della leggendaria competizione rallystica.
La mostra «Desert Queens» sarà un tributo agli oltre quarant’anni di storia della Dakar, che gli organizzatori racconteranno attraverso l’esposizione di più di trenta moto, ma anche con memorabilia, foto e video. Ospitato nell’area esterna MotoLive di Eicma, il progetto non si limiterà all’esposizione dei veicoli più iconici, ma offrirà al pubblico anche esperienze interattive, come l’incontro diretto con i piloti e gli approfondimenti divulgativi su navigazione, sicurezza e l’evoluzione dell’equipaggiamento tecnico.
«Dopo il successo della mostra celebrativa organizzata l’anno scorso per il 110° anniversario del nostro evento espositivo – ha dichiarato Paolo Magri, ad di Eicma – abbiamo deciso di rendere ricorrente la realizzazione di un contenuto tematico attrattivo. E questo fa parte di una prospettiva strategica che configura il pieno passaggio di Eicma da fiera a evento espositivo ricco anche di iniziative speciali e contenuti extra. La scelta è caduta in modo naturale sulla Dakar, una gara unica al mondo che fa battere ancora forte il cuore degli appassionati. Grazie alla preziosa collaborazione con Aso (Amaury Sport Organisation organizzatore della Dakar e partner ufficiale dell’iniziativa, ndr.) la mostra «Desert Queens» assume un valore ancora più importante e sono certo che sarà una proposta molto apprezzata dal nostro pubblico, oltre a costituire un’ulteriore occasione di visibilità e comunicazione per l’industria motociclistica».
«Eicma - spiega David Castera, direttore della Dakar - non è solo una fiera ma anche un palcoscenico leggendario, un moderno campo base dove si riuniscono coloro che vivono il motociclismo come un'avventura. Qui, la storia della Dakar prende davvero vita: dalle prime tracce lasciate sulla sabbia dai pionieri agli incredibili risultati di oggi. È una vetrina di passioni, un luogo dove questa storia risuona, ma anche un punto d'incontro dove è possibile dialogare con una comunità di appassionati che vivono la Dakar come un viaggio epico. È con questo spirito che abbiamo scelto di sostenere il progetto «Desert Queens» e di contribuire pienamente alla narrazione della mostra. Partecipiamo condividendo immagini, ricordi ricchi di emozioni e persino oggetti iconici, tra cui la moto di Thierry Sabine, l'uomo che ha osato lanciare la Parigi-Dakar non solo come una gara, ma come un'avventura umana alla scala del deserto».
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