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2024-05-09
Storia di un libro maledetto: «La volontà di potenza» di Nietzsche
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Friedrich Nietzsche (Getty Images)
Nell'ambito della produzione dell'autore maledetto Friedrich Nietzsche, il libro a sua volta più maledetto è senz'altro La volontà di potenza. Testo falsificato, si è detto. Opera mefistofelica dell'antisemita sorella Elisabeth, che con un taglia e cuci arbitrario avrebbe creato dal nulla un filosofo bello e pronto per essere gustato, digerito e assimilato dai nazionalsocialisti. A questa leggenda nera aggiungono ora un ulteriore tassello le maledettissime Edizioni di Ar di Franco Freda, che ripubblicano il volume con testo a fronte, in un'impegnativa edizione da 90 euro.
«Questa versione integrata dal testo», scrive Freda, che è anche il traduttore, nell'introduzione, «vuole significare un atto di venerazione, offerto da “buoni Europei” in italiano, di queste reliquie del pensiero di Nietzsche, sovente denigrate come reliquati: bellici nel migliore dei casi — relitti delle guerre scatenate dai fascismi contro le democrazie nel secolo XX. Vuole essere pure un rispettoso ricordo della sincerità, della onestà e della bravura di quanti hanno contribuito a stabilire, oltre un secolo fa, il testo di queste Anmerkungen-annotazioni-observationes di Nietzsche, nonché di coloro che, circa un secolo fa, lo hanno volto in italiano - curando una traslazione che (nonostante la, invidiosa, opinione di alcuni sofi universitari) deve ritenersi felice».
Ma qual è la vera storia di questo libro? Davvero dalla Volontà di potenza esce un Nietzsche diverso, inedito, falsificato, nazificato? Le cose sono decisamente più complicate. La prima menzione della Wille zur Macht, il concetto della volontà di potenza, appunto, risale al 1883, quando Nietzsche scrive la prima parte del Cosi parlò Zarathustra. Qui, nel capitolo “Dei mille e uno scopo”, si legge: «Una tavola di valori è affissa su ogni popolo. Vedi: è la voce della sua volontà di potenza». Negli anni successivi, la formula diventa sempre più centrale in Nietzsche, tanto da finire in vari piani come titolo per un possibile futuro libro. Nel 1885, in un quaderno dell'agosto-settembre, troviamo il primo di questi progetti. Si legge: «La volontà di potenza. Tentativo di una nuova interpretazione di ogni accadere di Friedrich Nietzsche». Poco dopo, in un altro piano, La volontà di potenza è il quarto libro di un'opera intitolata Della gerarchia, mentre due frammenti dopo leggiamo: «Sotto il titolo non innocuo di La volontà di potenza prende qui la parola una nuova filosofia o, per dirla più chiaramente, il tentativo di una nuova interpretazione di ogni accadere».
Il 21 luglio 1886 esce Al di là del bene e del male. Preludio di una filosofia dell'avvenire; sulla quarta di copertina si annuncia la futura uscita di un'opera in quattro libri intitolata La volontà di potenza. Trasvalutazione di tutti i valori. La formula esce dai piani più o meno vaghi e finisce in un annuncio pubblico: è la prova più evidente che Nietzsche stava effettivamente lavorando a un libro con questo titolo. Il quale, tuttavia, non vide mai la luce con Nietzsche in vita. Il libro con questo titolo verrà estratto dalla massa dei suoi appunti dopo la sua morte. Esistono almeno cinque versioni differenti della Volontà di potenza: una curata dai fratelli Horneffer e Peter Gast nel 1901 e composta da 483 paragrafi; una da Elisabeth Förster-Nietzsche e Peter Gast nel 1906 che consta di 1.067 paragrafi; una da Max Brahn del 1917 in 696 paragrafi; una da August Messer del 1930 in 491 paragrafi; e una da Friedrich Würzbach del 1935 in 2.397 (ripubblicata poi nel 1940 col titolo Il lascito di Friedrich Nietzsche).
Ma cosa aveva fatto Elisabeth di preciso? Maurizio Ferraris, in appendice all'edizione Bompiani del libro, riassumeva così i termini della questione: «1. Elisabeth e Gast nel 1906 [...] hanno ordinato in modo tematico, appoggiandosi al piano abbozzato da Nietzsche nel marzo 1887, ai 372 frammenti numerati dell'autunno di quell'anno e alla rubrica relativa, ma spaziando dal 1883 al 1888, ciò che in buona regola filologica avrebbe dovuto essere disposto cronologicamente […]. 2. [Hanno preso] la decisione di accorpare frammenti di epoche diverse. Il terminus a quo, l'anno 1883, non è del resto privo di motivi, visto che il progetto di un'opera teoretica accompagna e segue la stesura dello Zarathustra. 3. Quella di comporre con frammenti diversi (e in rari casi con materiale allotrio ma comunque di Nietzsche, come avantesti di altre opere) uno pseudoaforisma o, inversamente, di frammentare un testo continuo per cavarne più “aforismi”. 4. Quella di sostenere (in un complicato rapporto con il pregiudizio del sistema) che il WzM, capo d'opera sistematico, sarebbe stato però composto non di testi continui di cui ci restano abbozzi preparatori, ma per l'appunto di aforismi, secondo il modello rifiutato o superato già nella Genealogia della morale, e che riappare parzialmente nelle opere del 1888. 5. La scelta di cassare dei frammenti, per esempio dalla lista dei 372, che risultassero incompleti, o ripetitivi, o “poco filosofici”, ossia contrastanti con l'autoconclusività dell'aforisma o con la pretesa di un piano organico».
Come si vede, l’operazione appare discutibile in sede filologica, ma niente affatto esiziale dal punto di vista filosofico, men che meno da quello politico. Elisabeth ha selezionato, ordinato e composto aforismi arbitrariamente, ma non ha inventato niente. Nessuna delle «scandalose» idee contenute nella Volontà di potenza, del resto, appare davvero inedita al lettore delle opere pubblicate in vita da Nietzsche, che contengono lo stesso, radicale progetto di decostruzione dell’ideologia umanitaria ed egualitaria. Se c’è un Nietzsche falsificato, a ben vedere, è proprio quello addomesticato dai portatori della buona novella filologica che lo hanno voluto recuperare a ideologie che egli, per tutta la sua vita, non cessò di disprezzare.
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Esce in una nuova edizione la controversa raccolta di aforismi del filosofo. Considerata la «pistola fumante» della nazificazione di Nietzsche, in realtà l’opera fu tutt’altro che un falso grossolano.Nell'ambito della produzione dell'autore maledetto Friedrich Nietzsche, il libro a sua volta più maledetto è senz'altro La volontà di potenza. Testo falsificato, si è detto. Opera mefistofelica dell'antisemita sorella Elisabeth, che con un taglia e cuci arbitrario avrebbe creato dal nulla un filosofo bello e pronto per essere gustato, digerito e assimilato dai nazionalsocialisti. A questa leggenda nera aggiungono ora un ulteriore tassello le maledettissime Edizioni di Ar di Franco Freda, che ripubblicano il volume con testo a fronte, in un'impegnativa edizione da 90 euro. «Questa versione integrata dal testo», scrive Freda, che è anche il traduttore, nell'introduzione, «vuole significare un atto di venerazione, offerto da “buoni Europei” in italiano, di queste reliquie del pensiero di Nietzsche, sovente denigrate come reliquati: bellici nel migliore dei casi — relitti delle guerre scatenate dai fascismi contro le democrazie nel secolo XX. Vuole essere pure un rispettoso ricordo della sincerità, della onestà e della bravura di quanti hanno contribuito a stabilire, oltre un secolo fa, il testo di queste Anmerkungen-annotazioni-observationes di Nietzsche, nonché di coloro che, circa un secolo fa, lo hanno volto in italiano - curando una traslazione che (nonostante la, invidiosa, opinione di alcuni sofi universitari) deve ritenersi felice».Ma qual è la vera storia di questo libro? Davvero dalla Volontà di potenza esce un Nietzsche diverso, inedito, falsificato, nazificato? Le cose sono decisamente più complicate. La prima menzione della Wille zur Macht, il concetto della volontà di potenza, appunto, risale al 1883, quando Nietzsche scrive la prima parte del Cosi parlò Zarathustra. Qui, nel capitolo “Dei mille e uno scopo”, si legge: «Una tavola di valori è affissa su ogni popolo. Vedi: è la voce della sua volontà di potenza». Negli anni successivi, la formula diventa sempre più centrale in Nietzsche, tanto da finire in vari piani come titolo per un possibile futuro libro. Nel 1885, in un quaderno dell'agosto-settembre, troviamo il primo di questi progetti. Si legge: «La volontà di potenza. Tentativo di una nuova interpretazione di ogni accadere di Friedrich Nietzsche». Poco dopo, in un altro piano, La volontà di potenza è il quarto libro di un'opera intitolata Della gerarchia, mentre due frammenti dopo leggiamo: «Sotto il titolo non innocuo di La volontà di potenza prende qui la parola una nuova filosofia o, per dirla più chiaramente, il tentativo di una nuova interpretazione di ogni accadere». Il 21 luglio 1886 esce Al di là del bene e del male. Preludio di una filosofia dell'avvenire; sulla quarta di copertina si annuncia la futura uscita di un'opera in quattro libri intitolata La volontà di potenza. Trasvalutazione di tutti i valori. La formula esce dai piani più o meno vaghi e finisce in un annuncio pubblico: è la prova più evidente che Nietzsche stava effettivamente lavorando a un libro con questo titolo. Il quale, tuttavia, non vide mai la luce con Nietzsche in vita. Il libro con questo titolo verrà estratto dalla massa dei suoi appunti dopo la sua morte. Esistono almeno cinque versioni differenti della Volontà di potenza: una curata dai fratelli Horneffer e Peter Gast nel 1901 e composta da 483 paragrafi; una da Elisabeth Förster-Nietzsche e Peter Gast nel 1906 che consta di 1.067 paragrafi; una da Max Brahn del 1917 in 696 paragrafi; una da August Messer del 1930 in 491 paragrafi; e una da Friedrich Würzbach del 1935 in 2.397 (ripubblicata poi nel 1940 col titolo Il lascito di Friedrich Nietzsche).Ma cosa aveva fatto Elisabeth di preciso? Maurizio Ferraris, in appendice all'edizione Bompiani del libro, riassumeva così i termini della questione: «1. Elisabeth e Gast nel 1906 [...] hanno ordinato in modo tematico, appoggiandosi al piano abbozzato da Nietzsche nel marzo 1887, ai 372 frammenti numerati dell'autunno di quell'anno e alla rubrica relativa, ma spaziando dal 1883 al 1888, ciò che in buona regola filologica avrebbe dovuto essere disposto cronologicamente […]. 2. [Hanno preso] la decisione di accorpare frammenti di epoche diverse. Il terminus a quo, l'anno 1883, non è del resto privo di motivi, visto che il progetto di un'opera teoretica accompagna e segue la stesura dello Zarathustra. 3. Quella di comporre con frammenti diversi (e in rari casi con materiale allotrio ma comunque di Nietzsche, come avantesti di altre opere) uno pseudoaforisma o, inversamente, di frammentare un testo continuo per cavarne più “aforismi”. 4. Quella di sostenere (in un complicato rapporto con il pregiudizio del sistema) che il WzM, capo d'opera sistematico, sarebbe stato però composto non di testi continui di cui ci restano abbozzi preparatori, ma per l'appunto di aforismi, secondo il modello rifiutato o superato già nella Genealogia della morale, e che riappare parzialmente nelle opere del 1888. 5. La scelta di cassare dei frammenti, per esempio dalla lista dei 372, che risultassero incompleti, o ripetitivi, o “poco filosofici”, ossia contrastanti con l'autoconclusività dell'aforisma o con la pretesa di un piano organico». Come si vede, l’operazione appare discutibile in sede filologica, ma niente affatto esiziale dal punto di vista filosofico, men che meno da quello politico. Elisabeth ha selezionato, ordinato e composto aforismi arbitrariamente, ma non ha inventato niente. Nessuna delle «scandalose» idee contenute nella Volontà di potenza, del resto, appare davvero inedita al lettore delle opere pubblicate in vita da Nietzsche, che contengono lo stesso, radicale progetto di decostruzione dell’ideologia umanitaria ed egualitaria. Se c’è un Nietzsche falsificato, a ben vedere, è proprio quello addomesticato dai portatori della buona novella filologica che lo hanno voluto recuperare a ideologie che egli, per tutta la sua vita, non cessò di disprezzare.
MR. BRAINWASH, Banksy thrower, opera unica su carta, 2022
Contrariamente a quanto si possa pensare, la street art, così straordinariamente attuale e rivoluzionaria, affonda le sue radici negli albori della storia: si può dire che parta dalle incisioni rupestri (i graffiti primitivi sono temi ricorrenti in molti street artist contemporanei) e millenni dopo, passando per le pitture murali medievali, i murales politici del dopoguerra e il « muralismo » messicano di Diego Rivera, José Clemente Orozco e David Alfaro Siqueiros, approdi nella New York ( o meglio, nel suo sottosuolo…) di fine anni ’60, dove tag, firme e strani simboli si moltiplicano sui treni e sui muri delle metropolitane, espressione di quella nuova forma d’arte che prende il nome di writing, quell’arte urbana che è la «parente più prossima » della street art, meno simbolica e più figurativa.
E quando si parla di street art, il primo nome che viene in mente è in assoluto quello di Banksy, la figura più enigmatica della scena artistica contemporanea, che ha fatto del mistero la sua cifra espressiva. Banksy è «l‘ artista che non c’è » ma che lascia ovunque il segno del suo passaggio, con una comunicazione che si muove con intelligenza tra arte e media: i suoi profili social sono il primo canale di diffusione e le sue opere, spesso realizzate con stencil (una maschera normografica su cui viene applicata una vernice, così da ottenere un'immagine sullo spazio retrostante), sono interventi rapidi nello spazio urbano, capaci di coniugare arte e messaggio politico. Quella di Bansky è un’arte clandestina, quasi abusiva, fulminea, che compare dal nulla un po’ovunque, in primis sui grandi scenari di guerra, dal muro che divide Israele e Palestina ai palazzi bombardati in Ucraina. Le sue immagini, dall’iconica Balloon Girl (la ragazzina con un palloncino rosso a forma di cuore) ai soldati che disegnano il segno della pace, dai bambini con maschere antigas, alle ragazzine che abbracciano armi da guerra, sono ironiche e dissacranti, a volte disturbanti, ma lanciano sempre messaggi politici e chiare invettive contro i potenti del mondo.
Ed è proprio il misterioso artista (forse) di Bristol il fulcro della mostra a Conegliano, curata da Daniel Buso e organizzata da ARTIKA in collaborazione con Deodato Arte e la suggestiva cittadina veneta.
La Mostra, Keith Haring e Obey
Ricca di 80 opere, con focus sulla figura di Bansky ( particolarmente significativa la sua Kids on Guns, un'opera del 2013 che rappresenta due bambini stilizzati in cima a una montagna di armi, simbolo della lotta contro la violenza), la mostra si articola attorno a quattro grandi temi - ribellione, pacifismo, consumismo e critica al sistema – ed ospita, oltre all’enigmatico artista britannico, altri due guru della street art: Keith Haring e Shepard Fairey, in arte Obey.
Convinto che «l’arte non è un’attività elitaria riservata all’apprezzamento di pochi: l’arte è per tutti e questo è il fine a cui voglio lavorare» Haring (morto prematuramente nel 1990, a soli 32 anni, stroncato dall’AIDS) ha creato un nuovo linguaggio comunicativo caratterizzato da tematiche legate alla politica e alla società, facendo degli omini stilizzati e del segno grafico nero i suoi tratti distintivi; Fairey, in arte Obey, attualmente uno degli street artist più importanti ( e discussi) al mondo, si è fin da subito reso conto di come la società in cui è nato e cresciuto lo abbia condotto all’obbedienza senza che lui se ne rendesse conto: da qui la scelta di chiamarsi Obey , che significa obbedire.
Bansky, Haring , Obey, praticamente la storia della street art racchiusa in una mostra che non è solo un'esposizione di opere d'arte, ma anche un'occasione per riflettere sulle contraddizioni di questo oramai popolarissimo movimento artistico e sul suo ruolo nella società contemporanea. Alla domanda se un’arte nata per contestare il sistema possa oggi essere esposta nei musei, venduta all’asta e diventare oggetto di mercato, non vengono offerte risposte, ma contributi per stimolare una riflessione personale in ogni visitatore. Perché, in fondo, anche questa è la forza della Street Art: porre questioni più che dare certezze...
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Da sx in alto: americani della 92ª Divisione, alpini della Divisione «Monterosa», paracadutisti tedeschi e la frazione di Sommocolonia oggi. Garfagnana, 26 dicembre 1944
La battaglia della Garfagnana, nota come Operazione «Wintergewitter» (tempesta invernale) fu l’ultima controffensiva delle forze dell’Asse sul fronte italiano. Iniziò la notte tra Natale e Santo Stefano del 1944 per terminare tre giorni più tardi. L’obiettivo, pur presentando scarse se non nulle possibilità di raggiungerlo, era quello di arrestare l’avanzata alleata lungo il fronte della linea Gotica allora in stallo per l’inverno rallentando l’avanzata degli angloamericani che puntavano verso Bologna e la Pianura Padana. Il teatro delle operazioni fu la valle del Serchio nella Garfagnana, in provincia di Lucca, dove gli americani del 92° Infantry Regiment, i famosi «Buffalo Soldiers» a maggioranza afroamericana, si erano acquartierati nei giorni precedenti al Natale, ritenendo le ostilità in pausa. L’effetto sorpresa era proprio il punto cardine dell’operazione pianificata dal comando tedesco guidato dal generale Otto Fretter-Pico. Le forze dell’Asse consistevano sostanzialmente di reparti da montagna, i «Gebirgsjaeger» tedeschi e gli alpini italiani della Divisione «Monterosa», uno dei primi reparti addestrati in Germania dopo la nascita della Repubblica Sociale. L’attacco fu fissato per la mezzanotte, tra il 25 e il 26 dicembre e procedette speditamente. I reparti speciali tedeschi e gli alpini iniziarono una manovra di accerchiamento da Montebono per Bobbio, Tiglio e Pian di Coreglia, mentre un reparto leggero prendeva in poche ore Sommocolonia. Contemporaneamente tutti i reparti si muovono, compreso un nucleo del Battaglione «San Marco», che in poco tempo occupava Molazzana. Entro la sera di Santo Stefano la linea dei Buffalo Soldiers era sfondata, mentre i reparti americani arretravano in massa. I prigionieri erano circa 250, mentre numerose armi e munizioni venivano requisite. Anche vettovaglie e generi di conforto cadevano nelle mani degli attaccanti.
Gli americani praticamente non reagirono, ma si spostarono in massa verso la linea difensiva di Bagni di Lucca. Per un breve tempo sembrò (soprattutto agli italiani, mentre i tedeschi sembravano paghi della riuscita sorpresa) che il fronte potesse cedere fino in Versilia e verso Livorno. L’ordine di Fretter-Pico di arrestare l’avanzata fu una doccia fredda. Le ragioni dell'arresto risiedevano principalmente nella difficoltà di mantenere le posizioni, la scarsità ormai cronica di uomini e munizioni (c’era solo l’artiglieria, nessun carro armato e soprattutto nessun supporto dall’Aviazione, praticamente sparita dai cieli del Nord Italia). Gli americani invece avevano il dominio assoluto del cielo, con i cacciabombardieri che potevano decollare dai vicini aeroporti della Toscana occupata, come quelli di Grosseto e Rosignano. Tra il 27 e il 30 dicembre 1944 i P-47 Thunderbolt dell’Usaf bombardarono a tappeto, mietendo vittime soprattutto tra la popolazione civile. La linea difensiva dell’Asse ritornò nei giorni successivi alle posizioni di partenza, mentre il fronte si assestava fino all’inizio del febbraio 1945 quando gli alleati lanciarono l’operazione «Fourth Term», che portò in pochi giorni alla conquista della Garfagnana. Durante l’operazione «Wintergewitter» lo scontro più violento si verificò nell’abitato di Sommocolonia dove la guarnigione americana perse quasi tutti gli uomini, compreso il proprio comandante tenente John R. Fox che, vistosi ormai circondato dai tedeschi, chiese all’artiglieria della 92ª di sparare sull’abitato nel tentativo disperato di rallentare l’attacco a sorpresa. Morì sotto le macerie della sua postazione e solamente nel 1997 fu insignito della medaglia d’onore.
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Lee Raybon avrebbe ambizioni da detective. Non da investigatore tout court. Piuttosto, vorrebbe essere un reporter, di quelli capaci - forti solo delle proprie risorse - di portare a termine indagini e inchieste, di dar forma alle notizie prima ancora che queste vengano diffuse dalle autorità competenti.
L'ambizione, tuttavia, è rimasta tale, nel corso di un'esistenza che ha costretto Raybon a ripiegare su altro per il mero sostentamento. Si è reinventato libraio, Lee Raybon, gestendo di giorno un negozio di libri rari. La notte, però, ha continuato a seguire il cuore, dando spazio alle sue indagini scalcagnate. Qualcuna è riuscito a trasformarla in articolo di giornale, venendola alle pagine di cronaca locale di Tulsa, città che ospita il racconto. E sono i pezzi ritagliati, insieme ai libri ormai giallognoli, ad affollare l'apportamento di Raybon, che la moglie ha mollato su due piedi, quando ben ha realizzato che non ci sarebbe stato spazio per altro nella vita di quell'uomo. Raybon, dunque, è rimasto solo. Non solo come il crime, per lo più, ha raccontato i suoi detective. Non è, cioè, una solitudine disperata, quella di Raybon. Non c'è tristezza né emarginazione. C'è passione, invece: quella per un mestiere cui anche la figlia dell'uomo sembra guardare con grande interesse.
Francis, benché quattordicenne, ha sviluppato per il secondo mestiere del padre una curiosità quasi morbosa, in nome della quale ha cominciato a seguirlo in ogni dove, partecipando lei pure alle indagini. Cosa, questa, che si ostina a fare anche quando la situazione diventa insolitamente complicata. Lee Raybon ha messo nel mirino i Washberg, una tra le famiglie più potenti di Tulsa. Ma uno di loro, Dale, si è tolto la vita, quando l'articolo di Raybon sulle faccende losche della dinastia è stato pubblicato su carta. Perché, però? Quali segreti nascondo i Washberg? Le domande muovono la nuova indagine di Raybon, la sostanziano. E, attorno alla ricerca di risposte, si dipana The Lowdon, riuscendo a bilanciare l'irrequietezza del suo protagonista, il suo cinismo, con il racconto di una dinamica familiare di solito estranea al genere crime.
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