2025-02-22
Mezzo milione di morti dopo scoprono che la guerra è persa
Giornalisti e politici, da Alan Friedman a Pier Ferdinando Casini, per anni hanno sostenuto a gran voce la «resistenza ucraina» invocando l’invio di armi. Adesso, senza fare un plissé, dicono che è «ovvio» che Kiev non può vincere.«È vero, la guerra è persa e non c’è alternativa alla pace». Parole di Alan Friedman, giornalista Usa molto liberal e poco trumpiano, pronunciate l’altra sera in tv. «È ovvio, la guerra è persa», ha riconosciuto ieri mattina, sempre in tv, pure l’onorevole Pier Ferdinando Casini, senatore con un presente nel Partito democratico e un passato nel centrodestra. Cronista e parlamentare sono gli ultimi arrivati tra i molti che in queste ore si stanno ricredendo. Sono - è ovvio, per dirla con Casini - contrari all’iniziativa di Donald Trump, ma all’improvviso certificano ciò che fino a ieri pochi avevano il coraggio di dire: l’Ucraina, e di conseguenza l’Europa e pure gli Stati Uniti, vale a dire l’Occidente che si era schierato compatto a tutela dell’integrità territoriale di Kiev, sono sconfitti. Nonostante 360 miliardi di aiuti, nonostante centinaia di migliaia di vittime da parte ucraina (il Wall Street Journal mesi fa stimò 80.000 morti e 400.000 feriti), Kiev non è in grado di ricacciare indietro gli invasori, ma neppure di resistere. Ciò che adesso viene riconosciuto con naturalezza, come se si fosse sempre saputo, in realtà fino all’altro ieri era tabù. Anzi, la parola d’ordine era una sola: non si può darla vinta a Putin e dunque dobbiamo sostenere Kiev fino alla fine, cioè fino all’ultimo soldato (ucraino) e fino all’ultimo armamento. Non si poteva discutere liberamente delle prospettive della guerra e della necessità di arrivare presto a un cessate il fuoco, pena venire bollati con il marchio infame di essere al soldo di Mosca. Eppure, già un anno fa, William Burns, capo della Cia nominato da Biden, non da Trump, aveva ammesso, parlando al George W. Bush presidential center, l’esistenza di un rischio concreto che l’Ucraina perdesse sul campo di battaglia entro il 2024. La situazione è tale, spiegò, che potrebbe «mettere il presidente della Federazione russa Vladimir Putin nella posizione di dettare i termini di una soluzione politica». Secondo l’alto funzionario, gli ucraini, grazie a un pacchetto di aiuti e al sacrificio di molti uomini, avrebbero potuto resistere fino allo scorso dicembre. Ma poi? Già, trascorsi i mesi e superato l’inverno, cioè passati i mille giorni di guerra e senza avere nessun altra prospettiva se non quella di rallentare ma non fermare l’avanzata russa, che fare? È questa la domanda a cui nessuno, né Friedman né Casini, né tutti gli altri che oggi si scandalizzano nel sentire parlare di una pace che somiglia a una resa, è in grado di rispondere. Se non va bene il piano proposto da Trump, qual è la soluzione? Proseguire la guerra mandando altri ucraini al massacro ben sapendo che il loro sacrificio sarà inutile? Allestire in fretta un contingente di soldati occidentali da mandare al fronte? Se i sistemi antiaerei Stinger, quelli anticarro Javelin, i lanciarazzi Himras, i missili Hawk, le mine antiuomo Claymore, i carrarmati Abrams e Leopard, i caccia F16 e i Mirage non sono riusciti a respingere i russi, che altro resta da fare? Sì, è vero, probabilmente le perdite di Mosca sono superiori a quelle di Kiev e infatti si parla di 200.000 morti e di 400.000 feriti. E allora? Tutte queste vittime hanno forse indotto il macellaio Putin a fermarsi? Nella seconda guerra mondiale - rievocata di recente dalle parole di Mattarella - morirono 25 milioni di russi, ma l’Armata rossa non si arrese. Dunque, che facciamo? Serve una pace giusta, replicano quelli che oggi dicono che la guerra è persa anche se lo si sapeva da un anno o forse addirittura da due. Ma la pace non è mai giusta. Non è una tregua che rimette le cose a posto, riconoscendo torti e ragioni di un conflitto. Il cessate il fuoco semmai riconosce le forze in campo, le sconfitte degli uni e le vittorie di altri. E purtroppo in questo caso Putin dalla sua può vantare di aver conquistato il 20 per cento del territorio ucraino. Se non avessimo sostenuto Kiev, i russi avrebbero preso anche il resto? Probabile, ma adesso che facciamo? Continuiamo la guerra? E se i militari di Kiev non fossero più disposti a farsi ammazzare e disertassero, come è già successo con decine di miglia di ucraini, chi ci mandiamo al fronte? Ecco, è a questo che dovrebbero rispondere coloro che adesso riconoscono l’impossibilità di vincere la guerra, ma obiettano che non si può darla vinta a Putin. Così come dovrebbero rispondere ad alcune altre semplici domande. Che senso ha che i vertici dell’Unione lunedì, in coincidenza con l’inizio dell’invasione russa, vadano in Ucraina? Serve a qualcosa? A sbloccare il conflitto? A rafforzare le difese di Kiev? No, serve solo a mettersi l’anima in pace, per poi lasciare le cose come stanno. Qualcuno si indigna perché Trump ha «riabilitato» Putin, aprendo una trattativa, invitando la Russia al G7 e bloccando un documento dell’Onu contro Mosca. Ma se si vuole davvero fare la pace, come la si fa? Scrivendo un capo d’accusa o mettendo da parte le rivendicazioni per poter finalmente raggiungere un’intesa? Qualcuno pensa davvero che Putin accetterà di siglare la tregua se resteranno in vigore le sanzioni e lui continuerà a essere inseguito da un mandato di cattura? Insomma, dopo essersi svegliati ammettendo che la guerra è persa, giornalisti e politici dovrebbero aprire gli occhi anche sulle conseguenze della sconfitta.