2021-12-07
«Monoclonali subito, zero burocrazia. Così tengo liberi i letti dell’ospedale»
Il direttore del reparto malattie infettive dell’ospedale di Belluno, Renzo Scaggiante (iStock)
Renzo Scaggiante, primario del reparto malattie infettive di Belluno: «Passando dal portale dei medici si perdono giorni molto preziosi. Per cui chiamo io tutti i pazienti positivi al tampone. Entro 24 ore gli anticorpi sono efficaci al 100%».Il dottor Renzo Scaggiante è il direttore del reparto malattie infettive dell’ospedale di Belluno e coordina il servizio infettivologico della provincia. Sessantuno anni, laureato in medicina a Padova con specializzazioni tra il Piemonte e il Veneto. È lui l’uomo del momento, quello che forse passa sottotraccia ai più, in un periodo in cui i virologi la fanno da padroni nei tanti talk show televisivi, ma questo primario con oltre 35 anni di esperienza può vantare nel suo reparto una riduzione drastica di malati di Covid-19, grazie a una sua semplice ma grande intuizione.Dottor Scaggiante, quanti posti avete per i malati di coronavirus a Belluno?«Non è un ospedale grande anche se il mio dipartimento di malattie infettive supervisiona anche le sezioni dei nosocomi di Cortina, Feltre, Pieve di Cadore, Auronzo e di Agordo. L’hub centrale è qui a Belluno, dove c’è anche il reparto, con 15 posti per malati Covid».Quanti pazienti avete in terapia intensiva?«Ora due, ma fino a qualche settimana fa nessuno».Fortunati…«A dire il vero forse non è solo fortuna» (Ride…). «Nella primavera scorsa l’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco, ha dato la possibilità di utilizzare la terapia con gli anticorpi monoclonali, dando alcune indicazioni nello specifico: pazienti sopra i 65 anni, diabetici, ipertesi, cardiopatici, eccetera. Persone insomma che potevano avere un rischio clinico di peggioramento in base alla propria situazione. La Regione Veneto ha fatto subito un portale dove i medici di base dovevano mandare le richieste online per sottoporre queste persone, positive al Covid, alla terapia».E il portale funziona?«Il portale sì, ma di richieste ne arrivano pochissime, perché i medici di base prima devono ordinare il tampone al loro assistito, poi dopo qualche giorno lo vanno a visitare. Infine se lo ritengono adeguato al trattamento, lo iscrivono al portale. Insomma in media passavano quatto, cinque giorni. Ma l’indicazione sull’efficacia degli anticorpi monoclonali è chiara: per funzionare al massimo devono essere somministrati entro i primi due giorni».Insomma c’è sempre qualche intoppo all’italiana…«Non mi sono scoraggiato, mi è venuta un’idea. Sono andato dal mio direttore sanitario e gli ho detto: invece di aspettare che sia il medico di famiglia a inviarci la richiesta, perché non ci facciamo mandare direttamente qui, tutti i giorni dai nostri laboratori, i tamponi che trovano positivi. Lui ha accettato. Ho chiesto così di avere anche il numero di telefono del paziente e l’età. Facendo così abbiamo accorciato di molto la catena. Oggi fanno il tampone, la sera abbiamo la risposta e nel giro di poche ore, se vedo che può essere una persona a rischio, la contatto subito». Il primario che chiama personalmente a casa i pazienti? Come quei vecchi medici di famiglia di una volta? «Certo, purtroppo non è che possiamo avere dei medici in più. Così ogni giorno telefono in media a 40 persone, a volte anche molte di più, dipende dai tamponi. Chiedo loro se hanno qualche malattia, se sono ipertese… ma soprattutto se sono vaccinate oppure no. Il vaccinato infatti ha già una quantità di anticorpi per la quale anche se una persona risulta positiva non ha generalmente una malattia polmonare in atto. In questo modo intercetto la stragrande maggioranza di persone che sono veramente a rischio somministrandogli subito gli anticorpi monoclonali. L’efficacia, ho notato, è del 100 per cento se fatti nelle 24 ore, dalla rilevazione della positività del paziente».Cioè, guariscono in quanto tempo? «Il giorno dopo queste persone stanno meglio. Questo non vuol dire che si negativizzano subito ma guariscono dalla sintomatologia o la riducono di molto. Inoltre la carica virale si abbassa e diventano anche molto meno contagiose. Così facendo non vanno incontro alle complicanze polmonari che sono quelle che fanno sì che la persona venga ricoverata. Vi ricordate l’ex presidente Usa, Donald Trump? Lui era positivo e dopo la somministrazione dei monoclonali qualche ora dopo era già pimpante».Così facendo il vostro ospedale sta funzionando come prima della pandemia?«Sì, ricordo che i posti letto non sono infiniti ma soprattutto il mio obiettivo e quello del direttore sanitario è quello di non bloccare l’attività ospedaliera di tutti i reparti. Ho solo cercato di efficientare l’utilizzo di questa strategia terapeutica che dopo il vaccino è la cosa migliore che possiamo avere».Ma una persona guarita con i monoclonali si potrà riammalare? «Dopo tre o quattro settimane questi anticorpi vengono consumati dal nostro organismo e quindi dovrà assolutamente fare il vaccino. Altrimenti potrebbero riammalarsi. La prima indicazione è quella di vaccinarsi entro tre, sei mesi». Il governatore del Veneto, Luca Zaia, all’inizio della pandemia parlava di sacche di plasma dei guariti… «Esattamente, questa è l’evoluzione di quello che di per sé era il siero delle persone iperimmuni. Solo infatti il 5% della gente guarita ha nel proprio plasma una buona quantità di anticorpi, adeguata durante le trasfusioni a proteggere veramente dalla malattia un’altra persona. Inoltre, i derivati del sangue devono essere super controllati, perché ci possono essere reazioni allergiche. Gli anticorpi monoclonali, detti anche sintetici, invece sono più efficaci perché sappiamo la quantità e la qualità che iniettiamo». Dottore, mi pare di capire che questa terapia viene fatta a persone sopra i 65 anni e ai non vaccinati?«Il non vaccinato è esattamente nella situazione dell’anno scorso. Può arrivare ad avere la broncopolmonite e poi il ricovero. Io nel mio ospedale cerco di evitare i ricoveri. Ora che non c’è più l’emergenza dei mesi passati chiamo anche persone più giovani, cinquantenni o quarantenni. A volte, se durante la telefonata percepisco che la persona è a rischio, la invito a venire anche dopo qualche ora».In terapia intensiva anche se avete pochissimi casi, ci sono però due persone …«Purtroppo c’è qualcuno che non si presenta all’appuntamento che gli fisso per i monoclonali. La settimana scorsa ho chiamato una coppia di sessantenni. Il marito ha fatto gli anticorpi e ora è a casa e sta bene. La moglie si è rifiutata ed è qui intubata in terapia intensiva. Poi ci sono molte persone che non si fanno i tamponi nemmeno quando hanno la sintomatologia, se ne stanno a casa e arrivano in pronto soccorso quando respirano già male. È questa la percentuale che ci sfugge». Come mai altri ospedali non chiamano direttamente i pazienti se si è visto che i monoclonali hanno efficacia massima se fatti subito? «Molti miei colleghi di altri ospedali mi dicono: bella questa idea, dovremmo applicarla pure noi. Ma capisco che non è semplice da realizzare in grandi nosocomi. Bisognerebbe avere molto più personale. Io ho deciso di adottare questa strategia per ridurre il più possibile il numero di persone che arrivavano a ricoverarsi e ora posso dire che è stata la scelta vincente».Ma in tutti gli ospedali si viene curati con i monoclonali? «Sono a disposizione di tutte le unità di malattie infettive d’Italia. È l’Aifa a distribuirli e il loro costo non grava né sull’ospedale né sulla Regione. In realtà il Veneto è il territorio che forse ne usa di più. Tutto dipende dallo stimolo che si ha a livello regionale. Le scorse settimane avevamo terminato le scorte che Aifa ci aveva destinato. La Regione Veneto così ha chiesto ad Aifa, che è riuscita a spedirci alte quantità da ospedali italiani dove erano ferme in giacenza senza essere utilizzate. Così le abbiamo prese noi».
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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