Alessandro, avete appena ricevuto una lettera dalla Casa Bianca, firmata Donald Trump. Ci racconta com’è andata?
«Entra in negozio un uomo. Non si presenta, ma ci chiede due cravatte da regalare a una persona “molto importante”».
Italiano?
«No, americano. Noi ci incuriosiamo e proviamo a fargli qualche domanda. Viene fuori che queste cravatte sarebbero finite al presidente Trump, con cui questa persona diceva di avere una “estrema vicinanza”».
Da Napoli a Washington.
«Mio padre ha voluto che fossero un omaggio. Qualche settimana dopo, ci è arrivata la lettera datata 17 novembre, con cui il presidente ci ringraziava. Anche per la nostra vicinanza negli anni».
Negli anni?
«È la terza lettera di Trump che riceviamo».
E le altre due?
«La prima volta fu negli anni Ottanta: c’era mio nonno e mio padre aveva una trentina d’anni. Offrì loro di aprire gratuitamente un negozio a New York, nella Trump Tower».
E i suoi cosa risposero?
«Fino a vent’anni fa, la nostra azienda era un negozio di 20 metri quadri. Mio nonno e mio padre si posero il problema: come gestiamo le sarte, il controllo qualità, la produzione, la vendita? Mio nonno non sapeva nemmeno parlare l’inglese. Per cui, lo ringraziarono e declinarono l’offerta».
Col senno di poi…
«Eh, vabbè. Ci sta».
E la seconda lettera?
«Verso la fine del secondo mandato presidenziale, fummo noi a mandare un presente a Trump. E lui ci ringraziò».
Prima o poi, queste cravatte gliele vedremo addosso. Ce le descrive, così magari le riconosciamo?
«Mi è sembrato che le abbia già indossate. Una è sul violetto, l’altra è azzurra-bluette».
Si parla di Trump e allora le chiedo: i dazi vi spaventano?
«No. Abbiamo una decina di negozi tra L’Italia, Londra e Tokyo, ma la nostra distribuzione in America è minima».
Gli americani devono sviluppare ancora il buon gusto?
«Siamo stati soprattutto noi a non spingere. È solo da poco che ci stiamo strutturando come vera e propria azienda».
Trump non è l’unico presidente che avete servito.
«Li abbiamo serviti tutti da Kennedy in poi. Oltre ai reali inglesi, al re di Spagna…».
E ai politici italiani.
«I presidenti della Repubblica».
È vero che Silvio Berlusconi vi piazzava degli ordini monstre?
«Ci chiedeva forniture incredibili, che noi puntualmente non riuscivamo a soddisfare».
Di che cifre parliamo?
«Partiva da 9.000 cravatte, poi iniziavamo a contrattare. Mio padre provava con 2.000, sapendo che, per produrle, le sarte avrebbero dovuto lavorare pure di notte. Alla fine, si chiudeva a 4, 5, 6.000».
Erano regali, ovviamente.
«Un migliaio di regali: cofanetti da sei cravatte».
Dei Vip che ha conosciuto, quale le è rimasto più simpatico?
«Re Carlo. Mi sono fermato a parlarci, abbiamo discusso del drink che stavamo bevendo».
È uno alla mano?
«Super».
Lei ha portato Marinella sui social e anche l’e-commerce è una sua invenzione.
«Ma tutto questo è solo la punta dell’iceberg di un lavoro più ampio. Quando ho iniziato, l’azienda era una bottega. Non avevamo nemmeno i dati delle vendite, non esisteva un organigramma. Ho cominciato a metterci mano, avviando un processo di aziendalizzazione».
Ha dovuto studiarci su?
«Università a Napoli e due master. La preparazione serve, però non occorre studiare economia per sapere che, per ordinare il quantitativo giusto di tessuto, devi prima sapere quanto ne vendi».
Fa il modesto?
«Io sono la quarta generazione della bottega, ma la seconda dell’azienda. Conosce il detto?».
Quale detto?
«La prima generazione crea, la seconda consolida, la terza distrugge. Sto cercando di consolidare».
L’e-commerce ha funzionato?
«Più 25% di fatturato; e intanto è aumentato anche quello dei negozi. Quando sono entrato in azienda, fatturavamo circa 12 milioni; adesso, chiudiamo a 20».
Come se lo spiega?
«Tanta gente, prima, mi diceva: conosco la vostra azienda, ho nell’armadio un sacco di cravatte del nonno… Ecco: intanto, abbiamo smesso di essere solo quelli della “cravatta del nonno”. Già nel 1914, d’altronde, eravamo nati come importatori di vari prodotti inglesi. La cravatta s’impose durante la Seconda guerra mondiale, quando il rapporto con il Regno Unito si interruppe e noi iniziammo a lavorare quei tessuti. Adesso abbiamo diversificato. Non vendendo solo cravatte, abbiamo un’utenza anche più giovane. E non più soltanto maschile. Poi, abbiamo introdotto nuove gamme di materiali sostenibili: abbiamo creato una serie di accessori in Lyocell, estratto dalla buccia delle arance insieme alla corteccia degli alberi».
Le cravatte si vendono ancora?
«Se ne vendono di più. La cravatta sta tornando di moda. Nelle grandi sfilate, la indossano pure le modelle».
Come mai questa rinascita?
«Un tempo, la si indossava prevalentemente per obbligo. Io, giovane, assunto in una Big four, ero costretto a mettere giacca e cravatta. Ma siccome la portavo tutti i giorni, ne acquistavo tante a poco prezzo nella grande distribuzione».
E ora?
«Dopo il Covid, tanta gente ha smesso di andare regolarmente in ufficio. Portare la cravatta, quindi, non è una costrizione: chi la compra è felice di indossarla. Ne cerca una di qualità, indossata dai presidenti americani, prodotta da chi se ne occupa da oltre un secolo».
E Marinella è un’icona.
«Nel 2017 ci fu una mostra al MoMa di New York. Esponevano i 111 oggetti più rappresentativi del secolo. C’era lo skateboard; c’era la minigonna; c’erano i tacchi a spillo di Louboutin; c’era la maglietta Supreme; c’era lo Chanel numero 5; e c’era la cravatta di Marinella».
Sui social, spopolano gli influencer di eleganza maschile. È in atto una riscoperta del classico?
«Assolutamente sì. È un po’ come nell’alimentare: quando uscirono le farine raffinatissime, la gente voleva solo quelle; oggi cerchiamo l’integrale, i grani antichi… Stesso fenomeno avviene nell’abbigliamento. È il ritorno a prodotto che abbia una storia, a un artigiano che realizzi giacca, camicia, pantalone, cravatta, personalizzando lo stile, le misure. Inserendo le iniziali...».
Ha partecipato a un video satirico della pagina Instagram «Napoli centrale», che inscenava una tenzone tra napoletani del Vomero e napoletani di Posillipo. Il vostro brand è diventato più pop?
«L’obiettivo era di sdrammatizzare un po’ la nostra nomea aziendale. Molti pensano che Marinella sia solo classicità e immaginano me e mio padre come due persone col bicchiere di vino davanti al camino, col maggiordomo e l’alano».
Non è per niente snob?
«Sono un normalissimo ragazzo di 30 anni, nato e cresciuto a contatto con tutte le persone di Napoli, di tutte le estrazioni sociali. La gente spesso si stupisce che io sia alla mano. E ci rimango male, perché sono sempre stato uno del popolo. E a questa città devo tanto».
Aveva un’attività già avviata, quindi nel suo caso, forse, il percorso è stato più facile. Però pensa che per il Sud ci sia speranza?
«C’è speranza per il Sud in generale. E vedo che Napoli, in particolare, sta crescendo. Due scudetti, aprono grandi catene alberghiere a cinque stelle - a breve arriverà Rocco Forte. Girano film internazionali. Ci sono aziende che si trasferiscono qui e qui investono. Ci sarà l’America’s cup di vela nel 2027. La vera sfida è mantenere tutto ciò che di buono sta arrivando».
Si rivolga ai suoi coetanei: qualche consiglio di stile?
«Innanzitutto, non focalizzarsi troppo sulle regole. Ciò che ha allontanato i giovani dal classico è stata la paura di sbagliare qualcosa, nel momento in cui si indossavano abiti formali. Bisogna stare molto più sereni. Io stesso infrango l’etichetta».
In cosa?
«C’è una regola secondo cui il colletto della camicia dovrebbe aderire perfettamente al bavero della giacca. A me, invece, piace portare colletti un po’ più piccoli. E me ne frego».
Come Gianni Agnelli, che metteva l’orologio sopra al polsino.
«Lo spirito è quello. Secondo consiglio: suggerirei di evitare il fast fashion. A me è successo di ingolosirmi, ad esempio, di una scarpa un po’ più estrosa del solito, per la quale non mi andava di spendere tanti soldi e di prenderla in quei negozi. Risultato: dopo una decina di volte che la indossavo, si distruggeva. Idem per la camicia: mi va stretta, faccio un movimento e si strappa, oppure scolorisce dopo vari lavaggi».
La fibra naturale non è più salutare per l’ambiente?
«Certo. Si riducono gli sprechi. Dura di più. E quando la sarta mi confeziona una camicia, mi fornisce pure i ricambi per le parti, tipo i polsini, che potrebbero consumarsi».
Ultima dritta?
«Beh, spesso mi chiedono come abbinare i colori e le fantasie delle cravatte agli abiti. È chiaro che, se si indossano una camicia a righe e una giacca pied-de-poule, o a quadri, o principe di Galles, magari si eviterà una cravatta a pois. Giusto per non creare confusione. Però non c’è una regola fissa. La vera regola è sentirsi a proprio agio, sicuri di sé. Uscire di casa e pensare: oggi sono proprio un figo».