
Torna sempre il dottor Momcilo Jankovic al day hospital del reparto di ematologia pediatrica del San Gerardo di Monza, dove ha lavorato dal 1982 al 2016. E continua a dispensare ai piccoli pazienti, colpiti da leucemia, subdola patologia del sangue con origine nel midollo, quel suo inconfondibile sorriso, sintesi di un'espressione immateriale dell'anima, e manifestazione di un'esortazione e di una speranza che intendono fronteggiare i nessi causali della riproduzione cellulare, l'enigma evolutivo dei legami biochimici dell'organismo non solo con gli strumenti fisico-chimici della medicina, ma anche con l'afflato invisibile della dolcezza, che stimola reazione e coraggio.
Con questo sorriso Jankovic ha cercato di spiegare a Iacopo, un bimbo di 7 anni colpito da leucemia linfoblastica acuta, e ai suoi fratellini, Cosimo, di 5 anni, e Lorenzo, di 10, cosa stava accadendo nel suo corpo, i cui sintomi hanno dimostrato un'alterazione nell'equilibro tra piastrine, globuli rossi e globuli bianchi, con la metafora di un giardino dove i fiori e le piante buone sono attaccate da quelle cattive. «Ecco, lo stesso è successo nel tuo midollo. Spontaneamente, sono cresciute delle celluline fannullone, che non vogliono lavorare e si chiamano blasti, in grado però di crescere e danneggiare quelle buone. E noi dobbiamo eliminare quelle cellule cattive con le medicine» così come il giardiniere strappa la gramigna.
Alla fine degli anni Settanta, al bambino non si diceva nulla della malattia e si partiva subito con la chemio, con modi di gestione variabili in base alla sensibilità del singolo medico. Momcilo, nome profetico che significa «persona gaia», sostiene che «la relazione umana è terapia, tanto quanto la chemio». Alle due domande più drammatiche e urgenti dei genitori del bimbo malato, «Perché?» e «Guarirà?», non è certo facile rispondere e far comprendere che le origini della leucemia possono individuarsi in alterazioni genetiche o successive del Dna, in unioni anomale tra parti di cromosomi diversi, oppure in bizzarrie di elettroni e quark. Certamente può però rassicurare il sapere che la percentuale di guarigione oggi supera l'80 per cento.
Grazie a questo medico, Jacopo ha incontrato a Cortona, «da amico ad amico», il suo mito Jovanotti, autore di quella ninna-nanna compagna dei giorni in ospedale («è per te che il sole brucia a luglio / è per te tutta questa città / è per te ogni cosa che c'è/ ninna naaa ninna eee»), tornando rinfrancato, con i globuli bianchi raddoppiati. E un sorriso c'è stato anche per Claudietto, 5 anni, che sognava di guidare un treno e per un giorno è stato un felice macchinista con il berretto delle ferrovie sulla linea Monza-Lecco. E per Claudio, un adolescente sfegatato di Ligabue e con una recidiva di leucemia, che ha spalancato gli occhi quando ha visto l'autore di Certe notti entrare nella sua stanza, e per gli altri 4.000 che il medico ha curato fino alla pensione. Alcuni ce l'hanno fatta. Altri no. Ma Jankovic, nato a Milano da padre serbo, sposato e con un figlio adottato, come l'infermiere Nicholage Cage che nel film di Martin Scorsese Al di là della vita (1999) dice: «Salvare la vita delle persone è come essere innamorati, la miglior droga del mondo», è sospeso, dopo i suoi 40 anni di professione, «in un luogo oltre la vita e prima della morte». Lo scrive nel suo intenso libro, redatto con Salvatore Vitellino, Ne Vale sempre la pena (Baldini&Castoldi).
Dottor Jankovic, lei scrive: «Nel buio del nostro corpo si decide la luce della nostra vita, in quel buio vivono le cellule, si origina la vita e si prepara la sua fine. Ognuno di noi lo può sperimentare chiudendo gli occhi sotto la luce diurna, non esiste un vero buio, ma sempre un nero in cui si agita qualcosa, un lucore cieco. La vita è semplice, come la luce, ma noi non possiamo accettarlo». Tra questa cognizione di semplicità di una luce che ci fa vivere e sperare e la complessità delle leggi che regolano la vita delle cellule di cui siamo fatti, che idea si è fatto del significato dell'esistere e del nostro destino dopo la morte?
«Sono cattolico e credo esista davvero qualcosa dopo la morte. Inoltre i bambini che non ce la fanno a guarire e ci lasciano, sono capaci di spingere noi adulti a compiere opere grandiose. Penso a tutte le associazioni che nascono in nome di un figlio morto. Dunque, anche in questo senso, l'esistere prosegue dopo la morte. È il miracolo dei bambini».
Nonostante i progressi della ricerca, non tutti i pazienti colpiti da leucemia guariscono. Lei scrive: «In psicologia si definisce resilienza la capacità di resistere e adattarsi al dolore, e la si intende rivolta ai pazienti che devono affrontare la paura della morte. Ma in realtà i primi resilienti siamo noi medici e infermieri. Chi ha il privilegio di lavorare in un reparto di oncologia pediatrica vive immerso in questa energia magmatica che ridà vita alla vita in ogni angolo». Dove un medico o un infermiere trovano linfa per continuare nella loro missione di fronte a una risposta negativa delle terapie o un rigetto dopo un trapianto di midollo?
«Ogni essere umano possiede un'energia interna, una forza latente, che si manifestano in presenza di difficoltà. Questa energia e questa forza devono avere sempre un obiettivo verso cui indirizzarsi. In medicina, anche quando un malato è destinato a morire, l'obiettivo è offrire la miglior qualità di vita possibile per il tempo che gli resta. Ѐ Questo che ci dà la spinta per continuare. È questo l'obiettivo, anche se limitato nel tempo».
Lei raccomanda: «Il medico deve restare sempre e comunque una guida. Per quanta empatia e comprensione possa sviluppare con il paziente, non deve farsi bruciare emotivamente». Come fare per mantenere un equilibrio emotivo in questa complessità che mette a dura prova la lucidità e persino la razionalità?
«Agendo con professionalità, il che significa impegnarsi ad agire con convinzione e competenza, ma anche saper proteggersi e ad avere il coraggio di dire no di fronte a situazioni eccessivamente coinvolgenti. Non si tratta di cattiveria o disinteresse, ma di capacità di autocontrollo. La razionalità deve talvolta controbilanciare l'eccessiva emotività».
La chiamano Dottor sorriso, come nel sottotitolo del libro. Il buonumore, spiega, aiuta a produrre le beta endorfine, che alleviano il dolore, riducono il cortisolo, l'ormone dello stress, liberano le citochine, con benefici per il sistema immunitario. Qual è il senso di un sorriso, cos'è un sorriso?
«Il sorriso è l'espressione più bella e naturale di un bambino. Il sorriso offre rilassatezza e gioia, entusiasmo e carica, ma deve essere autentico, non stereotipato. Il sorriso è il linguaggio non verbale più intenso e completo. Il senso di un sorriso è un sussurro: “Dai che ce la fai"».
Si ha talvolta la sensazione che un medico sia dotato dello straordinario potere di penetrare i reconditi interstizi dove si costruisce l'equilibro tra salute e malattia. Ma non è così. O almeno, lo è solo in parte, dato che molte patologie non possono essere neutralizzate. Lei ha vissuto l'esperienza di due tumori, uno a 30 anni all'occhio e un altro, benigno, alla prostata. Nel suo libro ricorda Albert Espinosa, che ha scritto, in Braccialetti rossi, «il cancro ti toglie la paura di morire, ti aiuta a capire te stesso, a tirar fuori il meglio di te». Com'è cambiata la sua vita, anche di medico, dopo aver attraversato e superato queste prove?
«Dopo l'esperienza del tumore è cambiata non solo la mia vita personale, ma anche quella di medico. La prima cosa che ho compreso è l'importanza di come si comunica con il paziente e i genitori. Ho capito anche che non bisogna lasciare il bambino e la famiglia da soli nel tunnel della malattia. Io, in questo percorso, mi sono sentito solo e ho sofferto. Non ho mai permesso che ciò accadesse ai miei piccoli pazienti».
«La parola può indirizzare verso un nuovo significato di vita, la parola sostiene, cura più delle medicine». La parola come espressione di cura e d'amore, le logiche imperscrutabili del caso, Dio. Se si considera che siamo affidati al destino o, per chi crede, a un disegno, e che la malattia e la morte sono connaturate al vivere, quali sono le nostre certezze e le nostre speranze?
«La medicina è fatta di certezze, deve basarsi su evidenze ben documentate e mai negare la speranza. Il paziente non deve essere spaventato, ma responsabilizzato, anche se si tratta di un bambino. In questo modo il percorso di cura può essere condiviso con successo. Anche nei momenti più critici io non tolgo mai la speranza, la quale non va tuttavia confusa con l'illusione».
Com'è nata la sua decisione di diventare medico e di specializzarsi nella cura di bambini e adolescenti colpiti da leucemia?
«Volevo prendermi cura dell'essere umano nella sua totalità, la medicina interna per eccellenza. Iniziai l'internato al quinto anno di laurea in pediatria e mi appassionai alle malattie del sangue, pur avendone paura. Mi catturarono la dolcezza, l'arguzia, e le capacità dei bambini, e da allora - era il 1976 - non li ho più abbandonati, nel bene - la guarigione - e nel male - la morte».
Il ricordo più bello della sua infanzia?
«Il mio cavallo Kebir, con cui ho condiviso cavalcate meravigliose, partecipando anche a concorsi ippici di prestigio. Un compagno di vita».






