2024-11-10
Mattarella, Elkann e Prodi: vertice d’opposizione in Cina
Mentre lascia a casa dipendenti negli Stati Uniti, Jaki va a caccia di affari in Oriente sfilando con la delegazione di «re» Mattarella. E trovano pure il tempo d’inaugurare la «cattedra Agnelli» per affidarla a un grande amico della Repubblica comunista: Mortadella.Come tre amigos sulla Via della seta. È molto interessante e molto illuminante il weekend a Pechino all’insegna del made in Italy organizzato da mesi dal Quirinale, che vede in prima linea sul fronte dell’Indo-Pacifico il capo dello Stato, Sergio Mattarella, il super-imprenditore globale, John Elkann, e il più antico e fedele sodale italiano dei cinesi dopo Marco Polo e Mario Capanna, vale a dire Romano Prodi. Una missione diplomatica, un segnale di amicizia fra i popoli (e fin qui siamo nello scontato di facciata) ma, soprattutto, una singolare coincidenza rispetto al cambio di mano alla Casa Bianca con l’arrivo di Donald Trump.Incontrando Xi Jinping nella Casa del popolo, il presidente della Repubblica ha sottolineato che «la Cina è un protagonista fondamentale della vita internazionale ed è un interlocutore importante per l’Italia. Tutto questo in un periodo di grandi cambiamenti, intensi e veloci, e di grandi sfide per l’umanità, che richiederebbe concordia per un esame comune e convergente dei problemi. Non è questo il clima della comunità internazionale». Poi Mattarella, rispondendo alle domande di docenti e studenti dopo la lectio magistralis all’università di Pechino, è diventato più concreto dando un senso politico alla visita: «Cina e Italia hanno avuto grande progresso e crescita utilizzando i rapporti economici e commerciali aperti. Sono Paesi entrambi convinti cultori dell’importanza di mercati aperti, di collaborazione economico-commerciale nel mondo. Questo è anche uno strumento di pace perché collaborazioni economiche sempre più strette creano interessi comuni e sono un antidoto alla guerra».L’auspicio di «mercati aperti» è un doppio segnale, in parte contraddittorio. Se da una parte il presidente intende difendere le eccellenze italiane dai dazi cinesi, dall’altra pianta la bandierina del libero scambio proprio nei giorni in cui si parla di un braccio di ferro possibile fra Pechino e la nuova amministrazione in procinto di insediarsi a Washington. Nelle ore in cui il governo italiano di Giorgia Meloni rivendica un’affinità geopolitica con l’America trumpiana dopo aver preso (faticosamente) le distanze dal grande abbraccio cinese, ecco che Mattarella rilancia di fatto la Via della seta, peraltro uscita dall’agenda di palazzo Chigi. E lo fa alla presenza del ministro degli Esteri, Antonio Tajani, neanche fosse un convitato di pietra. Quando sostiene che «le collaborazioni economico-commerciali sono anche strumento di pace», Re Sergio smentisce la strategia europea da lui più volte sostenuta sull’ineluttabilità e il potere taumaturgico delle sanzioni, per esempio alla Russia. Così si scopre che a Pechino sfila la parte più raffinata e attrezzata dell’opposizione dem all’esecutivo di centrodestra. Quella che glorifica autostrade commerciali ormai chiuse, che anticipa la posizione italiana (no ai dazi) senza preoccuparsi delle scelte del governo. È comprensibile che un campione della diplomazia post-democristiana si muova con sensibilità curiale e nessuno dimentica la famosa frase di Henry Kissinger a Giulio Andreotti: «Voi italiani avete la moglie americana e l’amante araba». Ma la fuga in avanti è evidente. Confermata dalle parole del presidente indirizzate più a Donald Trump che a Xi e al premier Li Quiang: «Ci si astenga da iniziative unilaterali che possano esacerbare le difficoltà già esistenti» e «Nessuno in Europa, men che meno in Italia, immagina una stagione di protezionismo». Accanto a lui, ecco Gianni e Pinotto in doppiopetto Caraceni. Con Pierferdinando Casini gran cerimoniere a guidare la delegazione cattodem. Del tutto dimentico che, grazie alla cessione di sovranità automobilistica proprio ai cinesi, l’automotive europeo (quindi pure Stellantis) ha perso un altro 20%, John Elkann ha fatto passerella inaugurando la cattedra della Fondazione Agnelli (di cui è presidente) di «Cultura italiana» all’università di Pechino. Lui che di italiano non rappresenta proprio più nulla tranne che la Juventus, ha spiegato: «Stiamo costruendo un ponte per favorire il dialogo fra due paesi (dialogo che esiste da 30 anni, ndr) e che, attraverso questo, mira a unire due mondi, due culture. Su questo nuovo ponte le idee di innumerevoli studenti e ricercatori cammineranno in entrambe le direzioni». Anche in questo caso, al di là del rispetto istituzionale, colpisce che a sventolare il tricolore sia chiamato proprio colui che non più tardi di due settimane fa si è rifiutato di aprire un dialogo con il Parlamento sulla salvaguardia dei posti di lavoro in Italia, suscitando l’indignazione dell’intera Aula, eccezion fatta per il Pd. E chi ha chiamato, l’erede politico dell’Avvocato Basetta, a sedere su quella cattedra per cementare e imbullonare il ponte? Romano Prodi. Proprio colui che nel 2001 fece entrare la Cina, precipitosamente e con tutti i vantaggi, nel circuito commerciale mondiale (Wto) quando era numero uno della Commissione Ue. Proprio il tifoso numero uno di Pechino, che nell’occasione ha ribadito: «Si parla di dazi alla Cina sull’automotive. Queste cose si trattano, il problema di metterle come un principio generale è sbagliatissimo». Un pensiero unico da curva, un’allegra libera uscita filocinese in purezza. Si è notata l’assenza di Massimo D’Alema. Aveva già dato il meglio con i respiratori durante la pandemia.