2023-03-25
La sinistra vuoti il sacco: vuole la surrogata
Alessandro Zan (Getty Images)
I progressisti alla Alessandro Zan intendono normalizzare l’utero in affitto. Quando vengono smascherati, insultano, si lamentano, o giustificano la pratica, se svolta gratuitamente. Come se il punto fosse il denaro e non la riduzione dei corpi di donne e bimbi a oggetti di scambio.Poiché - lo ha ribadito qualche giorno fa un articolo del Corriere della Sera - il problema della registrazione dei figli delle coppie Lgbt riguarda circa un migliaio di bambini, trovare una soluzione rapida ed efficace sarebbe piuttosto semplice, e permetterebbe di concentrare rapidamente il dibattito pubblico su altre questioni più pressanti. A impedire una pacifica risoluzione del conflitto, tuttavia, è l’enorme ombra del non detto che si allunga sull’intera vicenda. La verità, infatti, è che le avanguardie arcobaleno del Pd e le varie congreghe di attivisti non vogliono, semplicemente, sbrogliare una questione complicata (che per altro hanno creato loro). No: vogliono, più o meno surrettiziamente, portare avanti una battaglia ideologica a favore dell’utero in affitto. L’obiettivo finale dell’intero greve spettacolo allestito dagli attivisti che si fanno scudo dei bambini è lo sdoganamento della maternità surrogata. Essi affermano che sia un loro diritto e, come noto, tutto ciò che i militanti progressisti definiscono tale va approvato per forza, poiché rappresenta «il bene assoluto».Certo, formalmente il Pd non ha preso una posizione netta. Va notato però che Elly Schlein, prima di vincere alle primarie, si è apertamente dichiarata a favore della surrogazione. Altri la pensano allo stesso modo, ma non hanno il coraggio di dirlo, e dunque provano maldestramente a sviare la discussione dal punto dolente. Perfettamente emblematico è il caso di Alessandro Zan, con cui chi scrive ha avuto modo di confrontarsi giovedì sera a Piazzapulita. Per oltre un’ora, l’esponente dem è riuscito a insultare, a lamentarsi di immaginarie «campagne di odio», a gridare rabbioso, a chiamare in causa il fascismo. Ma non è mai riuscito a dire, nemmeno una volta, di essere contrario all’utero in affitto. Egli sa benissimo che, alle attuali condizioni, consentire la registrazione dei «figli arcobaleno» (anzi, di entrambi i loro genitori) significa sdoganare una pratica che le più alte istituzioni italiane giudicano gravemente lesiva della dignità della donna. Ma non gli importa, perché ciò che pretende la sua area di riferimento è esattamente questo: bisogna trovare un modo per rendere legale il noleggio di madri. La registrazione dei figli presso i Comuni, finora, ha rappresentato un ottimo escamotage, a cui però non si può più ricorrere.Che fare, dunque? Per prima cosa, i nostri eroi devono provare a distogliere l’attenzione dal vero nodo della questione, e spesso ci riescono, potendo contare su abili alleati nei media. Talvolta, però, i loro tentativi vanno a vuoto. A quel punto, non resta che tentare di indorare la pillola per far credere agli italiani che, in fondo, quella pratica non sia così abominevole come viene descritta o che sia possibile attuarla in forme attenuate e tutto sommato non invasive. È il caso, questo, della proposta avanzata dai radicali e dall’associazione Luca Coscioni, appena ribadita nel corso di una conferenza stampa. Si tratta della cosiddetta «gravidanza solidale e altruistica», formidabile formula che puzza di artificio da chilometri di distanza. Marco Cappato e soci, sintetizza Repubblica, sostengono che vada «resa possibile in Italia, come nel Regno Unito, in Canada e in Grecia. Con accorgimenti chiari». Quali siano tali accorgimenti è presto detto: «La donna che “in modo autonomo e volontario decide di ospitare nel proprio utero un embrione sviluppato attraverso le tecniche di fecondazione in vitro” deve avere almeno 42 anni, essere già mamma e avere un reddito che la renda indipendente, quindi non trovarsi in stato di bisogno».Lasciamo perdere per un attimo le considerazioni sui limiti d’età (e al conseguente utilizzo di bombardamento ormonale che potrebbe essere richiesto per rendere certo il risultato in quella fascia anagrafica), e concentriamoci sull’aspetto economico. Con tutta evidenza, qui il tentativo è quello di rendere meno manifesto lo scambio di denaro. È inutile nascondere che l’aspetto della compravendita sia quello che colpisce maggiormente l’opinione pubblica, perché svela la maternità surrogata per quello che è: una forma estrema di prostituzione, una commercializzazione del corpo e della vita. Per attutire l’impatto di tale verità, gli attivisti insistono potentemente sull’aspetto della volontarietà, e sull’inesistenza di «condizioni di bisogno». Lo fanno già ora, senza bisogno della proposta dei radicali. Le madri surrogate che vengono normalmente intervistate sono statunitensi o canadesi, ripetono di avere già un reddito proprio, si mostrano felici di ciò che hanno fatto, sostengono di aver stabilito un rapporto forte e profondo con le coppie che le prendono a servizio. Come no.Tanto per cominciare, sarebbe interessante domandare ai bambini se siano favorevoli a essere tolti alla madre dopo nove mesi trascorsi nel suo ventre, ma ovviamente i piccini non hanno possibilità di scelta né voce. In secondo luogo, il fatto che qualcuno compia volontariamente una azione abominevole non rende quell’azione meno abominevole. A rendere orrenda la surrogata non è il passaggio di denaro, bensì l’idea che la merce di scambio sia la vita, il corpo. Per altro non il corpo del singolo, ma il corpo di un altro che nessuno interpella (il neonato) e di cui però ci si fa scudo per ottenere riconoscimento legale. Non stiamo parlando di bambini privi di un genitore, o di orfani, ma di bimbi a cui - per contratto - viene cancellato un genitore. In ogni caso, il passaggio economico non viene meno nemmeno nei casi in cui la «solidarietà» è normata. Basta far figurare la transazione come rimborso spese e il gioco è fatto (evitiamo di approfondire, per buon gusto, le possibilità di pagamenti in nero).A queste condizioni, sarebbe almeno dignitoso da parte di associazioni, movimenti e soprattutto da parte del Pd dire le cose come stanno. Vogliono la maternità surrogata? Lo dicano chiaramente, e la smettano di nascondersi dietro cavilli, mistificazioni e sotterfugi. Sono inutili, perché la loro reale visione del mondo emerge prepotente: ritengono che sia diritto di ciascuno mettere in vendita non solo il proprio corpo, ma anche quello dei figli, che è considerato niente più di un prodotto. Il fatto che i bambini non possano opporsi è irrilevante poiché, in questa visione, la vita è tale soltanto quando può produrre profitto, quindi i concepiti da poco o gli anziani ormai «danneggiati» sono esclusi e di loro ci si può liberare senza patemi. La storia della «gravidanza solidale», comunque sia, è una bella trovata. Fa venire in mente quelle simpatiche signore molto radical che - ai tempi dei movimenti no global - si godevano bellamente il privilegio economico poi, per pulirsi la coscienza, compravano il caffè al commercio equo e solidale. E magari due tazze dipinte a mano dai polinesiani che nel salotto della Patti ci stanno proprio bene.
Lo scorso 25 novembre è stata presentata alla Fao la campagna promossa da Focsiv e Centro sportivo italiano: un percorso di 18 mesi con eventi e iniziative per sostenere 58 progetti attivi in 26 Paesi. Testimonianze dal Perù, dalla Tanzania e da Haiti e l’invito a trasformare gesti sportivi in aiuti concreti alle comunità più vulnerabili.
In un momento storico in cui la fame torna a crescere in diverse aree del pianeta e le crisi internazionali rendono sempre più fragile l’accesso al cibo, una parte del mondo dello sport prova a mettere in gioco le proprie energie per sostenere le comunità più vulnerabili. È l’obiettivo della campagna Sport contro la fame, che punta a trasformare gesti atletici, eventi e iniziative locali in un supporto concreto per chi vive in condizioni di insicurezza alimentare.
La nuova iniziativa è stata presentata martedì 25 novembre alla Fao, a Roma, nella cornice del Sheikh Zayed Centre. Qui Focsiv e Centro sportivo italiano hanno annunciato un percorso di 18 mesi che attraverserà l’Italia con eventi sportivi e ricreativi dedicati alla raccolta fondi per 58 progetti attivi in 26 Paesi.
L’apertura della giornata è stata affidata a mons. Fernando Chica Arellano, osservatore permanente della Santa Sede presso Fao, Ifad e Wfp, che ha richiamato il carattere universale dello sport, «linguaggio capace di superare barriere linguistiche, culturali e geopolitiche e di riunire popoli e tradizioni attorno a valori condivisi». Subito dopo è intervenuto Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, che ha ricordato come il raggiungimento dell’obiettivo fame zero al 2030 sia sempre più lontano. «Se le istituzioni faticano, è la società a doversi organizzare», ha affermato, indicando iniziative come questa come uno dei modi per colmare un vuoto di cooperazione.
A seguire, la presidente Focsiv Ivana Borsotto ha spiegato lo spirito dell’iniziativa: «Vogliamo giocare questa partita contro la fame, non assistervi. Lo sport nutre la speranza e ciascuno può fare la differenza». Il presidente del Csi, Vittorio Bosio, ha invece insistito sulla responsabilità educativa del mondo sportivo: «Lo sport costruisce ponti. In questa campagna, l’altro è un fratello da sostenere. Non possiamo accettare che un bambino non abbia il diritto fondamentale al cibo».
La campagna punta a raggiungere circa 150.000 persone in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente. Durante la presentazione, tre soci Focsiv hanno portato testimonianze dirette dei progetti sul campo: Chiara Concetta Starita (Auci) ha descritto l’attività delle ollas comunes nella periferia di Lima, dove la Olla común 8 de octubre fornisce pasti quotidiani a bambini e anziani; Ornella Menculini (Ibo Italia) ha raccontato l’esperienza degli orti comunitari realizzati nelle scuole tanzaniane; mentre Maria Emilia Marra (La Salle Foundation) ha illustrato il ruolo dei centri educativi di Haiti, che per molti giovani rappresentano al tempo stesso luogo di apprendimento, rifugio e punto sicuro per ricevere un pasto.
Sul coinvolgimento degli atleti è intervenuto Michele Marchetti, responsabile della segreteria nazionale del Csi, che ha spiegato come gol, canestri e chilometri percorsi nelle gare potranno diventare contributi diretti ai progetti sostenuti. L’identità visiva della campagna accompagnerà questo messaggio attraverso simboli e attrezzi di diverse discipline, come illustrato da Ugo Esposito, Ceo dello studio di comunicazione Kapusons.
Continua a leggereRiduci
Mark Zuckerberg (Getty Images)
A Fuori dal coro Raffaella Regoli mostra le immagini sconvolgenti di un allontanamento di minori. Un dramma che non vive soltanto la famiglia nel bosco.
Le persone sfollate da El Fasher e da altre aree colpite dal conflitto sono state sistemate nel nuovo campo di El-Afadh ad Al Dabbah, nello Stato settentrionale del Sudan (Getty Images)