Netflix ha acquistato da Showtime i diritti della storia del noto romanzo diventato poi film e l'ha adattata a serie, accorciando il titolo in «Ripley»: otto episodi che narrano in maniera più moderna e immediata le vicende di Tom Ripley, personaggio enigmatico e inquietante, ambizioso e scaltro.
Di nuovo l’Italia, la costiera amalfitana, un piccolo paesino fittizio, frutto di un artificio letterario. Il talento di Mr. Ripley, nato come romanzo e diventato poi un film, è tornato a essere oggetto di manipolazioni e adattamenti. Netflix lo ha comprato da Showtime, e imbellettato a dovere. Il titolo si è accorciato: nessun accenno alle doti presunte, solo Ripley, a indicare continuità e - insieme - innovazione.
La piattaforma streaming, di quel libro assurto a pietra miliare di genere, ha voluto fare una serie televisiva: qualcosa di vagamente diverso, più moderno ed immediato di tutto quel che è venuto prima. Otto episodi, una sola parola a racchiuderli, il nome di Steven Zaillian (sceneggiatore premio Oscar, ingaggiato tra le cose per The Irishman di Martin Scorsese) a fare da volano. Ripley, che pur non ha cambiato di una virgola la storia che gli è sottesa, la sua ambientazione, è stata costruita per riproporre e approfondire un personaggio noto. Tom Ripley, enigmatico e inquietante, ambizioso, scaltro come e più di un Bel-Ami.
Tom Ripley, che Patricia Highsmith ha messo su carta alla metà degli anni Cinquanta, tratteggiandolo con una ferocia straordinaria, è un truffatore di New York. Sono gli anni Sessanta, nel primo romanzo della scrittrice. È il bianco e nero, nella serie Netflix. Ripley, che ne film precedenti ha avuto il volto giovane e bello di Alain Delon, poi di Matt Damon, è più vecchio di quanto non traspaia dai libri. Ad interpretarlo, nella serie Netflix, disponibile online da giovedì 4 aprile, è Andrew Scott. Non un corrispettivo del Delon che fu, venticinquenne in Delitto in pieno sole, non un succedaneo di Matt Damon, che nel 1999 di anni ancora non ne aveva compiuti trenta.Scott, quell’età, l’ha passata. Ormai, è prossimo ai cinquanta. Eppure, guardandolo negli abiti eleganti di Thomas Ripley, con un sorriso sghembo dipinto in volto, è difficile pensare all’età anagrafica, alle discrepanze fra le narrazioni passate e quella attuale. L’attore è bravo, perfetto, lubrico e viscido quanto ci si attende dal suo personaggio.
A dispetto delle apparenze, Thomas Ripley non è un santo o un nobile. È un approfittatore, determinato a farsi strada nelle gerarchie della società. E quale occasione migliore di un supposto salvataggio? Quale espediente più azzeccato di una redenzione per interposta persona? Ripley, il grande salto, capisce di poterlo fare quando un potente industriale lo supplica di accettare uno stipendio e partire per l’Italia, per farne ritorno con il figlio ricco e scapestrato, Dickie. Dickie s’è messo in testa di rimanere in costiera amalfitana, di fare la bella vita lontano dalle responsabilità e dai lasciti di famiglia. Ma il padre lo vorrebbe in America. Ripley, dunque, parte e, una volta in Italia, millanta. Finge grandi amicizie, racconta al povero industriale di aver stretto con il figlio un rapporto intimo e costruttivo. Parla, con le parole lo stordisce. E la storia va, fino a farsi tortuosa. Sul percorso di Ripley, nella cui testa s’era fatta largo l’idea di poter sfruttare Dickie per diventare finalmente qualcuno, sottrargli le ricchezze e la potenza, compaiono un omicidio, sotterfugi, drammi. Allora, Ripley, versione serie televisiva, diventa quel che ha scritto la Highsmith, un thriller ben congegnato, di quelli che – per dirla con Zaillian – hanno la forza di «entrare a far parte della nostra coscienza».





