L’Unicef chiede soldi per lo tsunami. L’Italia risponde: «Li hanno i Renzi»

C'è chi sceglie la rima: «Cercate quattrini? Citofonare Conticini». C'è chi si affida alla prosa urticante: «Soldi? Davvero volete soldi? Ma li mando a voi o direttamente al cognato di Renzi?». Chi lo dice con insulti: «Cialtroni», «Buffoni» (per restare a quelli riferibili). Chi lo dice in modo educato: «Volete soldi? Ci sono 6 milioni di euro. Dovete solo costituirvi parte civile. Fate presto». Chi dà consigli: «Cambiate nome: in Italia non beccate più un euro». Chi la butta sulla fiducia: «Non siete più credibili», «Mai più un centesimo», «Per anni vi ho fatto donazioni, ora basta». Chi è lapidario: «Semplice: niente denuncia, niente donazione». Chi si dichiara pronto a fare offerte, ma solo con altre associazioni: «Chiunque è più affidabile di voi». Chi non si fida invece di nessuno: «Piuttosto vado io a piedi laggiù». E chi anziché risparmi, offre interrogativi: «Volete i miei soldi? E perché mai? C'è qualche altro parente di politico che deve farsi la villetta?».
Si è trasformata in un boomerang spaventoso la campagna di raccolta offerte lanciata da Unicef Italia per aiutare le vittime dello tsunami nel Sud Est asiatico: speravano di arrivare ai fondi, come sempre, invece sono arrivati a fondo. In un amen. Appena lanciato il primo accorato appello, alla vigilia di Natale, infatti, è subito scattata la reazione dei potenziali sottoscrittori: «Se non denunciate l'appropriazione indebita dei 6 milioni di euro, col cazzo che faremo una donazione», commenta Scarlett. Hastag: mavaffa. Al secondo appello («salgono a 281 le vittime, parla il portavoce Andrea Iacomini»), arriva secca la replica di Luigi: «Avete chiesto ai parenti di Renzi?». Unicef Italia s'indispettisce, alza i toni, accusa (a torto) i mancati donatori di fare «battute sui morti» e di «essere calunniatori». Così in rete si scatena il finimondo. Tutti contro il gigante delle Nazioni Unite. Una valanga di tweet il cui senso è riassunto da Patrick: «Mi spiace per le vittime, faremo offerte attraverso altri canali. Di voi non ci fidiamo più». Più che Unicef, Uniceffone, insomma. Da lasciar storditi.
Diceva un saggio che i ricchi fanno la beneficenza, ma anche la beneficenza fa ricchi. E quindi dopo anni di manifestazioni spacciate come solidarietà pere fare business, dopo missioni Arcobaleno finite a finanziare gli sprechi (nella migliore delle ipotesi), fondi della Croce Rossa mal utilizzati e presunti benefattori arricchitisi a dismisura, è naturale che gli italiani chiedano di sapere con precisione che fine fanno i loro soldi. Quando si aprono sottoscrizioni mostrando la foto di un bambino che soffre, è ovvio: tutti si commuovono e tutti vorrebbero fare qualcosa. Il problema è: i soldi donati con le migliori intenzioni finiscono davvero a quel bambino? O vengono dirottati altrove? Per cosa vengono utilizzati? Magari per finanziare strutture elefantiache? O i maxi stipendi dei dirigenti? O i lussi dei funzionari? E magari anche degli arricchimenti di privati, per esempio i parenti di qualche politico importante?
Non c'è niente di peggio che rubare approfittando della generosità delle persone. Perciò, su questi temi, occorrerebbe la massima trasparenza. E invece, come è noto, c'è un'inchiesta della Procura di Firenze che non può andare avanti perché l'Unicef non presenta querela. Nell'inchiesta è coinvolto il cognato di Renzi, Andrea Conticini, accusato con i suoi due fratelli di aver intascato 6,6 milioni di dollari che erano stati offerti da donatori generosi per aiutare i bambini in Africa. Ma anziché aiutare i bambini in Africa quei soldi (per buona parte arrivati proprio dall'Unicef) sarebbero finiti in case, ville, altri beni privati e perfino finanziamenti di attività legate alla famiglia Renzi, come la Eventi 6 o altre società che hanno sponsorizzato la Leopolda. È vero? Non è vero? Per saperlo bisognerebbe che l'inchiesta andasse avanti. Ma per andare avanti c'è bisogno della querela dell'Unicef, perché per una riforma voluta (guarda caso: dal governo Gentiloni), in casi come questi non si può procedere d'ufficio.
Perché l'Unicef non presenta querela? Le spiegazioni fornite fin qui dai dirigenti dell'organizzazione sono piuttosto fumose, e non convincenti, come dimostra la reazione generale alla nuova raccolta fondi. Le grandi strutture che vivono sulle beneficenza, come appunto l'Unicef, già presentano molti aspetti discutibili: i costi di funzionamento assorbono buona parte delle offerte. In genere vengono considerati normali quando sono attorno al 30%: ciò significa che, se tutto va bene, ogni 100 euro che si offrono, 30 finiscono non ai bambini, ma ai burocrati della solidarietà. E questo è considerato un successo. Se poi ci si aggiunge che l'Unicef, anziché aiutare direttamente le persone travolte dalla tragedia, si affida ad altre organizzazioni (come quella dei Conticini), che a loro volta trattengono parte delle offerte (in modo lecito) e volte (secondo le accuse della Procura) ne dirottano pure un po' sui conti privati (in modo illecito), alla fine la domanda è legittima: ai bambini che soffrono che arriva? Le briciole? E chi vuole davvero aiutare quei bambini, non è forse meglio che segua altre strade?
Per la verità Unicef Italia avrebbe la possibilità di spazzare via almeno un po' di questi dubbi. È ancora in tempo, infatti, per presentare querela e dare il via libera all'inchiesta della Procura di Firenze. I termini non sono scaduti. Lo faccia subito, dunque. I membri più noti del suo consiglio direttivo, da Walter Veltroni a Giovanni Malagò, più volte tirati in ballo in questi mesi, escano dal torpore e si facciano sentire. Chiedano la verità sui quei 6,6 milioni di dollari, pretendano chiarezza, e allora forse si potrebbe ricostruire un filo sottile di fiducia con gli aspiranti donatori. Che sono sempre tantissimi. Che non vedono l'ora di aiutare il prossimo. Ma che sono stanchi di raccolte fondi trasformate in prese per i fondelli. «Chi non denuncia è complice», accusava per esempio uno dei tanti tweet di queste ore, traboccanti di sfiducia per l'Unicef. Mentre altri si affrettavano a spiegare le ragioni di tanta sfiducia: nella beneficenza, dicevano, sarebbe importante per una volta provare a far tornare i conti. Anziché far tornare i soliti Conticini.






