
Finalmente il ministero va alla carica per portare a casa «Il vaso di fiori» di van Huysum rubato a Firenze dai nazisti e «L'atleta vittorioso» di Lisippo, finito in California. Ma sono oltre 10.000 i gioielli culturali depredati durante le guerre e dai trafficanti d'arte.Il contrappeso di una rincuorante massima confuciana, «con il tempo e la pazienza, ogni foglia di gelso diventa seta», è l'ammonimento di Edmund Burke: «C'è un limite oltre il quale la pazienza cessa di essere una virtù». Nell'ultima riunione tecnica, la task force dello Stato per il recupero di preziose opere d'arte appartenenti di diritto all'Italia che continuano a permanere in «ostaggio» in musei e collezioni all'estero, composta dai vertici del ministero per i Beni e le attività culturali e dall'Avvocatura dello Stato, ha espresso un pronunciamento che raccomanda di non confondere la capacità di attendere con la remissività. Gli oggetti del contendere, ai quali è stata conferita priorità, sono un dipinto del pittore olandese Jan van Huysum dal titolo Vaso di fiori, razziato nel 1943 dalla Wehrmacht agli Uffizi di Firenze, appartenuto alla collezione di Leopoldo II, Granduca di Toscana, e l'Atleta vittorioso, statua in lega bronzea del IV secolo prima di Cristo, alta circa 1,5 metri, attribuita al greco Lisippo o alla sua scuola. Quest'ultimo fu riportato casualmente in superficie dalle profondità sottomarine il 14 agosto 1964 da alcuni pescatori nell'Adriatico marchigiano a 43 miglia a levante del monte Conero e a 27 miglia dalla costa della Croazia, e finì, dopo una sfilza di imbrogli, nel mercato clandestino dei trafficanti d'arte, per poi essere acquistato nel 1977 dal Getty Museum di Malibù, in California, per quasi 4 milioni di dollari. L'esito del summit del ministero indica un percorso che calibra la tolleranza del dialogo con la fermezza dei propositi. Si procederà imboccando la via della «diplomazia culturale», alla ricerca di soluzioni di compromesso (il che significherebbe, per esempio, l'accordo per una presenza temporalmente spartita delle opere tra i due Paesi contendenti), e quella della rogatoria internazionale. Il dipinto di van Huysum trafugato a Firenze dai nazisti è conservato - ma forse sarebbe il caso di dire, ospitato - in una collezione privata in Germania e il direttore degli Uffizi Eike Schmidt - tedesco, quasi per ironia della sorte - è perentorio nel rivendicare la titolarità italiana dell'opera, sostenendo senza mezzi termini che per lo Stato germanico «è un dovere morale restituirlo». Nel gennaio 2019, agli Uffizi, ha fatto simbolicamente appendere in cornice una riproduzione dell'opera circondata da biglietti che, in tre lingue, conclamano: «Rubato».Se per la tela di cui gli Uffizi invocano il rientro, dopo un sequestro che perdura da oltre 75 anni, sembra si stia seguendo una strada più morbida, per l'Atleta di Lisippo si procede per vie giudiziarie. Dopo i vari gradi di giudizio della giustizia italiana e la sentenza definitiva della Cassazione, la palla passa ancora alla Procura di Pesaro, che dovrà confrontarsi con la normativa statunitense e con il diritto internazionale per tradurre in fatti la disposizione di confisca dell'opera nonostante il ricorso (respinto) dei legali del museo californiano.Ma i capolavori d'arte di proprietà italiana ancora latitanti dispersi nel mondo costituiscono un patrimonio sterminato di cui soltanto una minima parte è stata recuperata. Basti pensare che il comando dei carabinieri per la tutela dei beni culturali, istituito nel 1969, con quartier generale a Roma e una squadra di 280 uomini diramati nell'intera penisola, dispone di un database denominato Leonardo, consultabile sul Web, che elenca 1,2 milioni di oggetti d'arte illecitamente sottratti, con un corredo di 700mila immagini. È il più grande del mondo, punto di riferimento delle polizie di tutti gli Stati, secondo solo all'Ocbc della Polizia francese. Esso contiene anche le circa 2.125 opere indicate nel celebre rapporto Opere da ritrovare, catalogate da Rodolfo Siviero (1911-1983), agente segreto e 007 dell'arte, che mise in atto iniziative di contrasto all'esodo già dal 1936, quando iniziò l'emorragia di preziosità artistiche dirette verso la Germania, legate a favori di Mussolini, nonostante il parere negativo del ministro dell'Educazione nazionale Giuseppe Bottai, per compiacere il Führer e soprattutto il feldmaresciallo Hermann Göring, fanatico collezionista d'arte. Come si evince dal libro di Salvatore Giannella Operazione salvataggio (Chiarelettere), nel 1944 Siviero scongiurò il trasferimento in Germania dell'Annunciazione del Beato Angelico, bramata da Göring, nascondendolo nel convento di piazza Savonarola a Firenze e oggi esposto nel museo della basilica di Santa Maria delle Grazie, a San Giovanni Valdarno. E, nel dopoguerra, favorì il rimpatrio di altri tesori, come quelli dei musei napoletani trafugati dai tedeschi nel 1943 dal deposito dell'abbazia di Montecassino, tra cui la Danae di Tiziano del museo di Capodimonte, regalata a Göring per il suo 51° compleanno, del Discobolo Lancellotti ora conservato al Museo nazionale romano, della Madonna con bambino del Masaccio, oggi agli Uffizi, addirittura oggetto di un doppio recupero dallo stesso Siviero, nel 1947 e poi nell'aprile 1973, in seguito a un furto avvenuto nel 1971.Tuttavia, come rende noto il comando dei carabinieri per la tutela dei beni culturali, oltre alle circa 2.125 opere del Rapporto Siviero, «ne sono state censite altre 7.988, depredate nel corso del secondo conflitto bellico, delle quali ne sono state recuperate 281». Ad esse si aggiungono tutti i reperti saccheggiati, in altre circostanze, in luoghi di culto, musei, scavi archeologici, alimento del sempre fiorente ed esoterico mercato illegale dell'arte. L'ultima operazione è stata portata a termine a Londra, in collaborazione con la casa d'aste Christie's. All'Italia sono stati restituiti 12 reperti, tra i quali un capitello romano del II secolo dopo Cristo dissotterrato dai tombaroli, un rilievo romano in marmo con Satiro e Menade sparito dai giardini di Villa Borghese a Roma nel 1985 e persino la pagina di un codice miniato sgraffignata all'Archivio di Stato di Venezia negli anni Quaranta del secolo scorso. Il ministro dei Beni e delle attività culturali Alberto Bonisoli ha riconvocato il Comitato istituzionale delle opere trafugate, con la consapevolezza che resta immane lo sforzo da compiere per ottenere il saldo di un debito stellare per larga parte ignorato dai molti Paesi in cui le opere si trovano, quando non misconosciuto fino allo sbeffeggio. Emblematico è il caso di una mostra svoltasi a Bologna dal 28 novembre 2004 al 13 febbraio 2005, intitolata Da Carpaccio a Canaletto. Tesori d'arte italiana dal Museo nazionale di Belgrado, nella quale furono esposti otto capolavori, tra i quali un Tiziano, un Tintoretto e un Carpaccio, acquistati da un emissario di Göring nel 1941, spedite in Germania violando due leggi italiane e poi concesse dagli Usa all'ex-Jugoslavia come compenso per i danni di guerra. I pm di Bologna hanno disposto il sequestro preventivo e avviato la rogatoria nei confronti del museo serbo, il quale ha opposto un netto diniego. Quantunque per alcuni pezzi di eccezionale pregio - come la Testa di fauno di Michelangelo, prelevata dal castello di Poppi (Arezzo) dei conti Guidi, nella notte tra il 22 e il 23 agosto 1944 dai soldati tedeschi della 305ª divisione fanteria, o il dipinto di Canaletto Campagna veneta con paesaggio rurale e alcune figure, predato sempre dall'esercito hitleriano - in vetta nel registro dei desiderata nazionali, si brancoli nella nebbia, è sempre bene pensare che le vie del Signore siano infinite. Se lo Stato non avesse fatto valere le proprie ragioni anche di fronte all'improbabile, la Venere di Morgantina non sarebbe tornata in Sicilia, precisamente al Museo archeologico di Aidone (Enna). Il fatto che l'afflusso di visitatori giunti ad udire la poesia effusa dalla statua greca sia costantemente diminuito o che le opere, dopo tanto prodigarsi per il loro rimpatrio, finiscano per essere dimenticate causa disinteresse della collettività o risorse al lumicino per valorizzarle, è un'altra storia.
La poetessa russa Anna Achmatova. Nel riquadro il libro di Paolo Nori Non è colpa dello specchio se le facce sono storte (Getty Images)
Nel suo ultimo libro Paolo Nori, le cui lezioni su Dostoevskij furono oggetto di una grottesca polemica, esalta i grandi della letteratura: se hanno sconfitto la censura sovietica, figuriamoci i ridicoli epigoni di casa nostra.
Obbligazionario incerto a ottobre. La Fed taglia il costo del denaro ma congela il Quantitative Tightening. Offerta di debito e rendimenti reali elevati spingono gli operatori a privilegiare il medio e il breve termine.
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Invece di cultura e bellezza, la Rai di quegli anni ha promosso spettacoli ammiccanti, mediocrità e modelli ipersessualizzati.
Il principe saudita Mohammad bin Salman Al Sa'ud e il presidente americano Donald Trump (Getty)
Il progetto del corridoio fra India, Medio Oriente ed Europa e il patto difensivo con il Pakistan entrano nel dossier sulla normalizzazione con Israele, mentre Donald Trump valuta gli effetti su cooperazione militare e stabilità regionale.
Le trattative in corso tra Stati Uniti e Arabia Saudita sulla possibile normalizzazione dei rapporti con Israele si inseriscono in un quadro più ampio che comprende evoluzioni infrastrutturali, commerciali e di sicurezza nel Medio Oriente. Un elemento centrale è l’Imec, ossia il corridoio economico India-Medio Oriente-Europa, presentato nel 2023 come iniziativa multinazionale finalizzata a migliorare i collegamenti logistici tra Asia meridionale, Penisola Arabica ed Europa. Per Riyad, il progetto rientra nella strategia di trasformazione economica legata a Vision 2030 e punta a ridurre la dipendenza dalle rotte commerciali tradizionali del Golfo, potenziando collegamenti ferroviari, marittimi e digitali con nuove aree di scambio.
La piena operatività del corridoio presuppone relazioni diplomatiche regolari tra Arabia Saudita e Israele, dato che uno dei tratti principali dovrebbe passare attraverso porti e nodi logistici israeliani, con integrazione nelle reti di trasporto verso il Mediterraneo. Fonti statunitensi e saudite hanno più volte collegato la normalizzazione alle discussioni in corso con Washington sulla cooperazione militare e sulle garanzie di sicurezza richieste dal Regno, che punta a formalizzare un trattato difensivo bilaterale con gli Stati Uniti.
Nel 2024, tuttavia, Riyad ha firmato in parallelo un accordo di difesa reciproca con il Pakistan, consolidando una cooperazione storicamente basata su forniture militari, addestramento e supporto politico. Il patto prevede assistenza in caso di attacco esterno a una delle due parti. I governi dei due Paesi lo hanno descritto come evoluzione naturale di rapporti già consolidati. Nella pratica, però, l’intesa introduce un nuovo elemento in un contesto regionale dove Washington punta a costruire una struttura di sicurezza coordinata che includa Israele.
Il Pakistan resta un attore complesso sul piano politico e strategico. Negli ultimi decenni ha adottato una postura militare autonoma, caratterizzata da un uso esteso di deterrenza nucleare, operazioni coperte e gestione diretta di dossier di sicurezza nella regione. Inoltre, mantiene legami economici e tecnologici rilevanti con la Cina. Per gli Stati Uniti e Israele, questa variabile solleva interrogativi sulla condivisione di tecnologie avanzate con un Paese che, pur indirettamente, potrebbe avere punti di contatto con Islamabad attraverso il patto saudita.
A ciò si aggiunge il quadro interno pakistano, in cui la questione israelo-palestinese occupa un ruolo centrale nel dibattito politico e nell’opinione pubblica. Secondo analisti regionali, un eventuale accordo saudita-israeliano potrebbe generare pressioni su Islamabad affinché chieda rassicurazioni al partner saudita o adotti posizioni più assertive nei forum internazionali. In questo scenario, l’esistenza del patto di difesa apre la possibilità che il suo richiamo possa essere utilizzato sul piano diplomatico o mediatico in momenti di tensione.
La clausola di assistenza reciproca solleva inoltre un punto tecnico discusso tra osservatori e funzionari occidentali: l’eventualità che un’azione ostile verso Israele proveniente da gruppi attivi in Pakistan o da reticolati non statali possa essere interpretata come causa di attivazione della clausola, coinvolgendo formalmente l’Arabia Saudita in una crisi alla quale potrebbe non avere interesse a partecipare. Analoga preoccupazione riguarda la possibilità che operazioni segrete o azioni militari mirate possano essere considerate da Islamabad come aggressioni esterne. Da parte saudita, funzionari vicini al dossier hanno segnalato la volontà di evitare automatismi che possano compromettere i negoziati con Washington.
Sulle relazioni saudita-statunitensi, la gestione dell’intesa con il Pakistan rappresenta quindi un fattore da chiarire nei colloqui in corso. Washington ha indicato come priorità la creazione di un quadro di cooperazione militare prevedibile, in linea con i suoi interessi regionali e con le esigenze di tutela di Israele. Dirigenti israeliani, da parte loro, hanno riportato riserve soprattutto in relazione alle prospettive di trasferimenti tecnologici avanzati, tra cui sistemi di difesa aerea e centrali per la sorveglianza delle rotte commerciali del Mediterraneo.
Riyadh considera la normalizzazione con Israele parte di un pacchetto più ampio, che comprende garanzie di sicurezza da parte statunitense e un ruolo definito nel nuovo assetto economico regionale. Il governo saudita mantiene l’obiettivo di presentare il riconoscimento di Israele come passo inserito in un quadro di stabilizzazione complessiva del Medio Oriente, con benefici economici e infrastrutturali per più Paesi coinvolti. Tuttavia, la gestione del rapporto con il Pakistan richiede una definizione più precisa delle implicazioni operative del patto di difesa, alla luce del nuovo equilibrio a cui Stati Uniti e Arabia Saudita stanno lavorando.
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