2022-05-17
Il mix governi, influencer e sanità è un problema per la democrazia
In pandemia si sono moltiplicati i soggetti pubblici che hanno investito su nuove forme di pubblicità non dichiarata sul web per spingere alla vaccinazione. Un metodo che non può non suscitare domande.Può sollevare qualche legittima preoccupazione il fatto che soggetti stranieri usino la sfera pubblica digitale per manipolare una conversazione così delicata come quella sul vaccino e sulle politiche sanitarie contro la pandemia. Però meritano uno scrutinio altrettanto attento anche le pratiche usate da governi, enti non profit e influencer per contrastare quel tipo di disinformazione. In molti casi, infatti, alla diffusione a pagamento di contenuti alterati non si è risposto con una informazione indipendente e trasparente, ma con azioni di manipolazione del dibattito di segno contrario. Ci ha provato per primo Donald Trump, nei mesi del 2020 durante i quali ha dovuto gestire il Covid negli Stati Uniti in piena campagna per la sua rielezione, poi sfumata. A ridosso delle elezioni, la Casa Bianca aveva assoldato l’agenzia di comunicazione Atlas Research per un programma da 15 milioni di dollari che doveva schierare alcune celebrità per parlare di Covid. Un piano che faceva parte di un intervento da 300 milioni di dollari complessivi destinato a sostenere il messaggio «sconfiggere la disperazione».Un invito all’ottimismo nel pieno di una catastrofe che poteva sembrare più una spesa da campagna elettorale che da sanità pubblica, tanto più che in quella fase Trump negava la serietà della malattia e sosteneva cure miracolistiche prive di base scientifica. Alla campagna, poi, erano ammesse soltanto celebrità che non si fossero schierate pubblicamente contro Trump o avessero posizioni esplicite su temi invisi all’elettorato trumpiano, per esempio su armi e diritti civili. I parlamentari democratici hanno interpretato il contratto con Atlas come propaganda elettorale mascherata e, una volta che questo è diventato di pubblico dominio, hanno preteso e ottenuto che Trump lo cancellasse. Ma non è stata certo la fine dei tentativi di manipolare la sfera social durante la pandemia. Una volta arrivato alla Casa Bianca, Joe Biden ha cambiato approccio e ha puntato sugli influencer, invece che sulle celebrità tradizionali, per una grande campagna a favore della vaccinazione destinata soprattutto agli americani più giovani. Tramite due società di influencer marketing - Village Marketing e Made to Save - la Casa Bianca ha coinvolto influencer attivi su Instagram e soprattutto su TikTok per diffondere messaggi a sostegno del vaccino. Uno dei format di maggiore successo sono state le interviste di influencer, di solito dedite solo a cosmetici o moda, con Anthony Fauci, il medico a capo della strategia sanitaria antivirus degli Stati Uniti. Fauci ha discusso per esempio con Ellie Zeiler e Tinx, due influencer con milioni di follower su TikTok. Il New York Times presenta l’iniziativa senza sollevare alcuna critica o dubbio, anzi ricorda che le autorità sanitarie hanno sempre usato celebrità per raggiungere gli scettici, fin da quando Elvis Presley promuoveva il vaccino antipolio dal palco dell’Ed Sullivan Show nel 1956. «Oggi, però, i giovani tendono a fidarsi di più dei loro content creator preferiti invece che delle celebrità tradizionali, secondo uno studio del 2018 dell’agenzia di marketing MuseFind», scrive il New York Times. Il fatto che un’agenzia che promuove l’influencer marketing come MuseFind non sia la fonte piú indipendente in materia passa in secondo piano, così come tutte le domande che il programma della Casa Bianca potrebbe sollevare.Non è chiaro se gli influencer venissero pagati o se l’unico soggetto remunerato per la campagna fossero le agenzie intermediarie che il governo federale ha coinvolto per attivare gli influencer. Comunque, anche se per un nobile fine, sempre di propaganda politica via social si tratta, cioè di una distorsione di quello che sarebbe il dibattito spontaneo online per perseguire una finalità politica. Poco importa che l’obiettivo - diffondere la vaccinazione - sia condiviso e nobile, dovrebbe comunque far suonare qualche campanello d’allarme il fatto che chi è al potere sia così incline a intervenire in questo modo e che i protagonisti della sfera social siano sempre così pronti a mettere la propria credibilità al servizio di qualunque committente.La campagna vaccinale a livello dei singoli Stati si è spinta anche un po’ oltre. In Colorado, per esempio, il governo statale ha pagato 1.000 dollari al mese a micro-influencer che raccontassero su TikTok, Snapchat e Facebook le loro esperienze (rigorosamente positive) con il vaccino, contrastando la disinformazione. Ovviamente non c’è niente di spontaneo, ma sempre lo stesso schema: governi locali assoldano agenzie di marketing che trovano micro-influencer, cioè persone normali con un discreto numero di follower e un impatto nella loro comunità, non professionisti dei social, disposti a collaborare dietro compenso per diffondere il messaggio concordato.Ha cominciato il dipartimento della Salute dell’Oklahoma. Nel 2020 ha assoldato la società di marketing Xomad che a sua volta ha cercato influencer locali come Pandora Marie, 30.000 follower su Instagram che arrivano in particolare dalla comunità dei nativi americani. «Quando ho iniziato a condividere post sul Covid, la gente ha iniziato a farmi domande, che è sempre un buon segno», ha detto all’Associated Press. A Chicago la politica locale si è affidata a influencer diversi sulla base dello «zip code», l’equivalente del nostro codice di avviamento postale, per incidere sulle specifiche comunità e i vari gruppi etnici con influencer diversi, prima per perorare le misure di distanziamento sociale, in seguito per consigliare le vaccinazioni. A San Jose, in California, la ricchissima Knight Foundation che finanzia progetti in vari ambiti, incluso quello del giornalismo, ha stanziato 125.000 dollari con i quali la città ha potuto costruire un progetto con Xomad per arruolare micro-influencer nelle comunità piú disagiate - afroamericani, latinos, vietnamiti - per spingerle a diffondere messaggi in favore della campagna vaccinale. Xomad è un’agenzia specializzata nel mobilitare a scopi politici ogni tipo di sottogruppo, ma lavora anche nel settore privato con aziende come Apple, L’Oréal, Walmart. Vale la pena soffermarsi un secondo su questo punto, dimenticando l’oggetto della campagna, cioè la vaccinazione: governi - locali o nazionali poco importa - possono allearsi con aziende private per dare soldi a esponenti di comunità svantaggiate per usare la loro reputazione al fine di condizionare quella degli altri esponenti di quelle comunità.Senza l’intermediazione dei social, un simile comportamento sarebbe considerato disdicevole: immaginate un sindaco che assolda consulenti per distribuire in giro valigette di denaro a personalità stimate nel quartiere affinché queste facciano propaganda a sostegno di una certa politica osteggiata da molti. C’è poi un aspetto etico: se consideriamo il reddito pro capite medio, è assai più facile reclutare micro-influencer in comunità come quella degli afroamericani o dei latinos che nei quartieri bianchi e ricchi. Ma non è certo un bel segnale per la democrazia che in alcuni segmenti della società ci siano cittadini in vendita che si mettono a disposizione per fare propaganda mentre in altri quartieri o gruppi etnici di «influencer» a disposizione ce ne sono meno o a un prezzo piú alto. Dopo essere stati esclusi per anni dal diritto di voto con leggi e provvedimenti amministrativi penalizzanti, i cittadini americani appartenenti a minoranze razziali o religiose ora si trovano a essere anche il bersaglio primario di queste nuove forme di manipolazione che, in ultima analisi, vogliono alterare le opinioni e i comportamenti degli elettori sulla base di quello che serve a chi ha il controllo del budget pubblico usato per arruolare le società di marketing.C’è poi un altro aspetto da considerare: [...] l’ingresso delle tecniche del marketing più avanzato, in questo caso basate su influencer, nella sfera della salute è sempre da guardare con una certa diffidenza, per via della natura del settore. In sanità, infatti, c’è una profonda asimmetria informativa e un problema di incentivi: i pazienti ne sanno sempre molto meno, ma di solito sono disposti a pagare qualunque cifra per stare meglio o per ridurre un rischio percepito. Inoltre, c’è spesso un problema di terzo pagante, per dirla in gergo economico: la domanda di cura arriva dai pazienti e l’offerta dalle aziende farmaceutiche, ma il costo è in molti casi a carico di un soggetto diverso, in Europa spesso i servizi sanitari nazionali pubblici finanziati dalle tasse, in America le assicurazioni che hanno interesse a incassare il premio annuale e a rimborsare meno prestazioni possibili. [...] Si tratta in pratica di «native advertising», cioè pubblicità non dichiarata presentata come contenuto originale, perché «le persone sono più inclini a dedicare tempo a contenuti nativi rispetto a quelli che sono esplicitamente pubblicitari». Il vero vantaggio, però, è che se si evita di menzionare un prodotto e un marchio specifico non si incorre negli obblighi di trasparenza che valgono per i contenuti sponsorizzati: in pratica l’influencer può essere pagato per fare pubblicità senza doverlo dichiarare. Il beneficio per i produttori e distributori del vaccino anti-influenzale c’è comunque, e la campagna è più efficace perché presentata come spontanea.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)