
Mali e Iran stanno rafforzando la cooperazione bilaterale: un fattore che consolida indirettamente l’influenza di Mosca sul Sahel. Martedì scorso, il ministro degli Esteri iraniano, Hossein Amir-Abdollahian, si è recato a Bamako, alla guida di una delegazione politica ed economica di alto rango, per incontrare l’omologo maliano, Abdoulaye Diop. Secondo quanto riferito dall’agenzia di stampa turca Anadolu, Teheran è pronta a intervenire in vari settori economici del Paese africano: dalle infrastrutture alla lavorazione della carne, passando per il cotone e il comparto energetico. Fonti giornalistiche di Teheran hanno inoltre riferito che i due Paesi organizzeranno dei forum economici congiunti. “I governi dei due Paesi stanno facendo molti sforzi per facilitare il lavoro degli operatori economici”, ha dichiarato Abdollahian, per poi aggiungere: “Gli ostacoli esistenti verranno eliminati per accelerare le operazioni di cooperazione economica tra i due Paesi”. Ora, il consolidamento dei legami tra Teheran e Bamako è una notizia dai risvolti problematici. Ricordiamo che l’Iran è uno stretto alleato della Russia, con cui ha siglato a luglio un accordo da 40 miliardi di dollari nel settore dell’energia. Quella stessa Russia che, negli scorsi mesi, ha significativamente rafforzato la propria longa manus sul Mali, infliggendo ripetutamente duri colpi all’influenza francese su Bamako. Una longa manus – quella di Mosca – veicolata soprattutto attraverso i temibili mercenari del Wagner Group. La crescente forza del Cremlino nell’area è destinata ulteriormente a consolidarsi attraverso Teheran. E questo costituisce un problema significativo. Non va infatti trascurato che il Sahel è un crocevia fondamentale per i flussi migratori diretti verso l’Europa occidentale: flussi che Mosca potrebbe utilizzare come strumento di pressione politica sull’Ue (secondo un copione già messo in pratica da Vladimir Putin, in combutta con Minsk, lo scorso autunno ai danni dei confini polacchi). L’Iran, dal canto suo, potrebbe in un certo senso contribuire a questa strumentalizzazione, senza tra l’altro dimenticare che la Repubblica islamica è in grado di condurre attività minacciose in seno al Mediterraneo allargato (si pensi solo al sequestro di due petroliere greche lo scorso maggio). Non va inoltre trascurato che anche la Turchia sta accrescendo la propria influenza sul Mali e che, a luglio, Ankara e Teheran hanno portato avanti un rasserenamento nei loro rapporti (pur a fronte di alcune divergenze, a partire dal dossier siriano). Tutto questo pone una serie di questioni, di cui la Nato dovrebbe occuparsi. Il rafforzamento di Russia e Iran nel Sahel costituisce infatti una minaccia per il fianco meridionale dell’Alleanza atlantica: fianco che sarebbe quindi opportuno rilanciare e consolidare tempestivamente. Il punto è che l’attuale Casa Bianca non sembra pronta per un simile impegno. Innanzitutto Joe Biden è a un passo dal rilancio del controverso accordo sul nucleare con l’Iran: un’intesa pericolosa innanzitutto per Israele, ma che potrebbe determinare ripercussioni negative anche per l’intero Mediterraneo allargato. In secondo luogo, lo stesso Biden ha assunto negli ultimi mesi un atteggiamento eccessivamente arrendevole nei confronti di Recep Tayyip Erdogan: un leader che fa parte, sì, della Nato, ma che porta avanti al contempo una politica estera notevolmente ambigua e spregiudicata (specialmente nei suoi rapporti con il Cremlino). Infine, è pur vero che l’attuale amministrazione americana ha mostrato un certo interessamento per il continente africano. È tuttavia altrettanto vero che, almeno per ora, non si scorgono strategie complessive e organiche su questo fronte. Washington e Bruxelles continuano a perdere terreno nel Sahel. Mosca e Teheran, dal canto loro, brindano.
Roberto Crepaldi
La toga progressista: «Voterò no, ma sono in disaccordo con il Comitato e i suoi slogan. Separare le carriere non mi scandalizza. Il rischio sono i pubblici ministeri fuori controllo. Serviva un Csm diviso in due sezioni».
È un giudice, lo anticipiamo ai lettori, contrario alla riforma della giustizia approvata definitivamente dal Parlamento e voluta dal governo, ma lo è per motivi diametralmente opposti rispetto ai numerosi pm che in questo periodo stanno gridando al golpe. Roberto Crepaldi ritiene, infatti, che l’unico rischio della legge sia quello di dare troppo potere ai pubblici ministeri.
Magistrato dal 2014 (è nato nel 1985), è giudice per le indagini preliminari a Milano dal 2019. Professore a contratto all’Università degli studi di Milano e docente in numerosi master, è stato componente della Giunta di Milano dell’Associazione nazionale magistrati dal 2023 al 2025, dove è stato eletto come indipendente nella lista delle toghe progressiste di Area.
Antonella Sberna (Totaleu)
Lo ha dichiarato la vicepresidente del Parlamento Ue Antonella Sberna, in un'intervista a margine dell'evento «Facing the Talent Gap, creating the conditions for every talent to shine», in occasione della Gender Equality Week svoltasi al Parlamento europeo di Bruxelles.
Ansa
Mirko Mussetti («Limes»): «Trump ha smosso le acque, ma lo status quo conviene a tutti».
Le parole del presidente statunitense su un possibile intervento militare in Nigeria in difesa dei cristiani perseguitati, convertiti a forza, rapiti e uccisi dai gruppi fondamentalisti islamici che agiscono nel Paese africano hanno riportato l’attenzione del mondo su un problema spesso dimenticato. Le persecuzioni dei cristiani In Nigeria e negli Stati del Sahel vanno avanti ormai da molti anni e, stando ai dati raccolti dall’Associazione Open Doors, tra ottobre 2023 e settembre 2024 sono stati uccisi 3.300 cristiani nelle province settentrionali e centrali nigeriane a causa della loro fede. Tra il 2011 e il 2021 ben 41.152 cristiani hanno perso la vita per motivi legati alla fede, in Africa centrale un cristiano ha una probabilità 6,5 volte maggiore di essere ucciso e 5,1 volte maggiore di essere rapito rispetto a un musulmano.






