ESCLUSIVO - Montepaschi, il nodo dipendenti. Unicredit chiedeva il taglio di 7.800 posti

Per Mps serviva un aumento di capitale da 8,3 miliardi di euro
Dopo il servizio di ieri qui pubblichiamo la seconda e ultima puntata dell’inchiesta su Mps basata sul documento riservato inviato da Unicredit al Tesoro e che nell’ottobre scorso sancì il fallimento della trattativa per la privatizzazione della banca senese.
Anche i bancari sono numeri. Se fosse andato importo il salvataggio del Monte dei Paschi di Siena da parte di Unicredit, almeno 7.800 persone avrebbero perso il posto e altre 3.370 sarebbero state cedute a terzi, in modo da non pesare sui conti del cavaliere bianco e mascherare un po’ l’impatto immediato dell’operazione sotto il profilo occupazionale. In sostanza, dei circa 21.000 dipendenti di Mps uno su due sarebbe andato a casa o sarebbe finito impacchettato come un npl.
Ma il problema è che neppure sui tagli di personale, e sui risparmi che si sarebbero potuti realizzare sciogliendo di fatto Rocca Salimbeni nell’acido di piazza Gae Aulenti, c’era accordo tra compratore e venditore di Stato. Come risulta chiaramente dal documento «strettamente riservato e confidenziale» pubblicato ieri da Verità&Affari e che a ottobre scorso chiude la due diligence di Unicredit, portando al fallimento delle trattative.
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In un anno sono aumentate del 18,5% le persone nate fuori dall’Italia che percepiscono un assegno dall’Inps: sono 378.645 e nella stragrande maggioranza incassano prestazioni assistenziali alimentate dalle nostre tasse.
Ricordate quando ci dicevano che gli immigrati ci avrebbero pagato le pensioni? Beh, al momento siamo noi a pagarle a loro. Lo rivelano i dati 2024 dell’Osservatorio sugli stranieri presso l’Inps. L’ente previdenziale ha infatti un ufficio che studia l’impatto degli extracomunitari sui conti pubblici. E a sorpresa, scorrendo le statistiche, si scopre che l’istituto eroga già centinaia di migliaia di trattamenti a soggetti stranieri, quasi tutti a carico della collettività, cioè dei contribuenti.
È vero, ci sono quasi quattro milioni di lavoratori che versano i contributi, ma nel bilancio dell’ente figurano 252.000 percettori di prestazioni a sostegno del reddito e 378.000 pensionati (+ 18,5% rispetto all’anno precedente). Nel primo caso non c’è neppure da discutere: si tratta di immigrati che sono o disoccupati o in mobilità e dunque ricevono un sussidio statale. Nel secondo caso basta leggere le spiegazioni che accompagnano i dati per scoprire che più della metà di quei «pensionati» percepiscono un assegno assistenziale, per un importo medio annuo di poco superiore a 7.000 euro. Di questi 195.000 soggetti, 150.000 sono extracomunitari e 45.000 fanno parte della Ue. L’altro 48,5 per cento di pensionati stranieri che non incassa il sussidio è composto invece prevalentemente da chi beneficia di trattamenti previdenziali sempre a carico della collettività in tutto o in parte. Ovvero pensioni di invalidità, di vecchiaia o destinate ai superstiti. In totale, parliamo di 322.000 persone che godono di un trattamento che non è assistito dalla contropartita di una contribuzione. In altre parole, pagano gli italiani. Qualcuno potrebbe obiettare che a fronte di questi 570.000 assegni che ogni mese escono dalle casse dell’Inps senza che in precedenza siano stati versati i soldi che legittimano la quiescenza ci sono quasi quattro milioni di lavoratori iscritti nei ruoli dell’ente previdenziale. Ma se si scorre il valore delle retribuzioni attuali si scopre che su circa tre milioni e mezzo di dipendenti di imprese private il reddito annuo è di poco superiore a 16.000 euro e dunque il versamento dei contributi è conseguente. Cioè basso. Dunque, non soltanto parliamo di cifre ridotte, ma in futuro, quando andranno in pensione, molti di questi lavoratori più che pagare la pensione agli italiani, avranno bisogno di veder integrare la propria da un sussidio statale. Cioè saranno in parte a carico della collettività e riceveranno l’integrazione al minimo, soprattutto se non potranno vantare una contribuzione quarantennale. Del resto non c’è da stupirsi. Le statistiche dell’Istat parlano chiaro: quando si discute di povertà si scopre che negli anni è leggermente diminuita la quota delle famiglie italiane indigenti, mentre è cresciuta quella dei nuclei di origine straniera. Il 35 per cento degli immigrati con moglie e figli vive in quella che in base al reddito è classificata come povertà assoluta. Dunque è difficile che questa quota di popolazione possa in futuro pagare la pensione ad altri. Più probabile che prima o poi chieda che qualcuno gliela paghi e a questo punto dovrà pensarci lo Stato. Dimenticavo: mentre è abbastanza improbabile che i salari bassi di lavoratori extracomunitari possano rifinanziare le casse dell’Inps (già malmesse per le troppe prestazioni non sorrette da contributi: Alberto Brambilla di Itinerari previdenziali calcolò che oltre quattro milioni di pensionati riceve un assegno che non ha maturato), è invece certo che gran parte degli immigrati beneficia di servizi sociali a carico della fiscalità generale. Che vuol dire? Che l’assistenza sanitaria, quella scolastica e tutti gli altri servizi che lo Stato eroga a favore dei cittadini sono sorretti dalle tasse. Ma chi guadagna poco è praticamente esente da ogni imposizione fiscale e dunque il peso di pensioni, cure ed educazione resta a carico di circa 11 milioni di contribuenti che le imposte le versano regolarmente ogni mese. Sono loro a pagare, altro che gli immigrati.
L’ostacolato e imbrogliato non si è sentito né ostacolato né imbrogliato. L’inchiesta della Procura di Milano per aggiotaggio e ostacolo alle autorità di vigilanza nella scalata a Mediobanca riserva un colpo di scena davvero incredibile. La Consob, in un documento della divisione vigilanza, sostiene che «non sussiste il patto occulto» fra i soci Delfin e Caltagirone e neppure «sussiste il concerto» con Siena. Un’unità di intenti con la quale gli indagati avrebbero invece dovuto lanciare una costosa Opa obbligatoria su Piazzetta Cuccia. Il documento in cui la Consob esclude di essere vittima dei «concertisti» porta la data del 15 settembre scorso. Visto che il decreto di perquisizione degli indagati è del 15 novembre, ci sono due ipotesi: o la Procura ha in mano elementi di prova molto forti e che le sono «entrati» dopo il 15 settembre, oppure questi due pezzi dello Stato non si sono molto parlati, nonostante le norme sui reati finanziari prevedano ampia collaborazione.
Il documento della Consob è uscito ieri sul Sole 24 Ore e sembra, almeno per il momento, ribaltare il senso delle prime carte dell’inchiesta, è costata al Monte dei Paschi di Siena una perdita di 3,5 miliardi in Borsa in soli dieci giorni. Anche se in serata Consob e Procura hanno fatto trapelare sulle agenzie di stampa che continuano a collaborare, ciascuna nei propri ambiti di competenza.
Tutto inizia il 5 marzo, quando l’allora amministratore delegato di Mediobanca, Alberto Nagel, firma una serie di esposti contro l’Ops lanciata da Monte Paschi su Piazzetta Cuccia. Nagel sottolineava quello che in fondo già era uscito su larga parte dei media come retroscena, ovvero che Delfin e Caltagirone «non essendo riusciti a mutare gli assetti di controllo e di governance né di Mediobanca né di Generali (controllata con solo il 13%, ndr) negli ultimi tre anni», aveva messo in campo «un’azione concertata con e su Mps». È appena il caso di ricordare che il Tesoro, che non è indagato a Milano, è ancora il primo azionista di Rocca Salimbeni dopo che per risanare l’ex banca dei «compagni» sono stati spesi oltre 10 miliardi dei contribuenti.
Consob si prende sei mesi per fare le sue verifiche e alla fine mette nero su bianco che non ci sono anomalie o violazioni di legge. In un passaggio del documento finale, si legge che «nessuna delle condotte riferite da Mediobanca - per altro non supportate da evidenze probatorie di alcun genere - è parsa essere caratterizzata da profili di criticità o allarme». E in assenza di indizi «gravi, precisi e concordanti» che possano provare un’azione di concerto tra Delfin, Caltagirone e il Mef «attuata anche tramite Mps», Consob respinge l’accusa di Mediobanca che gli sfidanti abbiano operato in pieno accordo. Se, appunto, alla Consob non è sfuggito qualcosa che invece la Procura sa, come potrebbero essere testimonianze dirette e intercettazioni telefoniche dei manager coinvolti ancora coperte da segreto, risulta complicato andare a un processo in cui la stessa Consob oggi faticherebbe a considerarsi parte lesa. Oltre al fatto che al 15 settembre Consob non avesse in mano tutte le notizie che aveva la Guardia di finanza, non si può neppure escludere, almeno astrattamente, che la Consob in questi due mesi e mezzo abbia cambiato idea.
Certo, dopo le rivelazioni apparse sul Sole 24 Ore si apre anche un piccolo giallo sui tempi dell’inchiesta penale. Per quel che è noto, l’indagine che ha colpito Mps e i presunti «concertisti» sarebbe nata da un editoriale di Osvaldo De Paolini pubblicato sul Giornale del 23 gennaio 2025 intitolato Il voto di scambio in Mediobanca, schierato sulle posizioni di Francesco Gaetano Caltagirone e degli eredi Del Vecchio. Nelle settimane seguenti, Nagel presenta denuncia per diffamazione aggravata contro quell’articolo. È il cavallo di Troia atteso da mesi per portare la difesa di Piazzetta Cuccia in mano ai pm. Solo che i tempi della giustizia sono più lenti di quelli del mercato.
L’offerta su Mediobanca si conclude a settembre con l’86,3% di adesioni. Siamo ben oltre le quote possedute dagli odierni indagati ed evidentemente il famoso mercato non deve essersi commosso più di tanto per l’improvvisa battaglia «di libertà» di chi aveva comandato per anni su mezza Piazza Affari con patti di sindacato bizantini, costruiti su pacchetti dello zero virgola.
Il calendario della disfida intorno a Piazzetta Cuccia va quindi riscritto: a febbraio inizia l’inchiesta dei pm milanesi (il 25 febbraio ricevono la prima informativa della Finanza); il 5 marzo la Consob indaga sull’esposto di Mediobanca; il 14 luglio inizia regolarmente l’Ops di Monte Paschi, che si conclude il 15 settembre; quello stesso giorno la Consob esclude che ci siano irregolarità; il 22 settembre, dopo una settimana supplementare di adesioni, si conclude l’Ops. Due mesi dopo, arrivano le perquisizioni e il sequestro di computer e telefoni cellulari.
In realtà, forse un po’ tutta la storia del risiko bancario andrebbe riscritta, cominciando dalla variabile Unicredit.
Nel documento della Consob c’è un passaggio in cui si sposano le spiegazioni offerte da Luigi Lovaglio, amministratore delegato di Mps, che racconta come la prima opzione della sua banca fosse l’alleanza con Banco Bpm. Solo che a fine novembre 2024, quando l’Unicredit di Andrea Orcel tagliò la strada alla nascita del terzo polo bancario, come ricorda Lovaglio, «divenne praticamente obbligata, in quel contesto, la scelta di perseguire l’unica opzione alternativa possibile, ossia l’integrazione con Mediobanca». Insomma, ognuno aveva le sue motivazioni, per marciare su Piazzetta Cuccia.
Non a caso, la Consob ha ricostruito i desiderata di Mps nel corso del tempo. Prima, ha pensato all’opzione stand alone, con vendite progressive di quote sul mercato da parte del Tesoro (che partiva dal 64%). Poi ha pensato a fusioni tra simili come Bper o Bpm. Quindi ha ripiegato su Mediobanca, nonostante fosse una banca molto diversa. Lovaglio ha rivelato alla Consob che quest’ultima operazione è stata prospettata allo stesso Nagel già nell’estate del 2024, a riprova che era un’operazione «industriale».
Salvatore Priola, presbitero della chiesa di Palermo dal 1996, ha insegnato antropologia filosofica e antropologia della religione alla pontificia facoltà teologica di Sicilia, e per le edizioni Pozzo di Giacobbe ha pubblicato un libro molto potente intitolato La consegna, una profonda riflessione sul ruolo dei cristiani nella vita pubblica.
Il suo saggio sembra prendere le mosse da una affermazione di Divo Barsotti che dice in sostanza: sembra che i cristiani si vergognino di rendere testimonianza della loro fede.
«Don Divo lo diceva già un po’ di anni fa, da un po’ di tempo ci metteva in guardia dal rischio di vivere un cristianesimo talmente anonimo da non essere più nemmeno percepito, nemmeno più colto in nessuna delle sue espressioni. Nelle sue forme non tanto religiose - questo in molte parti d’Italia e in giro per l’Europa ancora è possibile - quanto culturali. Quell’avvertimento dato da don Divo a me oggi pare molto attuale».
Più che un rischio è una certezza. Certe posizioni oggi appaiono insostenibili, indicibili.
«Oggi sembra quasi che nell’agorà culturale chi si presenta con l’etichetta di cristiano, cattolico in modo particolare, abbia una sorta di aggravio in partenza nel farsi accettare per ciò che esprime, per quello che sostiene, per il pensiero che vuole portare quale contributo al dialogo sul piano sociale, culturale, civile. Insomma, c’è una sorta di aggravio in partenza per potersi accreditare al pari di tutte le altre voci».
Nei mesi scorsi abbiamo parlato molto di Charlie Kirk, uno che certo non si vergognava delle sue idee. Eppure oggi se un politico italiano parlasse come lui avrebbe probabilmente molte difficoltà persino in ambito conservatore.
«Sì, penso che questo sia vero, ma la fatica la fa anche oggi la Chiesa quando si tratta di uscire un pochino più allo scoperto e dare forza a quelle figure coraggiose che giustamente richiedono legittimo spazio per poter portare il proprio contributo di idee, che poi sono idee maturate alla scuola del Vangelo, maturate nell’orizzonte di fede. Io credo che da Kirk, qualcosa da imparare l’abbiamo: nel metodo e nel merito. Quantomeno il coraggio di osare, di varcare certe soglie, di attraversare certe porte, che anche nel recente passato sono state chiuse. Voglio ricordare quello che capitò persino al grande pontefice Benedetto XVI, all’Università La Sapienza di Roma, e si trattava giusto della punta dell’iceberg. Situazioni del genere oggi se ne registrano un po’ dovunque. Ecco: osare, andare oltre il proprio giardino per provare a intavolare una discussione, un confronto nel cortile di qualcun altro credo ci aiuterebbe a crescere, a migliorare, a mettere a fuoco nuovi orizzonti».
La sensazione è che la Chiesa oggi venga accettata quando si comporta da grande associazione umanitaria. Ma appena c’è la fede di mezzo sorgono i problemi.
«Se la Chiesa si esprime dal punto di vista sociale, umanitario, è chiaro che trova un terreno più semplice, più disponibilità. Nel momento in cui la Chiesa assolve pienamente alla sua missione, che è quella di annunciare il Vangelo, di testimoniare Gesù Cristo, di offrire il bene della salvezza a ogni uomo e ogni donna che intercetta nel percorso della propria missione, lì cominciano a sorgere le difficoltà, le obiezioni, le ostilità, le inimicizie. E si ripresentano sotto nuove vesti, a volte anche molto subdole, forme di persecuzione, di rifiuto e di pregiudizi che vogliono silenziarla e metterla da parte. La Chiesa, io credo, oggi deve avere la capacità e il coraggio non solo di conservare la fede ma di fare la differenza, senza paure, senza tentennamenti, anche a costo di rischiare qualcosa».
C’è forse chi pensa che adeguarsi un po’ all’onda mediatica e culturale prevalente - in sostanza stare un po’ di più in sintonia col mondo - possa pagare.
«Beh sì, questo probabilmente ha un ritorno. Ma sono quelle forme di ritorno in linea con la logica del mondo, che oggi paga e domani non paga. Oggi c’è una linea, c’è un vento che ti gonfia le vele, domani quel vento finisce. Le vele della barca della Chiesa, per usare un’immagine molto antica e sempre attuale, le gonfia lo spirito di Dio, non le gonfiano le correnti ideologiche, di pensiero, culturali e i fattori sociali che possono in questo momento offrire un ritorno e un credito. Le vele della Chiesa le gonfia lo spirito di Dio e la Chiesa deve restare in ascolto dello spirito per restare fedele a Cristo e al Vangelo, perché è l’unica fedeltà che gli è richiesta dentro le pieghe della storia di questo mondo. Gesù ai suoi ha detto chiaramente che sarebbero stati nel mondo ma non del mondo e questa preposizione articolata ogni tanto bisogna distinguerla più chiaramente, perché a far confusione ci vuole poco»
Nel libro lei sostiene che ci vorrebbe un wokismo cristiano. Che cosa intende? Il termine wokismo non evoca belle sensazioni...
«È il titolo di un paragrafo che ho voluto chiamare così provocatoriamente. Parlo di un wokismo delle famiglie cristiane in realtà. Questa è la spinta che mi piacerebbe dare alle famiglie che ancora si definiscono cristiane cattoliche: la spinta a svegliarsi, nel senso proprio del termine, e a riappropriarsi del loro ruolo pedagogico, educativo, culturale, formativo, prendendo in mano la vita della famiglia e dei figli in modo particolare, perché non finiscano nelle mani di chi li vorrebbe invece “svegliati” ma in un modo totalmente inaccettabile per noi cristiani. Usare quel termine per me è stato risignificarlo in ambito e in chiave cristiana: bisogna risvegliarsi per riappropriarsi di quelle che sono le specificità della formazione cristiana che le famiglie devono dare ai propri figli. Senza delegarle e lasciarle nelle mani di chi poi interviene a modificare persino le radici culturali delle persone».
Sa che oggi questo tema è molto dibattuto. Si parla di educazione sentimentale nelle scuole, e poi c’è stato il caso della famiglia del bosco.
«Dobbiamo stare molto attenti. Esistono casi di famiglie inadeguate - pericolosamente inadeguate - a garantire i diritti dei minori e quindi la sicurezza, la salute, l’istruzione, la formazione, la cronaca ce lo testimonia in tante circostanze. Tuttavia io sono dell’idea che nessuno abbia il diritto di prevaricare le scelte che ogni famiglia fa nel formarsi dal punto di vista sociale, civile, culturale. E su questo nessuna delega, secondo me, va data ad alcuno in maniera cieca. Per questo motivo io sottolineo l’importanza del fatto che le famiglie svolgano appieno il loro ruolo educativo. Se si delega questo ruolo ad altri, il rischio è che intervengano con pregiudiziali ideologiche e orientino le nuove generazioni in una direzione altra, a volte addirittura opposta, a quella che sta alla matrice della genesi della famiglia stessa. Per cui, o che sia cristiana, che sia musulmana, che sia atea, agnostica, quale che siano le ragioni che hanno visto nascere una famiglia, io credo che quella famiglia abbia il diritto di educare e formare i figli secondo le ragioni che l’hanno fatta venire alla luce. È chiaro che poi ci vuole una vigilanza da parte delle istituzioni laddove si riscontrino oggettivi elementi che possono compromettere l’equilibrio soprattutto dei minori».
Oggi però le influenze esterne sono tante e forti. Si comincia ad accanirsi con la famiglia nel bosco, poi magari si passa ad altri anche apparentemente meno strambi.
«A volte il passaggio è molto semplice da fare. Laddove la valutazione, il giudizio è pregiudicato da visioni ideologiche, è chiaro che tutto quello che non si confà al modo di vedere o di sentire della maggioranza rischia di diventare tra strano, anomalo, inaccettabile. Il pericolo è che l’omologazione allo stile della maggioranza finisca per mortificare le specificità, le caratteristiche che sono proprie di chi magari ha un altro progetto di vita. Differente, forse, ma non per questo di per sé negativo».
Nel suo libro lei parla spesso di combattimento. A che si riferisce?
«Tutta la prima parte è dedicata al combattimento. Come mi premuro di chiarire, il combattimento non è mai contro gli altri ma è sempre in sé stessi. Noi siamo chiamati a fare guerra al nemico peggiore che abbiamo nella nostra vita, che è il nostro ego autoreferenziale, autocentrato, superbo, arrogante, che rischia di condizionare tutto e tutti. Dobbiamo tornare a padroneggiare le nostre esistenze. Cristianamente noi diciamo che è la Signoria di Cristo, la Regalità di Cristo che deve aiutarci, sostenerci, guidarci, illuminarci nell’essere padroni di noi stesso, nel dominarci. Il combattimento spirituale mira a riappropriarsi della propria autentica libertà di figlio di Dio. Per questo bisogna battagliare contro tutto ciò che in un modo o nell’altro ti vuole incatenare a un vizio, una debolezza. Contro tutto quello che ti vuole fare arrendere, alzare bandiera bianca di fronte alle fragilità che sperimenti nel cammino della tua vita. Per dire che la vita cristiana non è una passeggiata al Luna Park per nessuno, né per il Papa, né per i Vescovi, né per un prete come me, né per un laico. Gesù lo ha detto: la vita cristiana è combattimento, chi vuol venire dietro a me, dice Cristo, rinneghi sé stesso, prenda ogni giorno la sua croce e mi segua. Questa è vita cristiana».












