2024-11-05
Quincy Jones, da Jacko fino alla Luna. Addio al re Mida della discografia
Morto a 91 anni l’artista da record che produsse «Thriller». Lavorò con Miles Davis e Frank Sinatra.Michael Jackson? «Ha rubato tante canzoni». I Beatles? «I peggiori musicisti al mondo». Il rap? «La stessa frase ripetuta più volte». Se non sei un peso massimo della musica certi colpi (alti o bassi, ognuno si faccia la sua idea) non te li puoi permettere. E Quincy Jones, morto domenica sera nella sua villa di Bel Air, a 91 anni, era molto più di questo. Trombettista jazz, polistrumentista, compositore, arrangiatore e produttore, Jones è stato il re Mida del suono, capace di trasformare in oro e platino i dischi - migliaia - su cui metteva le mani (28 i Grammy vinti, 80 le nomination). A cominciare dal più venduto di tutti i tempi, «Thriller» (1982), firmato proprio da quel Jacko sul quale si accaniva nelle interviste («Billie Jean non era tutta farina del suo sacco»). Ma Jackson era in ottima compagnia, perché «Q» (bastava una lettera per evocarlo) non risparmiava nemmeno il rock («La versione bianca del rhythm and blues») e Jimi Hendrix («Aveva paura di suonare con Herbie Hancock e Toots Thielemans perché erano dei mostri spaventosi»). Chi ama i fuochi d’artificio può rileggersi la sua intervista a Volture del 2018. Nato a Chicago nel 1933, Quincy Jones si aggrappò al pianoforte e poi alla tromba, regalatagli dal padre, per non soccombere davanti alla demenza precoce della madre, alla povertà e ai gangster. Dopo il trasferimento a Seattle divenne compagno d’avventure di un ragazzo cieco… un certo Ray Charles. Quei primi passi furono l’inizio di una lunga scalata che aveva come meta l’Olimpo del jazz (Lionel Hampton, Dizzy Gillespie, Sarah Vaughan, Miles Davis, Clifford Brown, Ella Fitzgerald, Tony Bennett sono alcuni nomi dall’enciclopedico elenco delle sue collaborazioni). L’approdo? In un’altra dimensione, perché l’artista durante il cammino aveva cambiato pelle e si era trasformato in una stella della discografia mondiale. Per una volta i paragoni astronomici sono giustificati se si pensa che il suo arrangiamento di Fly me to the moon, per la voce di Frank Sinatra e la big band di Count Basie, è stato il primo brano musicale partorito da mente umana a risuonare sulla Luna grazie alla missione Apollo 11. Sempre a proposito di imprese, non si può non citare We are the world: una canzone, un super gruppo di 45 star, ma anche una campagna da 100 milioni di dollari raccolti contro la carestia in Etiopia.Umbria Jazz, che ha avuto il merito di celebrarlo in vita quando spense 85 candeline, ricorda «Q» come «uno degli intellettuali afroamericani più rispettati e influenti di sempre, capace di ampliare i suoi orizzonti musicali senza pregiudizi». «Ha incarnato la quintessenza del musicista statunitense», spiega alla Verità il musicologo Stefano Zenni, autore di una fondamentale Storia del jazz, in fase di aggiornamento. «Improvvisatore jazz, arrangiatore energico e raffinato, originale compositore di colonne sonore intrise di black music, geniale produttore che ha innovato dal profondo la a musica. Questa trasversalità ha toccato tutti i generi». «Unì da solo jazz, soul e funk al pop e trascese le barriere di razza e stile musicale per creare una musica americana veramente integrata, con una forte musica nera alla radice», aggiunge il critico Ashley Kahn, firma di Downbeat. Ora il pop, e non solo, può riflettere su una delle più importanti lezioni di Jones. «Non ho mai fatto musica per soldi», diceva, e sapeva di cosa parlava, «quando questo accade Dio esce dalla stanza». Difficile creare capolavori se contano solo i quattrini. «Oggi si ignora il passato. Domina la pigrizia e l’avidità, ma nemmeno il più grande cantante al mondo può salvare una brutta canzone».
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