2021-01-05
Metà Regioni contro l’esecutivo. «Le scuole non saranno riaperte»
Friuli e Veneto, a guida leghista, si sono opposte al piano di Roma, seguite a ruota anche dal dem Vincenzo De Luca. Dubbi pure per Piemonte e Liguria: «Non è sicuro». La minaccia di Francesco Boccia: «Allora chiuso anche lo sci».Il 27 gennaio scade il termine per la revisione della riforma dello sport chiesta dal Cio. Se il governo non si sveglia, il pericolo è andare alle Olimpiadi senza inno né bandiera.Lo speciale contiene due articoli. Mancano appena due giorni alla fatidica data. Il 7 gennaio anche le scuole superiori dovrebbero tornare in classe al 50%, dopo due mesi di didattica a distanza. Ma il condizionale comincia a trasformarsi, in mezza Italia, nel periodo ipotetico dell'irrealtà. I contagi non rallentano. La terza ondata sembra incombere. E il rischio dei trasporti è rimasto identico a quando venne profetizzato, nella la scorsa primavera. Il premier, Giuseppe Conte, insiste: «Dobbiamo riuscire a dare un segnale». Ma molti governatori, uniti da un moto bipartisan, si rivoltano. Il caos nel caos. Avvia le ostilità il presidente del Veneto, Luca Zaia: «Non ci sembra prudente lasciare aperti licei, tecnici e professionali. Quindi proroghiamo la didattica a distanza fino al 31 gennaio». Segue il collega leghista Massimiliano Fedriga, alla guida del confinante Friuli-Venezia Giulia: «La pandemia ora non è sotto controllo, io penso che non sia il momento di fare tentativi. Dobbiamo tutelare professori e studenti. Il governo non può lasciare spazio a posizioni ideologiche. Queste scelte possono farci fare una brutta fine». Anche Fedriga, dunque, firma un'ordinanza che posticipa a fine mese il rientro: «Basta balletti: se si apre, bisogna deve arrivare a fine anno. Molte altre regioni seguiranno l'esempio di Friuli e Veneto».Ed è questo, per il governo, l'aggravio. I riottosi non sono solamente trinariciuti di centrodestra, ma pure attigui di centrosinistra. Come Michele Emiliano, che medita il rinvio. O Vincenzo De Luca, che procede a tappe. Scuola dell'infanzia e primi due anni della primaria cominciano l'11 gennaio. Mentre gli alunni di medie e superiori dovranno aspettare almeno il 25 gennaio. L'ordinanza del ministro della Salute, Roberto Speranza, prevede invece il ritorno in classe del 50% degli studenti il 7 gennaio. Con i contagi sotto controllo, dal 18 gennaio si dovrebbe poi arrivare al 75%. E poi ingressi scaglionati, uscita fino alle 16, lezioni anche il sabato, orario ridotto e mezzi pubblici pieni a metà. Regole, per molti, già superate dagli eventi. Zaia e Fedriga così si sfilano. E il ministro per gli Affari regionali, Francesco Boccia, rintuzza: «Se si sposta l'apertura delle scuole a fine gennaio e si mantiene l'apertura dello sci il 18 gennaio, c'è qualcosa che non va…». Ma allora qualcosa non va neppure nelle più pianeggianti Marche, dove è stato deciso identico slittamento. O nella Liguria baciata dal mare. Il presidente, Giovanni Toti, spiega: «È inutile riprendere per due giorni e poi richiudere. Mi auguro che il governo si prenda la responsabilità, altrimenti anch'io farò un'ordinanza». Già, perché davanti a molti degli ammutinati lampeggia l'allarme del riconfinamento: zona arancione o addirittura rossa. Come in Liguria, appunto. O in Veneto, probabilmente. E in Calabria. Difatti, pure qui, Antonio Spirlì annuncia: «Se non ci sono pericoli le scuole andranno in presenza al 50%, altrimenti i nostri ragazzi possono studiare a distanza. Il libro dentro la bara non serve a nessuno». Meno macabro ma ugualmente attendista è Alberto Cirio, alla guida del Piemonte: «La situazione non è chiara. C'è una parte del governo che vorrebbe il rinvio e una parte che si impunta, con il pericolo però di richiudere l'11».Fiduciosi nella capacità di sintesi di Giuseppi, il 7 gennaio Valle d'Aosta, Toscana, Molise e Sicilia si preparano invece diligentemente alla ripartenza. Tutti in aula da giovedì. Ma i timori, vista anche l'inerzia dei giallorossi, restano ovunque. Per i presidi è un «rischio». Per i sindacati un «azzardo». Eppure, l'ultimo rapporto dell'Istituto superiore della sanità sembra rassicurante: «La scuola non è tra i primi tre contesti di trasmissione in Italia». Ma la pattuglia di chi non sembra più fidarsi di Palazzo Chigi ed emanazioni scientifiche statali continua a ingrossarsi. Il ministro dell'Istruzione, Lucia Azzolina, passa quindi alle velate minacce: «Le Regioni riflettano bene sulle conseguenze per studenti e famiglie». Ma in vista di un possibile rimpasto, la sua scrivania in viale Trastevere, che fu degli incolpevoli Benedetto Croce e Giovanni Gentile, traballa vistosamente. Come, del resto, quella di Paola De Micheli, assisa al vertice del dicastero dei Trasporti, dunque responsabile di riorganizzare il servizio scolastico di bus e treni. Se ne parla da quest'estate. Il solitamente ossequioso Cts è arrivato perfino a bacchettare invano l'esecutivo. De Micheli, dopo mesi ad arrovellarsi, ha trovato la soluzione: ci pensino i prefetti. Entrate, uscite, accessi scaglionati. Fate vobis. Solita solfa. Da quando è arrivata la pandemia, anche lo scaricabarile sulle regioni, soprattutto quelle meno docili, è stato ricorrente: dalle terapie intensive alla ripartizione cromatica. E adesso, che la lotta riscoppia pure sulla scuola, il pensiero torna sempre lì: all'insostenibile leggerezza dell'essere giallorossi.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/meta-regioni-contro-lesecutivo-le-scuole-non-saranno-riaperte-2649733391.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="litalia-rischia-di-sparire-dai-giochi" data-post-id="2649733391" data-published-at="1609790390" data-use-pagination="False"> L'Italia rischia di sparire dai Giochi Anche in tuta e maglietta è un disastro. Giuseppe Conte non dà l'idea di essere particolarmente sportivo, ma dovrà allungare il passo se non vorrà esporre l'Italia a una figuraccia planetaria in luglio, alle Olimpiadi di Tokyo. L'ultimatum del Cio (il Comitato olimpico internazionale) è sulla sua scrivania e su quella del ministro allo Sport, Vincenzo Spadafora: se entro il 27 gennaio il governo italiano non approva e firma il decreto di autonomia del Coni dalla politica sulla governance, il nostro Paese sarà sanzionato con l'anonimato. Gli atleti si presenteranno sotto la bandiera del Cio, le squadre qualificate non potranno disputare i tornei, il tricolore non sventolerà. E in caso di medaglia d'oro l'inno nazionale non risuonerà negli stadi. Si chiama sospensione per violazione della Carta olimpica. Rischiamo di essere trattati come paria (o come la Russia, già penalizzata per il doping di Stato) per colpa della sciatteria ministeriale e del disinteresse di Conte nel riaprire un dossier che potrebbe portare nuove grane politiche. Dall'estate del 2019 l'esecutivo deve completare la riforma dello sport approvata dal primo governo Conte con la costituzione della società pubblica «Sport e Salute», alla quale sono state attribuite alcune prerogative del Coni. Manca una revisione della governance, che per statuto dovrebbe essere neutrale rispetto ai governi in carica. Il motivo delle dilazioni è intuibile: con un uso disinvolto dello spoil system il Movimento 5 stelle ha colonizzato uffici e posizioni dominanti (uomini di Luigi Di Maio nei posti chiave), scenario che allo stato attuale è difficile smontare senza scontentare qualcuno. Mentre il confronto ministeriale è stato positivo nel definire il perimetro del professionismo femminile e nell'inquadramento professionale dei lavoratori del settore, non è stato ancora trovato un accordo su chi comanda. Tanto più che Cio, Coni e Sport e Salute sono su posizioni molto distanti. Con Vito Cozzoli (numero uno della nuova agenzia) e Giovanni Malagò agli antipodi. La pandemia e le fibrillazioni governative delle ultime settimane hanno completato l'opera e il mondo dello sport comincia a preoccuparsi per i destini ancora nebulosi dell'avventura olimpica. Conte spera che i giochi vengano rimandati un'altra volta ma è molto improbabile che il Giappone si lasci scappare l'occasione di organizzare la prima manifestazione mondiale della rinascita. Se dal punto di vista agonistico l'Italia è in una situazione positiva (210 atleti hanno staccato il pass in 24 discipline differenti), da quello politico regna il caos. Il premier sembra avere ben altri problemi rispetto a quello di infilarsi le scarpette chiodate e correre i 110 ostacoli. Così nei giorni scorsi il quotidiano Tuttosport si è fatto paladino di un'iniziativa meritoria: ogni giorno ricorda al premier con una campagna di stampa il rischio che stiamo correndo. È vero che l'ultimo esecutivo del Cio sarà a marzo, ma arrivare a fine gennaio senza una risposta potrebbe essere pericoloso, anche perché i vertici dello sport mondiale si riuniscono per giudicare il «caso Italia». Con Francia, Gran Bretagna e Svizzera, il nostro Paese è uno dei quattro che hanno sempre preso parte alle Olimpiadi dell'era moderna ed è sesto nel medagliere per numero di ori. Una penalizzazione politica sarebbe un danno d'immagine per lo sport italiano e per chi sta lasciando incancrenire il problema. Poiché i primi a twittare con orgoglio dopo i trionfi di Federica Pellegrini sono i politici, a loro va la patata bollente. Fischiettare l'inno quando fa comodo, questa volta non basta.