2023-03-18
La Meloni non teme di sfidare la Cgil: «La ricchezza la creano le aziende»
Giorgia Meloni (Imagoeconomica)
Il presidente al congresso del sindacato tiene il punto sui provvedimenti chiave del suo programma, a partire da abolizione del Reddito e tasse. Accolta da pochi contestatori, riesce anche a strappare un applauso.Giorgia Meloni avrebbe dovuto sentirsi a disagio. Questa era l’intenzione dei duri e puri della Cgil, i quali avevano apparecchiato per il presidente del Consiglio un’accoglienza a dir poco ostile. A Rimini, dove si sta svolgendo il congresso nazionale del sindacato rosso, tutto era pronto per contestare il premier. Un’esponente della Fiom già si era fatta fotografare con una cappa sulle spalle e la scritta «Meloni pensati sgradita», imitazione mal riuscita di Chiara Ferragni, che a Sanremo se n’era andata in giro con una stola di Dior con su scritto «Pensati libera». Poi, oltre allo scialle, i compagni avevano preparato un tappeto di pupazzi di peluche, nel tentativo di rappresentare in versione romagnola il disastro del naufragio di Cutro. Ma la protesta «composta e severa» annunciata dalla passionaria della Fiom Eliana Como è passata praticamente inosservata. Qualche delegato è uscito dalla sala per non ascoltare il discorso del capo del governo? Pazienza. A essere onesti, non se n’è accorto nessuno. Perfino Repubblica, che tante speranze aveva riposto in questo incontro ad alto rischio, alla fine è stata costretta ad ammettere che il congresso non ha riservato a Giorgia Meloni alcun fischio, ma semmai un «piccolo» applauso. Scriverlo dev’essere costato al cronista una fatica enorme, in parte compensata dalla misura circoscritta dai battimani. Tuttavia, applausometro a parte, il quotidiano radical chic ha dovuto riconoscere che in una sede dichiaratamente contro, il presidente del Consiglio non ha arretrato su nulla.Nonostante il clima ostile, con accuse di fascismo condite da critiche per le presunte responsabilità del governo a proposito della strage di migranti davanti alla spiaggia di Cutro, Meloni non si è sottratta all’invito del segretario Maurizio Landini, decidendo di parlare a una platea composta in massima parte da militanti di sinistra, in qualche caso anche della più estrema. Non succedeva da 27 anni, cioè da quando dalla stessa tribuna aveva preso la parola Romano Prodi. Dopo di lui, né Berlusconi né Renzi, Letta, Monti, Draghi o Conte avevano mai preso il toro rosso per le corna. Il giorno prima, sul palco di Rimini era passata Elly Schlein, la quale aveva lisciato il pelo ai compagni con interventi generici, ma identitari su salario minimo, riduzione dell’orario di lavoro, legge sulla rappresentanza e lotta alla precarietà, ossia con parole che sono musica per il sindacato. E infatti, i dirigenti della Cgil a quel discorso erano andati in brodo di giuggiole, fiutando aria di sinistra radicale, caricati a mille anche dalla partecipazione all’assemblea della ministra del Lavoro spagnola, la quale da brava comunista, dopo aver cantato l’Internazionale, si è congedata con un «Adelante companeros». Sì, il clima era quello delle migliori adunate rosse, per cui ci si poteva perfino aspettare che i più scalmanati fra i delegati facessero ogni cosa per contestare il presidente del Consiglio, magari arrivando fino al limite di non farla parlare. «Il mio sentore è che la presenza di Meloni susciti un malessere diffuso nella Cgil», si è lasciata sfuggire una delegata evidentemente nostalgica di picchetti e mobilitazioni generali. Ma evidentemente, il sentore della militante Fiom non ha funzionato, perché quando Meloni ha iniziato a parlare, sulla sala congressuale è calato il silenzio. Il presidente del Consiglio ha ironizzato sulla compagna Ferragni, nominata metalmeccanica ad honorem dalla pasionaria rossa del sindacato. E non è indietreggiata quando una ventina di delegati se n’è andata cantando Bella ciao. «È da quando avevo 16 anni che mi fischiano», si è lasciata scappare. Ma al di là dalle battute, ha tenuto il punto sul salario minimo, sul reddito di cittadinanza e sul Fisco. Gli stipendi in questo Paese sono fermi da 30 anni, ma le retribuzioni non possono aumentare se non aumenta il Pil. Non è lo Stato che genera ricchezza, ma le imprese, e se queste non crescono anche le buste paghe restano al palo. La povertà non si abolisce per decreto, come credevano i 5 stelle, ma con le assunzioni. Parole nette, che non hanno preso applausi, ma hanno tracciato una direzione di marcia. Ingessare l’economia con veti e divieti non la fa certo correre. Una volta, un anziano collega mi pose un problema, chiedendomi se non mi fossi mai interrogato attorno a un paradosso. L’Italia è il Paese che ha avuto il più forte Partito comunista d’Occidente, quello che ha potuto contare sul più agguerrito sindacato d’Europa, con conflittualità e ore di sciopero che non hanno paragoni con nessun altro. E tuttavia è il Paese che ha i salari più bassi. Evidentemente, non sono le rivendicazioni a generare aumenti di stipendio, ma la produttività. Se il fatturato sale, salgono anche le buste paga. Sono osservazioni banali? Forse sì, ma fa piacere sentir dire nel tempio della Cgil che le retribuzioni non aumentano da trent’anni, cioè nonostante vent’anni di governi di sinistra. Un’osservazione su cui la prima a dover riflettere dovrebbe essere Elly Schlein, la quale parla di salario, ma non si rende conto che ad averlo ridotto al minimo sono i compagni che la sostengono.
La riunione tra Papa Leone XIV e i membri del Consiglio Ordinario della Segreteria generale del Sinodo dei Vescovi dello scorso giugno (Ansa)
Auto dei Carabinieri fuori dalla villetta della famiglia Poggi di Garlasco (Ansa)