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2018-09-08
Ma Francesco si mette a parlare di economia
Ansa
Il Papa concede la sua prima intervista a un giornale economico, lo fa con Il Sole 24 Ore, e affronta temi della dottrina sociale che hanno a che fare con lavoro, finanza, ambiente e migranti senza, ovviamente, fare cenno ai problemi che in questi giorni stanno occupando la cronaca sulla Chiesa. Nessuna domanda sul caso Viganò e sugli abusi del clero negli Stati Uniti, anche perché su questo Francesco ha detto di voler rispondere con il silenzio (per ora). Non sappiamo quando l'intervista sia stata concessa e i dietrologi potrebbero pensare a una strategica virata su temi diversi per allontanare una morsa sempre più pressante, ma il Papa al giornale di Confindustria non poteva che parlare di economia.
I «soldi non si fanno con i soldi», dice Francesco al direttore Guido Gentili. «I soldi, quelli veri, si fanno con il lavoro. È il lavoro che conferisce dignità all'uomo non il denaro». Così il Papa ripete un caposaldo della dottrina sociale cattolica che pone l'attenzione primaria alla persona e non alle cose. Cita ampiamente il suo predecessore Paolo VI, «che avrò la gioia di proclamare santo il prossimo 14 ottobre», e dice che «lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere autentico sviluppo, deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l'uomo».
In una sorta di sommario mette sul tavolo ciò che a suo parere serve per lottare contro l'idolo denaro: «La distribuzione e la partecipazione alla ricchezza prodotta, l'inserimento dell'azienda in un territorio, la responsabilità sociale, il welfare aziendale, la parità di trattamento salariale tra uomo e donna, la coniugazione tra i tempi di lavoro e i tempi di vita, il rispetto dell'ambiente, il riconoscimento dell'importanza dell'uomo rispetto alla macchina e il riconoscimento del giusto salario, la capacità di innovazione sono elementi che tengono viva la dimensione comunitaria dell'azienda».
Se non si segue questa ricetta, si va incontro a quella che il Papa chiama «cultura dello scarto», dove l'escluso «non è sfruttato ma completamente rifiutato». L'etica giusta, spiega Francesco, «tende al superamento della distinzione rigida tra realtà votate al guadagno e quelle improntate non all'esclusivo meccanismo dei profitti, lasciando un ampio spazio ad attività che costituiscono e ampliano il cosiddetto terzo settore». In proposito va notato che Benedetto XVI nella sua enciclica sociale Caritas in veritate metteva però in guardia da un utilizzo semplicistico del termine etica in economia: serve «un valido criterio di discernimento», scriveva papa Ratzinger, poiché l'aggettivo «etico», se «adoperato in modo generico, si presta a designare contenuti anche molto diversi, al punto da far passare sotto la sua copertura decisioni e scelte contrarie alla giustizia e al vero bene dell'uomo». Un rischio da cui il cosiddetto «terzo settore» non è certo esente.
Francesco ripete più volte che occorre «essere testimoni di speranza», vale per l'economia e vale anche per il fenomeno dell'immigrazione. Occorre pensare «all'umanità come a una sola famiglia» senza avere paura dei migranti, ma senza nemmeno nascondere le difficoltà dell'accoglienza. «Allarghiamo i nostri orizzonti senza consumarci nella preoccupazione del presente», esorta Francesco dalle colonne del Sole. Da parte loro, «i migranti siano rispettosi della cultura e delle leggi del Paese che li accoglie per mettere così in campo congiuntamente un percorso di integrazione e per superare tutte le paure e le inquietudini». In quanto ai governi, «trovino modalità condivise per dare accoglienza dignitosa a tanti fratelli che invocano aiuto. Si può ricevere un certo numero di persone, senza trascurare la possibilità di integrarle e sistemarle in modo dignitoso. È necessario avere attenzione per i traffici illeciti, consapevoli che l'accoglienza non è facile».
«Guadagnarsi il pane è motivo di orgoglio», dice Francesco a Gentili. È il lavoro che «crea dignità, i sussidi, quando non legati al preciso obiettivo di ridare lavoro e occupazione creano dipendenza e deresponsabilizzano». Questo vale anche per i migranti economici, per i quali il Papa auspica che «molti imprenditori e ad altrettante istituzioni europee a cui non mancano genialità e coraggio, potranno intraprendere percorsi di investimento, nei loro Paesi, in formazione, dalla scuola allo sviluppo di veri e propri sistemi culturali e, soprattutto in lavoro».
Lorenzo Bertocchi
Si allunga la lista degli Stati Usa sulle tracce dei pedofili nel clero
Nello stato di New York procede l'indagine civile sulle risposte della Chiesa alle accuse di molestie. Il procuratore generale di New York, Barbara Underwood, ha ordinato a tutte e otto le diocesi cattoliche dello stato di consegnare i documenti in loro possesso relativi allo scandalo della pedofilia del clero. «Il rapporto del gran giurì della Pennsylvania», ha dichiarato la Underwood, «ha gettato luce su atti incredibilmente depravati da parte del clero cattolico, assistiti da una cultura di segretezza e copertura da parte delle diocesi. Le vittime di New York hanno diritto di essere ascoltate e noi faremo il possibile, per quanto sta nei nostri poteri, per dar loro la giustizia che meritano».
Le inchieste della giustizia civile si stanno moltiplicando, perciò potrebbero arrivare nuove sorprese a colpire la Chiesa degli Stati Uniti. Anche per questo il memoriale dell'ex nunzio Carlo Maria Viganò, invece di essere derubricato a mossa politica contro papa Francesco potrebbe diventare l'occasione per fare chiarezza e recuperare credibilità. In un certo senso ne è convinto anche padre Hans Zollner, gesuita tedesco, professore alla Università Gregoriana e membro della pontificia commissione per la protezione dei minori. Intervistato dall'australiano The Catholic Weekly, ha detto che «sì, vale la pena di indagare». Molte delle considerazioni emerse in questi giorni «mettono alla prova la credibilità [del dossier Viganò]», ma «ci sono molte domande aperte». Di fronte a queste, dice ancora Zollner, «spero, come tutti noi, che il Papa o la Santa Sede risponderanno».
La necessità di fare chiarezza sulla testimonianza di Viganò aumenta sulla scorta delle indagini civili. «Abbiamo esaminato il rapporto della giuria della Pennsylvania», ha detto Lisa Madigan, procuratore generale dell'Illinois, «che identifica almeno sette sacerdoti con connessioni con l'Illinois. L'arcidiocesi di Chicago ha accettato di incontrarmi. Ho intenzione di raggiungere le altre diocesi dell'Illinois per avere la stessa conversazione e mi aspetto che i vescovi siano d'accordo e cooperino pienamente». La stessa cosa sta accadendo nel Missouri e c'è un'indagine della polizia aperta a Cheyenne, Wyoming.
«Negli Stati Uniti», ha dichiarato il gesuita esperto vaticano del problema abusi, «abbiamo ora un dibattito molto forte, una grande e feroce discussione tra liberali e conservatori che va avanti da molto tempo. Ma dopo la lettera di Viganò, è un problema che riguarda tutta la Chiesa». Gli abusi vengono perpetrati sia in ambienti progressisti che in quelli cosiddetti conservatori, ha spiegato Zollner, e da entrambe le parti abbiamo persone che vogliono superare questa piaga, perciò l'esplosione del caso Viganò potrebbe creare una sorta di «ponte in favore della creazione di una Chiesa più sicura per i bambini».
Posto di fronte agli esiti di alcune indagini realizzate negli Stati Uniti, in particolare al dato che rivela come l'81% dei casi di abusi si realizza nei confronti di maschi adolescenti, padre Zollner affronta anche il problema dell'omosessualità nel clero cattolico. «Direi che l'omosessualità prima di tutto non porta automaticamente a comportamenti offensivi, questo è chiaro. E aggiungerei che dalla mia esperienza e da quello che ho letto, non tutte le persone che hanno abusato, non tutti i sacerdoti che hanno abusato dei ragazzi si identificano come omosessuali. Quindi si comportano sessualmente, ma hanno anche tendenze eterosessuali, oppure non si identificano in modo chiaro e unicamente omosessuale. […] Alcuni direbbero che abbiamo una certa percentuale di omosessuali tra il clero, questo è chiaro ora e non abbiamo bisogno di negarlo».
Il problema si sposta quindi nell'ingresso ai seminari, e «la Chiesa», ricorda padre Zollner, «ha linee guida in materia e dice che le persone che hanno tendenze omosessuali profondamente radicate non dovrebbero essere ammesse al seminario o all'ordinazione. La domanda è: cosa significa “tendenza radicata"? Questo non è definito, certamente non dalla scienza. Quindi c'è un momento di discrezione e bisogna riconoscere che ci sono persone omosessuali, o che si definiscono tali, dentro il clero. Non c'è bisogno di negarlo perché è chiaro all'esterno. La domanda più importante è: come vivono? Penso che un prete omosessuale debba affrontare più sfide di un eterosessuale, se non altro per il fatto che deve difendere una dottrina secondo cui l'omosessualità non è normale».
C'è quindi una zona grigia per cui potrebbe valere la regola che papa Francesco ha indicato parlando ai vescovi italiani: «Nel dubbio, meglio che [gli omosessuali] non entrino in seminario».
Lorenzo Bertocchi
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In una lunga intervista al «Sole 24 Ore» il Pontefice si occupa senza risparmiarsi di lavoro, denaro, ambiente e immigrazione Non una sillaba sul caso che scuote il mondo cattolico. Ormai la strategia del silenzio fa sembrare ogni altro discorso un diversivo.Il gesuita esperto di protezione minori: «Il dossier di Carlo Maria Viganò? Vale la pena di indagare».Lo speciale contiene due articoli Il Papa concede la sua prima intervista a un giornale economico, lo fa con Il Sole 24 Ore, e affronta temi della dottrina sociale che hanno a che fare con lavoro, finanza, ambiente e migranti senza, ovviamente, fare cenno ai problemi che in questi giorni stanno occupando la cronaca sulla Chiesa. Nessuna domanda sul caso Viganò e sugli abusi del clero negli Stati Uniti, anche perché su questo Francesco ha detto di voler rispondere con il silenzio (per ora). Non sappiamo quando l'intervista sia stata concessa e i dietrologi potrebbero pensare a una strategica virata su temi diversi per allontanare una morsa sempre più pressante, ma il Papa al giornale di Confindustria non poteva che parlare di economia. I «soldi non si fanno con i soldi», dice Francesco al direttore Guido Gentili. «I soldi, quelli veri, si fanno con il lavoro. È il lavoro che conferisce dignità all'uomo non il denaro». Così il Papa ripete un caposaldo della dottrina sociale cattolica che pone l'attenzione primaria alla persona e non alle cose. Cita ampiamente il suo predecessore Paolo VI, «che avrò la gioia di proclamare santo il prossimo 14 ottobre», e dice che «lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere autentico sviluppo, deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l'uomo». In una sorta di sommario mette sul tavolo ciò che a suo parere serve per lottare contro l'idolo denaro: «La distribuzione e la partecipazione alla ricchezza prodotta, l'inserimento dell'azienda in un territorio, la responsabilità sociale, il welfare aziendale, la parità di trattamento salariale tra uomo e donna, la coniugazione tra i tempi di lavoro e i tempi di vita, il rispetto dell'ambiente, il riconoscimento dell'importanza dell'uomo rispetto alla macchina e il riconoscimento del giusto salario, la capacità di innovazione sono elementi che tengono viva la dimensione comunitaria dell'azienda». Se non si segue questa ricetta, si va incontro a quella che il Papa chiama «cultura dello scarto», dove l'escluso «non è sfruttato ma completamente rifiutato». L'etica giusta, spiega Francesco, «tende al superamento della distinzione rigida tra realtà votate al guadagno e quelle improntate non all'esclusivo meccanismo dei profitti, lasciando un ampio spazio ad attività che costituiscono e ampliano il cosiddetto terzo settore». In proposito va notato che Benedetto XVI nella sua enciclica sociale Caritas in veritate metteva però in guardia da un utilizzo semplicistico del termine etica in economia: serve «un valido criterio di discernimento», scriveva papa Ratzinger, poiché l'aggettivo «etico», se «adoperato in modo generico, si presta a designare contenuti anche molto diversi, al punto da far passare sotto la sua copertura decisioni e scelte contrarie alla giustizia e al vero bene dell'uomo». Un rischio da cui il cosiddetto «terzo settore» non è certo esente. Francesco ripete più volte che occorre «essere testimoni di speranza», vale per l'economia e vale anche per il fenomeno dell'immigrazione. Occorre pensare «all'umanità come a una sola famiglia» senza avere paura dei migranti, ma senza nemmeno nascondere le difficoltà dell'accoglienza. «Allarghiamo i nostri orizzonti senza consumarci nella preoccupazione del presente», esorta Francesco dalle colonne del Sole. Da parte loro, «i migranti siano rispettosi della cultura e delle leggi del Paese che li accoglie per mettere così in campo congiuntamente un percorso di integrazione e per superare tutte le paure e le inquietudini». In quanto ai governi, «trovino modalità condivise per dare accoglienza dignitosa a tanti fratelli che invocano aiuto. Si può ricevere un certo numero di persone, senza trascurare la possibilità di integrarle e sistemarle in modo dignitoso. È necessario avere attenzione per i traffici illeciti, consapevoli che l'accoglienza non è facile». «Guadagnarsi il pane è motivo di orgoglio», dice Francesco a Gentili. È il lavoro che «crea dignità, i sussidi, quando non legati al preciso obiettivo di ridare lavoro e occupazione creano dipendenza e deresponsabilizzano». Questo vale anche per i migranti economici, per i quali il Papa auspica che «molti imprenditori e ad altrettante istituzioni europee a cui non mancano genialità e coraggio, potranno intraprendere percorsi di investimento, nei loro Paesi, in formazione, dalla scuola allo sviluppo di veri e propri sistemi culturali e, soprattutto in lavoro». Lorenzo Bertocchi<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/ma-il-papa-si-mette-a-parlare-di-economia-2602904308.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="si-allunga-la-lista-degli-stati-usa-sulle-tracce-dei-pedofili-nel-clero" data-post-id="2602904308" data-published-at="1765272859" data-use-pagination="False"> Si allunga la lista degli Stati Usa sulle tracce dei pedofili nel clero Nello stato di New York procede l'indagine civile sulle risposte della Chiesa alle accuse di molestie. Il procuratore generale di New York, Barbara Underwood, ha ordinato a tutte e otto le diocesi cattoliche dello stato di consegnare i documenti in loro possesso relativi allo scandalo della pedofilia del clero. «Il rapporto del gran giurì della Pennsylvania», ha dichiarato la Underwood, «ha gettato luce su atti incredibilmente depravati da parte del clero cattolico, assistiti da una cultura di segretezza e copertura da parte delle diocesi. Le vittime di New York hanno diritto di essere ascoltate e noi faremo il possibile, per quanto sta nei nostri poteri, per dar loro la giustizia che meritano». Le inchieste della giustizia civile si stanno moltiplicando, perciò potrebbero arrivare nuove sorprese a colpire la Chiesa degli Stati Uniti. Anche per questo il memoriale dell'ex nunzio Carlo Maria Viganò, invece di essere derubricato a mossa politica contro papa Francesco potrebbe diventare l'occasione per fare chiarezza e recuperare credibilità. In un certo senso ne è convinto anche padre Hans Zollner, gesuita tedesco, professore alla Università Gregoriana e membro della pontificia commissione per la protezione dei minori. Intervistato dall'australiano The Catholic Weekly, ha detto che «sì, vale la pena di indagare». Molte delle considerazioni emerse in questi giorni «mettono alla prova la credibilità [del dossier Viganò]», ma «ci sono molte domande aperte». Di fronte a queste, dice ancora Zollner, «spero, come tutti noi, che il Papa o la Santa Sede risponderanno». La necessità di fare chiarezza sulla testimonianza di Viganò aumenta sulla scorta delle indagini civili. «Abbiamo esaminato il rapporto della giuria della Pennsylvania», ha detto Lisa Madigan, procuratore generale dell'Illinois, «che identifica almeno sette sacerdoti con connessioni con l'Illinois. L'arcidiocesi di Chicago ha accettato di incontrarmi. Ho intenzione di raggiungere le altre diocesi dell'Illinois per avere la stessa conversazione e mi aspetto che i vescovi siano d'accordo e cooperino pienamente». La stessa cosa sta accadendo nel Missouri e c'è un'indagine della polizia aperta a Cheyenne, Wyoming. «Negli Stati Uniti», ha dichiarato il gesuita esperto vaticano del problema abusi, «abbiamo ora un dibattito molto forte, una grande e feroce discussione tra liberali e conservatori che va avanti da molto tempo. Ma dopo la lettera di Viganò, è un problema che riguarda tutta la Chiesa». Gli abusi vengono perpetrati sia in ambienti progressisti che in quelli cosiddetti conservatori, ha spiegato Zollner, e da entrambe le parti abbiamo persone che vogliono superare questa piaga, perciò l'esplosione del caso Viganò potrebbe creare una sorta di «ponte in favore della creazione di una Chiesa più sicura per i bambini». Posto di fronte agli esiti di alcune indagini realizzate negli Stati Uniti, in particolare al dato che rivela come l'81% dei casi di abusi si realizza nei confronti di maschi adolescenti, padre Zollner affronta anche il problema dell'omosessualità nel clero cattolico. «Direi che l'omosessualità prima di tutto non porta automaticamente a comportamenti offensivi, questo è chiaro. E aggiungerei che dalla mia esperienza e da quello che ho letto, non tutte le persone che hanno abusato, non tutti i sacerdoti che hanno abusato dei ragazzi si identificano come omosessuali. Quindi si comportano sessualmente, ma hanno anche tendenze eterosessuali, oppure non si identificano in modo chiaro e unicamente omosessuale. […] Alcuni direbbero che abbiamo una certa percentuale di omosessuali tra il clero, questo è chiaro ora e non abbiamo bisogno di negarlo». Il problema si sposta quindi nell'ingresso ai seminari, e «la Chiesa», ricorda padre Zollner, «ha linee guida in materia e dice che le persone che hanno tendenze omosessuali profondamente radicate non dovrebbero essere ammesse al seminario o all'ordinazione. La domanda è: cosa significa “tendenza radicata"? Questo non è definito, certamente non dalla scienza. Quindi c'è un momento di discrezione e bisogna riconoscere che ci sono persone omosessuali, o che si definiscono tali, dentro il clero. Non c'è bisogno di negarlo perché è chiaro all'esterno. La domanda più importante è: come vivono? Penso che un prete omosessuale debba affrontare più sfide di un eterosessuale, se non altro per il fatto che deve difendere una dottrina secondo cui l'omosessualità non è normale». C'è quindi una zona grigia per cui potrebbe valere la regola che papa Francesco ha indicato parlando ai vescovi italiani: «Nel dubbio, meglio che [gli omosessuali] non entrino in seminario». Lorenzo Bertocchi
Xi Jinping (Ansa)
I dati delle Dogane cinesi, pubblicati l’8 dicembre, spiegano tutto. A novembre l’export della Cina è balzato del 5,9%, l’import è salito dell’1,9%, e il surplus mensile ha raggiunto 111,68 miliardi di dollari. Nei primi undici mesi dell’anno il surplus ha superato i mille miliardi, con un aumento del 22,1% rispetto al 2024. Numeri che indicano una Cina ancora in grado di muoversi con agilità nelle rotte globali. Con gli Stati Uniti, però, la situazione è opposta. Le esportazioni verso il mercato americano sono crollate del 28,6% a 33,8 miliardi, lontane dai 47,3 miliardi dell’anno precedente. I dazi restano al 47,5% medio sui prodotti cinesi. Una barriera altissima. Inevitabile che le aziende cinesi devino le vendite verso altri mercati.
Ed è qui che scatta l’irritazione di Trump. L’Europa assorbe ciò che l’America respinge. Lo scorso mese il flusso verso l’Ue infatti è cresciuto del 14,8%, secondo quanto riporta la Reuters. Un trend già evidente nel 2024, quando le esportazioni cinesi verso l’Europa avevano superato i 516 miliardi di dollari. L’Europa diventa così la valvola di compensazione della Cina. Quella che permette a Pechino di mantenere attivo il motore dell’export anche mentre gli Stati Uniti montano barriere.
Per Trump questa dinamica non è un incidente collaterale. È un problema strategico. Lui vede la scena in termini di competizione commerciale globale. Se gli Stati Uniti chiudono il loro mercato a un concorrente, lo fanno per ridurre la capacità di quel concorrente di crescere. Ma se un altro grande mercato, come l’Europa, raccoglie tutto ciò che l’America respinge, l’effetto dei dazi si diluisce. Washington alza un muro. Bruxelles costruisce un ponte. Risultato: il traffico scorre, solo spostandosi di qualche centinaio di chilometri.
È qui che si accende il Trump imprenditore. Nella sua visione, l’Europa si comporta come un «free rider commerciale»: beneficia del confronto tra Stati Uniti e Cina senza pagarne il costo politico. Acquista prodotti più economici, vede scendere i prezzi al consumo, non alza barriere, non si espone. In pratica, mantiene la Cina in piedi mentre gli Stati Uniti cercano di metterla alle corde. Da questa lettura derivano parte dei suoi attacchi sempre più duri verso Bruxelles. Non è un giudizio culturale sul Vecchio Continente. È una reazione da uomo di affari che vede i propri strumenti perdere potenza. E che percepisce l’Europa come un competitor passivo-aggressivo: non attacca, ma sottrae efficacia. Non sceglie il blocco americano, ma ne usa i risultati per garantirsi prezzi migliori. Il ragionamento di Trump si muove lungo due assi. Primo: la Cina va fermata. Secondo: nessun grande mercato deve aiutare Pechino a compensare il colpo. L’Europa lo sta facendo, anche se non dichiaratamente. Per questo, agli occhi di Trump, diventa un bersaglio. Non principale. Ma necessario. La pressione verso Bruxelles è un modo per riprendere il controllo del campo di gioco. Per chiudere anche la seconda uscita di sicurezza cinese. Per impedire che l’export deviato continui a trovare strade aperte.
Intanto la Cina procede. Il Politburo punta su più domanda interna, politiche fiscali attive e una monetaria accomodante. Ma la vera forza resta l’export. Le merci scorrono, cambiano rotta, si adattano. La guerra dei dazi non ha fermato la Cina. Ha ridisegnato le mappe. E nella nuova mappa l’Europa è il porto dove attraccano sempre più container cinesi. Trump, nel suo linguaggio pragmatico, vede esattamente questo. E reagisce. Perché per lui la partita non è ideologica. È una questione di affari. E in questa partita, la Cina resta l’avversario più importante.
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Ursula von der Leyen (Ansa)
Di recente, al coro di Trump e Musk si è unito uno che da molti è ritenuto il maggior banchiere al mondo, Jamie Dimon, secondo cui «l’Europa ha dei seri problemi. Ha scoraggiato le imprese, gli investimenti e l’innovazione». La preoccupazione principale di Dimon è che la lentezza della burocrazia e l’eccessiva regolamentazione abbiano soffocato la crescita, causando una riduzione della quota di Pil mondiale dell’Europa. Il banchiere sostiene che un mercato europeo snello e integrato sia essenziale per l’innovazione e la forza globale. Il punto è che un sondaggio di due realtà importanti come Ert e The Conference Board dà ragione a un «big» come Dimon. Stando a un sondaggio svolto tra il 16 e il 31 ottobre 2025 la fiducia degli amministratori delegati in Europa ha smesso di precipitare, ma resta in territorio negativo, mentre le motivazioni per investire nel continente continuano a diminuire rispetto agli Stati Uniti e ad altre aree del mondo.
La «Measure of Ceo Confidence for Europe» è a quota 44, dopo essere crollata a 27 nella primavera 2025 in concomitanza con le tensioni commerciali tra Ue e Usa. Il livello 50 rappresenta la neutralità: 44 implica che il sentiment è ancora chiaramente negativo. È la prima volta da quando esiste questa rilevazione che la fiducia dei ceo rimane sotto 50 per tre edizioni consecutive, segnalando un pessimismo che non è più solo ciclico.
Nello studio si sottolinea come il divario tra Europa e resto del mondo si stia ampliando. Le condizioni di business al di fuori del continente migliorano, mentre in Europa la traiettoria resta discendente, soprattutto per la debolezza delle prospettive di investimento e occupazione. In altri termini, il sondaggio registra un disallineamento crescente tra il potenziale percepito all’estero e quello disponibile nel mercato europeo.
Il punto più sensibile del report riguarda la geografia dei piani di investimento. Per l’Europa, solo una piccola quota di ceo intende investire più di quanto previsto sei mesi fa: appena l’8% dichiara di voler aumentare gli investimenti rispetto ai piani originari, mentre oltre un terzo ha ridotto i programmi o messo in pausa le decisioni in merito. Gli Stati Uniti, al contrario, registrano una dinamica opposta: il 45% dei ceo ha rivisto i propri piani per investire nel mercato americano più di quanto inizialmente previsto.
Il problema è che un anno fa, circa l’80% dei leader Ert esprimeva entusiasmo per le raccomandazioni di Mario Draghi sulla competitività europea, con l’idea che una loro piena implementazione avrebbe riportato gli investimenti verso l’Ue. Oggi la narrativa è capovolta: il 76% dei ceo afferma di aver visto poco o nessun impatto positivo dalle iniziative europee per tradurre in pratica le raccomandazioni Draghi e Letta su semplificazione regolatoria, completamento del mercato unico, politica di concorrenza e costo dell’energia.
All’interno dello studio, la Commissione europea ottiene un giudizio relativamente meno negativo: circa il 30% dei ceo riconosce progressi, ma il 60% si dichiara deluso. Il Parlamento europeo è percepito in modo ancora più critico, e i governi nazionali risultano i peggiori: il 74% dei ceo giudica «insufficiente» la performance degli Stati membri nel dare seguito alle raccomandazioni di Draghi e Letta. L’indagine insiste su un punto non banale: il tradizionale riflesso di imputare i ritardi a «Bruxelles» non regge più. Secondo i ceo, il collo di bottiglia principale è costituito dai governi nazionali riuniti in Consiglio, che rallentano o annacquano le riforme in nome di interessi domestici di breve periodo.
Viene, insomma, da sperare che le profezie del duo Trump-Musk non siano corrette. Secondo il presidente degli Stati Uniti, «nel giro di vent’anni l’Europa è destinata a sparire dalla scena», mentre per il miliardario ed ex vertice del Doge, il Dipartimento dell’efficienza governativa, creato durante il secondo mandato Trump, l’Unione europea «andrebbe smantellata, restituendo la piena sovranità ai singoli Stati, così che i governi tornino a rappresentare davvero i propri cittadini».
Musk ha messo nero su bianco queste posizioni in un post su X, pubblicato poche ore dopo la maximulta da 120 milioni di euro comminata da Bruxelles alla sua piattaforma per violazione del regolamento Ue che, da febbraio 2024, impone alle big tech nuovi obblighi di trasparenza e responsabilità sui contenuti. Si tratta della prima sanzione nell’ambito del Digital Services Act europeo. Inoltre, Musk ha fatto saltare l’intero pacchetto di spazi pubblicitari utilizzato dalla Commissione europea su X, accusandola di aver sfruttato in modo improprio una falla tecnica del sistema; subito dopo ha pubblicato un post in cui l’Unione europea veniva assimilata al «Quarto Reich», accompagnato da un fotomontaggio che affiancava la bandiera con le dodici stelle a una svastica.
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Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa podcast del 9 dicembre con Carlo Cambi