«Diremo tutto su tutto». La frase compare nell’editoriale che presenta a Torino e al mondo la prima copia de La Gazzetta Piemontese (1867), mamma del quotidiano La Stampa che oggi soffre per il concreto rischio di essere ceduto a un armatore greco, a un manager aeroportuale veneto. E comunque a chi aggrada a John Elkann, in fuga dai media dopo essere scappato dall’Italia sulla Panda col doppiofondo. Quelle quattro parole sono «un’impronta genetica a cui è stata fedele nel suo secolo e mezzo di vita», ricordava ieri un lungo articolo rievocativo, un viaggio dentro la storia del giornale con accenti leggendari e con un sottofondo amaro, dovuto al grottesco parallelismo indotto con l’oggi e la destra al governo.
Titolo: «Quando il fascismo isolò Frassati». Era il direttore-proprietario che dovette andarsene nel luglio 1925, agli albori del regime, approccio che serve per evocare un fiero passato antifascista nel Dna del quotidiano. Poiché adesso sappiamo che bisogna «dire tutto su tutto» è importante aggiungere che dal giorno dopo La Stampa non diventò fascista, ma fascistissima. Questo nonostante il motto latino «Frangar non flectar» (mi spezzo ma non mi piego) a lungo impresso accanto alla testata. Era accaduto un fatto difficile da ricordare a cuor leggero: Giovanni Agnelli (il nonno dell’Avvocato basetta) aveva rilevato redazione e tipografia con la benedizione di Benito Mussolini. Alla scrivania di Alfredo Frassati sedette Andrea Torre e nel ventennio impronunciabile il giornale accompagnò la storia d’Italia dalla parte del potere.
Per evitare che lo smemorato piemontese più famoso, quello di Collegno, venga sostituito da un bianchetto redazionale come da celebre vignetta di Giorgio Forattini, meglio ricordare ciò che sarebbe più comodo dimenticare. È necessario aggiungere che dal 1929 al 1931 il direttore della Stampa fu Curzio Malaparte, grande scrittore e intellettuale in camicia nera prima di essere folgorato dall’Unione sovietica. Alcuni suoi editoriali, lirici nei confronti del paradiso comunista, gli valsero l’epurazione da parte del signor Fiat. Volendo sublimare quel passato e giocare maliziosamente con lunari parallelismi oggi di moda, allora il giornale riuscì nell’impresa di celebrare due dittature in una, quella rossobruna. Come scriverebbe Annalisa Cuzzocrea, fu il primo putiniano della storia.
Allora nella sede di via Roma con ingresso dalla galleria San Federico, la famiglia Agnelli dettava legge e i direttori cominciarono ad alternarsi con la velocità degli ultimi allenatori della Juventus: Augusto Turati, Alfredo Signoretti, Vittorio Varale, Filippo Burzio. Dopo l’8 settembre 1943 a firmare La Stampa furono Angelo Appiotti, Concetto Pettinato e Francesco Scardaoni. Di loro si è persa la memoria, sciolti nell’acido in effigie. Forse perché l’adesione del giornale alla Repubblica sociale fu così entusiastica che a fine conflitto il Cln ne fece sospendere per un breve periodo l’uscita per connivenza con il fascismo morente. Altro che Dna antifa.
La selettività neuronale è una debolezza umana e un quotidiano di 158 anni ha pure diritto a qualche vuoto di memoria. Che sarà mai. Un privilegio messo in atto già una volta, nel 2017, quando una pubblicazione celebrativa con eventi, articoli, grandi firme del passato e del presente (titolo «Il mondo che ci aspetta») aveva steso un velo di nebbia proprio su quei 20 anni, come se dal 1925 al 1945 la tipografia avesse smesso di funzionare per un misterioso sortilegio alieno. Niente di strano visto che a Torino, con la bonomia disincantata del popolo verso il suo giornale, La Stampa è soprannominata «la Busiarda». È curioso come la solerzia di ripulire la propria storia e di chiedere garanzie politiche agli editori di domani non si sia mai accompagnata alla necessità di fare l’esame del sangue agli editori di oggi e di ieri. Stessa famiglia, stesso passato, stesse camicie negli aviti armadi di cedro antitarme.
Quel vuoto mnemonico non ricapiterà. Poiché al termine del bell’articolo storico di Cesare Martinetti c’è la dicitura «1-continua» è scontato che tutto questo verrà riportato con completezza e trasparenza già oggi o domani. Nel frattempo lo abbiamo fatto noi, infingardi e petulanti innamorati del piccolo cabotaggio, anche per rendere giustizia proprio all’eroico Frassati. «Espressione della borghesia cavourriana liberale e illuminata» (che allora significava zero ma proprio zero socialista), quel direttore era davvero un grande, giustamente dipinto come «difensore di un giornalismo mai conformista». Quindi per proprietà transitiva lontano anni luce dal turbo progressismo woke di questa stagione della Stampa, vissuta al calduccio del pensiero unico mainstream. E nel triennio di Massimo Giannini sulla tolda, perfino imbarazzante scudiera dell’ala sinistra del Pd.
«Frangar non flectar», la storia non deve mai far paura. Sennò, partendo dal «Mi spezzo ma non mi piego», si finisce con i piedi e le rotative dentro un altro magico mondo, quello di Ennio Flaiano, e del suo altrettanto immortale «Mi spezzo ma non mi spiego».
Salvini: «Di danni ne hanno fatti»
«Elkann faccia quello che vuole. Quella famiglia di danni in Italia ne ha fatti tanti». Matteo Salvini non usa mezzi termini. Lo dice a margine di un’iniziativa della Lega alla bocciofila Martesana di Milano, mentre circolano voci su una possibile vendita della Juventus da parte di John Elkann. Indiscrezioni smentite in giornata da Exor, ma sufficienti a innescare una reazione politica trasversale. Il vicepremier non mette il becco sulla questione Juve. «Io sono milanista e non entro in casa altrui», premette. Poi affonda: quella famiglia ha fatto danni. Dall’auto ai giornali, fino al calcio.
Salvini poi rilancia con una proposta: «Come Lega, conto di riuscire a far approvare velocemente la legge, che prevede la partecipazione dei tifosi nell’azionariato e nella gestione della società. Sarebbe una rivoluzione positiva, sia per i grandi club che per le piccole squadre». Coinvolgere chi ama quelle maglie, chi riempie gli stadi. «Chi vuole può partecipare con risorse e scelte. Il calcio italiano sta perdendo colpi».
Le critiche senza sconti a Elkann uniscono Salvini e Carlo Calenda. Il leader di Azione attacca su X: «Elkann ha dimostrato di non avere valori e di non tenere in alcun conto la storia della sua famiglia e della sua patria, avendo venduto Marelli, Comau, Iveco, La Stampa e Repubblica e desertificato le fabbriche italiane. Le sue dichiarazioni valgono zero. Come ben sanno gli operai». Il copione è noto: smontare, vendere, spostare. John Elkann non costruisce, dismette. Non rilancia, liquida. Lo fa con la freddezza del manager globale che considera l’Italia una voce di bilancio, non una responsabilità storica. Le indiscrezioni sulla Juve sono l’ultimo tassello di una ritirata che dura da anni. Prima l’industria automobilistica, con Stellantis che produce Fiat all’estero mentre in Italia si fermano linee e modelli. Poi l’editoria, con lo smembramento del gruppo Gedi e la cessione dei giornali storici. Ora il calcio, ultimo simbolo popolare rimasto. Non sorprende che Salvini parli di «danni fatti all’Italia». Né che Calenda parli di assenza di valori. Qui non è in discussione il mercato, ma le scelte: sfilarsi, arretrare, alleggerire la presenza nel Paese.
Il Partito democratico, immobile e muto in tutti questi anni davanti allo scempio e alla dismissione soprattutto della storia dell’auto italiana, sembra un disco rotto. «Penso che il ricorso al Golden power per la vicenda Gedi sia un buon auspicio destinato a rimanere tale. Un buon auspicio perché la dimensione di un organo di informazione è sempre strategica. Eppure irrealizzabile. Per ovvi motivi. Spero di sbagliarmi ma credo che il governo non abbia interesse a impedire che un uomo collegato ai circuiti economici internazionali e amico della destra diventi l'azionista di riferimento», dichiara Andrea Orlando. «Se poi il Golden power non è stato applicato per Magneti Marelli, Iveco, Comau, asset proprietari di brevetti, fondamentali per il Paese, che sono finiti nelle mani di fondi speculativi o di case produttrici straniere. Oggi la deindustrializzazione va avanti, a gonfie vele, a favore del reshoring verso Stati Uniti». Strano perché è sempre stata l’opposizione a denunciare presunte ingerenze della maggioranza sull’informazione. Mentre, all’opposto, il centrosinistra si opponeva a protezioni su Unicredit. È evidente che la ferita aperta della cessione di quotidiani d’area mandi in tilt quelli del Nazareno, che mettono insieme in un grande calderone allarmi democratici, critiche al sovranismo e alle politiche migratorie. «La vendita di Repubblica», conclude infatti l’ex ministro, «è uno smacco al mondo progressista, di impostazione democratica, se pensiamo al giornale fondato da Eugenio Scalfari. Ma è anche un sintomo di cosa sia il nazionalismo italiano che vale solo per bloccare le frontiere».