2023-03-13
Mauro Masi: «La Rai scelga: o il canone o il mercato»
L’ex direttore generale: «Bisogna distinguere ciò che è finanziato con soldi pubblici e ciò che è finanziato con gli spot, magari creando due rami d’azienda separati. Se tornerei a Viale Mazzini? Vado dove mi mandano».«Guardi che io, sinceramente, mai ho nascosto le mie idee politiche. Essere un uomo delle istituzioni però è tutt’altra cosa». Mauro Masi risponde così, se gli domandi come abbia fatto a lavorare con politici di destra e sinistra, in enti pubblici e aziende di Stato. Oggi è presidente di Consap - Concessionaria di servizi assicurativi pubblici - e pure della Banca del Fucino, storico istituto privato romano. Per 800 giorni è stato Un nemico alla Rai, come recita il titolo di uno dei libri che ha scritto: della tv pubblica è stato direttore generale tra il 2009 e il 2011, epoca berlusconiana.Da Bankitalia al ministero del Tesoro, lei ha ricoperto pure il ruolo di commissario straordinario della Siae. Ha una riga del curriculum di cui va più fiero di altre? Forse proprio quella che descrive il suo lavoro all’ombra del cavallo di viale Mazzini?«Se mi fa proprio scegliere, le dirò che i ricordi più belli sono quelli vissuti a Palazzo Chigi: fare per due volte il segretario generale della presidenza del Consiglio dei ministri mi ha dato enorme soddisfazione. Ma deve sapere che io per natura sono un entusiasta, guardo sempre al futuro. Per me l’incarico che mi darà più gioia è sempre quello che verrà».Nei giri di poltrone la danno spesso in pole position. Hanno parlato di lei pure per la Lega di Serie A…«Vero, sono stato avvicinato da alcuni presidenti della Serie A che cercavano un nome intorno a cui creare una proposta unitaria tra club divisi. Non si è mai realizzata, e io ho ritirato la candidatura». Qualche tempo fa scrissero pure che avrebbe fatto ritorno in Rai. Rumors con qualche fondamento?«Solo gossip, niente di vero. Almeno per quello di cui sono io a conoscenza».Non ci tornerebbe?«Le rispondo così: sono un uomo delle istituzioni, vado dove mi mandano».Che vuol dire essere «uomo delle istituzioni» per Mauro Masi?«Quando lavori nel settore pubblico, devi operare super partes, senza sbavature, seguendo norme e regolamenti. La funzione pubblica è oggettiva, indipendente dalle idee politiche».E però sulle nomine a ogni esecutivo sorgono appetiti e polemiche…«Si chiama spoils system, ed è legittimo. Chi democraticamente sale al potere, è corretto che - seguendo le leggi - metta in certe posizioni chi desidera. Lo può e lo deve fare. Tenendo naturalmente conto anche delle specifiche competenze».Berlusconi, Dini, D’Alema, Amato, Prodi… lei ha lavorato con tutti. Qual è il suo segreto?«È stato un onore e un privilegio lavorare con le personalità che mi ha citato: hanno fatto la storia del nostro Paese. Sa che contrariamente a quel che per partigianeria si potrebbe pensare, sono stati tutti - nessuno escluso - politici che hanno lavorato unicamente per l’Italia e per gli italiani? Però uno se l’è dimenticato, e siccome ne vado fiero glielo vorrei dire». Chi è?«Mi faccia aggiungere anche Gianni Letta».L’eminenza azzurrina. «C’è chi lo chiama così. Per me e per molti della mia generazione - le farò i nomi di Catricalà e Frattini, che purtroppo non ci sono più - il dottor Letta è stato esempio fondamentale, un modello di come si lavora per le istituzioni».Nella sua classifica delle passioni, la comunicazione sta in cima?«Sì, dopo un corso negli Usa su McLuhan: negli anni ’80 Bankitalia mi inviò al Fondo monetario internazionale per un periodo di studio. E il sociologo mi folgorò: attualissimo con l’avvento di internet e le distorsioni che crea. Ci ho scritto anche un libro, su questo tema, chiedendomi: Internet ci rende più stupidi?». Sui social network non l’ho trovata. «Non fanno per me».Torno all’esperienza dei suoi 800 giorni in Rai. In una parola?«Mi riesce difficile. Quando entrai, comunque, rimasi letteralmente basito che una struttura pubblica a partecipazione diretta del ministero dell’Economia e con un controllo parlamentare fosse così squilibrata. Allora, poi, era la più squilibrata di sempre».Erano gli anni di Santoro, che lei chiamò in diretta una volta… Una lite memorabile sul caso Ruby, nella quale lei si dissociava dall’impostazione della puntata di Annozero.«Ed erano gli anni dei Floris, Guzzanti, Fazio, Saviano, Gabanelli, Dandini… Quel che ho cercato di fare, è stato riequilibrare, di dare un vero servizio pubblico. Non certo censurando, ma aggiungendo. Introdussi il programma dopo il Tg1 di Giuliano Ferrara, misi Vittorio Sgarbi in prima serata…».E furono polemiche. «Strumentali. E poi si sa, tra gli elementi costitutivi del mondo Rai c’è il chiacchiericcio e la polemica sulla polemica. È stato inevitabile fin dagli anni Cinquanta. In ogni caso, io capii che la Rai doveva essere più equilibrata e meno partigiana».Oggi come è messa?«Non mi faccia domande così, non le posso rispondere perché è poco elegante che un ex capo azienda parli dei vertici o della gestione attuali». Quindi inutile anche chiederle di Carlo Fuortes? I retroscena sul suo futuro si sprecano.«L’ho conosciuto e stimato molto come un grande sovrintendente del teatro dell’Opera di Roma. Io peraltro sono un patito della lirica».Sotto la sua gestione si compì il passaggio dall’analogico al digitale… «Dopo il colore, un passaggio storico. E poi vado fiero della difesa che feci del servizio pubblico da Murdoch: voleva comprarsi il palinsesto e portarlo sui canali satellitari pagandolo due lire - davvero, un piatto di lenticchie - e mi rifiutai. E pensare che lo “squalo” di Sky era appoggiato dalla sinistra: si vada a leggere i giornali dell’epoca».Raccontò che tra i corridoi si respirava un «sinistrismo di maniera, ostentato in pubblico e poco praticato in privato»…«Rimasi molto stupito che in fase di rinnovo dei contratti tanti campioni della “libertà di stampa” fossero così attaccati al denaro e al potere. Per carità, è sacrosanto e legittimo chiedere il giusto per il proprio lavoro, e combattere perché venga riconosciuto, ma mi faccia aggiungere che un po’ di coerenza con le proprie idee a volte non guasterebbe…».Sanremo ha fatto scatenare un fuoco di fila. Qual è il primo obiettivo della Rai? Fare ascolti, a tutti i costi?«Qui a parer mio si apre il grande tema del servizio pubblico».Che secondo lei ha ancora ragion d’essere nel nostro Paese?«Finché resta l’assetto attuale, è necessario che l’Italia abbia un servizio pubblico radiotelevisivo, sì, anche se siamo nel tempo delle multipiattaforme. Quello del servizio pubblico è un concetto che si declina diversamente dal punto di vista giuridico e culturale da epoca a epoca, da Paese a Paese. Se si può trovare un filo rosso tra le diverse esperienze internazionali, è che l’intervento dello Stato - attenzione: intendo come attore diretto, non come regolatore - si giustifica con l’importanza attribuita al mezzo. E cioè la tv, e la influenza sui comportamenti politici e sociali, nonché sulla opportunità di tutelare le radici e l’identità nazionale. Però…».Però?«Glielo dico con grande modestia ma avendo conosciuto le cose da dentro: mi sembra che si ponga oggi con imponenza un problema. Legato anche alla nascita delle nuove tecnologie».Un problema di competizione con le piattaforme?«No, il problema è che la Rai è nata e cresciuta come Giano bifronte. Le sue risorse vengono dal canone e dal mercato, con la pubblicità. E questo modello ha funzionato nel tempo, ma oggi dal mio punto di vista è difficile da mantenere».Perché?«Sintetizzo: se utilizzi il denaro del canone, devi comportarti come un vero servizio pubblico. Se vai sul mercato, l’obiettivo è fare più ascolti possibili. Si comincia a comprendere che le due cose difficilmente sono conciliabili nel mondo dominato da Internet».Che fare?«Bisogna decidere ed evidenziare con chiarezza cosa è finanziato dal canone e cosa dal mercato. Questo, tecnicamente è possibile in diversi modi anche ipotizzando due rami d’azienda diversi, due strutture separate, magari che fanno capo a una holding. Sempre all’interno di una struttura pubblica, chiaramente». Per capirci: si sta immaginando che il canone paghi i telegiornali, e il mercato gli show?«Questo spetterà dirlo al legislatore. E poi declinarlo con il contratto di servizio che la Rai stipula con le istituzioni. Disciplinando, di volta in volta, gli obiettivi. Il tema è delicato, perché poi c’è il ruolo della Commissione di Vigilanza. A cui spettano numerose decisioni importanti anche di governance. La cosa importante è cominciare a pensare come si può uscire dall’impasse».
Charlie Kirk (Getty Images). Nel riquadro Tyler Robinson