2023-07-18
L’unica vera soluzione: i magistrati responsabili civilmente
Il consiglio superiore della magistratura (Ansa)
Lo sfogo di Marina Berlusconi contro le indagini post mortem sul Cavaliere è sacrosanto: ma per tagliare le unghie ai pm d’assalto non serve la separazione delle carriere. È necessario, invece, ripristinare la responsabilità civile dei magistrati.Difficile dare torto a Marina Berlusconi, che ieri con una lettera al Giornale ha denunciato un accanimento giudiziario nei confronti di suo padre anche dopo la morte. I magistrati lo hanno indagato per trent’anni, sottoponendolo a 35 processi e ottenendo contro di lui una sola condanna. Dei 40 capi di imputazione che gli sono stati contestati, uno è rimasto in piedi ed è stato riconosciuto da una sentenza definitiva: frode fiscale. Tralascio i dubbi sulla condanna e le polemiche che ne sono seguite e mi fermo a rilevare che in tre decenni il Cavaliere ha avuto nove assoluzioni, sette prescrizioni e ha goduto di due amnistie. Oh, certo, qualcuno dirà che sul risultato ha influito il fatto che Berlusconi fosse presidente del Consiglio e qualche volta abbia tentato, magari riuscendovi, di sottrarsi a un pronunciamento sfavorevole con una legge ad personam che ne attenuasse le responsabilità. Di lui si è detto e scritto che invece di difendersi nei processi si sia difeso dai processi, ovvero abbia cercato di evitarli in ogni modo, fosse anche cambiando le leggi. Per quanto mi riguarda, si è trattato di legittima difesa contro indagini a dire poco strampalate. E poi, gran parte dei tentativi di proteggersi con nuove norme sono andati a vuoto. Basti ricordare il cosiddetto lodo Alfano, che avrebbe dovuto creare uno scudo per le alte cariche dello Stato durante il loro mandato, come esiste in altri Paesi e di cui già gode il presidente della Repubblica (ricordate i fondi neri del Sisde? Bastò un «non ci sto» di Oscar Luigi Scalfaro per tappare la bocca agli accusatori e indurre i magistrati ad archiviare). La Corte costituzionale smontò tutto, fra le gioia della sinistra che così poté continuare a beneficiare della guerra giudiziaria al Cavaliere.Di certo, i tentativi di arginare con nuove leggi le accuse non sono serviti di fronte a quelle di mafia. Infatti, indagini infamanti lo hanno inseguito per tutta la sua vita politica. Già poco dopo la sua discesa in campo e la sua vittoria alle elezioni, la Procura di Palermo lo mise nel mirino con l’accusa di aver intrattenuto rapporti con la mafia. Pur essendo poco nota, l’inchiesta fu tenuta aperta per lungo tempo, e anche se in quel periodo si parlò esclusivamente dell’avviso di garanzia che i pm di Milano gli fecero recapitare a Napoli durante il G7, per qualche anno il fascicolo che ipotizzava il concorso esterno in associazione mafiosa è rimasto appeso sulla sua testa come una spada di Damocle. Archiviata questa indagine ne seguì un’altra, questa volta a Firenze, per strage. Il nome di Silvio Berlusconi non venne a galla, perché i pm iscrissero lui e Dell’Utri come Autore 1 e Autore 2, manco fossero stati loro, la notte del 27 maggio del 1993, a mettere la bomba che fece cinque morti e 48 feriti. L’inchiesta venne archiviata dopo un po’, ma in seguito toccò ai magistrati di Caltanissetta, competenti per le stragi di Palermo, riaprirla. Altri accertamenti, altre testimonianze e poi, anche qui, si arrivò all’archiviazione. La faccenda a questo punto avrebbe potuto dirsi conclusa ma, come in un brutto sequel cinematografico, ecco rispuntare nel 2008 un’altra indagine. La Procura di Firenze, dopo aver archiviato l’inchiesta del 1997, a distanza di dieci anni decise di riaprirla sulla base delle dichiarazioni di un pentito, tale Gaspare Spatuzza, che prima di incontrare la redenzione sulla via delle carceri si era fatto un certo nome come sicario della cosca di Brancaccio. Le rivelazioni di «u Tignusu», questo il soprannome del killer, però non portarono a nulla e dunque le indagini fecero la fine delle precedenti. Tutto finito, dunque? Neanche a parlarne. Per la terza volta, anche da morto, i pm scavano contro Berlusconi e l’altro ieri hanno spedito gli ufficiali di polizia giudiziaria a rivoltare la casa di Marcello Dell’Utri, che, pur avendo scontato la sua pena per concorso esterno in associazione mafiosa (sette anni) e avendo ottenuto un’assoluzione nell’incredibile processo della cosiddetta trattativa Stato-mafia, ancora non viene lasciato in pace. Messa da parte l’idea che lui e il Cavaliere, nella notte di trent’anni fa, siano andati a Firenze per mettere una bomba e destabilizzare il governo per poi farne uno loro, ora si indaga ipotizzando l’accusa che l’attentato fosse una cortesia della mafia nei confronti del futuro capo di Forza Italia.Per quanto mi riguarda, in tutta questa vicenda ho capito tre cose. La prima è che i pm inseguono il fantasma dei finanziamenti mafiosi al Cavaliere perché non riescono a spiegarsi l’origine delle sue fortune. I flussi di cassa non sarebbero stati registrati nei bilanci degli anni Settanta e sui conti correnti sarebbero affluiti molti quattrini in contanti. Non serve un investigatore per capire che in quegli anni molte operazioni erano fatte con versamento di denaro liquido. Se Gianni Agnelli vendendo auto ha potuto accumulare all’estero un patrimonio di miliardi (di euro) in nero, come ha dimostrato la figlia Margherita con le sue cause, un imprenditore edile secondo voi non poteva accumulare miliardi (di lire) al riparo dal fisco? Altro che mafia, Berlusconi cinquant’anni fa fece quello che fecero tutti gli imprenditori di fronte a uno Stato rapace.La seconda cosa che ho capito è che perfino i magistrati non capiscono più niente nelle accuse contro il Cavaliere. Nella sentenza Stato-mafia si dice che Berlusconi pagò le cosche e assunse Dell’Utri per proteggere la sua famiglia e le sue attività. Ma se il suo gruppo era cresciuto grazie alla mafia, anzi era della mafia, che bisogno aveva di proteggersi? Se i soldi erano di Stefano Bontade, dei Graviano, degli Spatuzza e via criminalizzando, che bisogno c’era di versare il pizzo? L’ultima cosa che ho capito la devo ad Antonio Ingroia, il pm che per anni indagò sulla trattativa Stato-mafia. Oltre ad avermi detto in un'intervista di qualche tempo fa che in quella faccenda il Cavaliere era vittima e non colpevole, perché sarebbe stato minacciato per concedere benefici alle cosche, l’ex magistrato (appesa la toga di procuratore ora fa l’avvocato), di recente, ai margini di un dibattito tv, mi ha confidato: «Nordio insiste con la separazione delle carriere, ma quella non serve a nulla. La sola cosa da fare è la responsabilità civile dei magistrati, nel senso che chi sbaglia paga, ma di tasca propria». Ecco, per una volta mi sono trovato d’accordo con Ingroia e la cosa mi è tornata in mente dopo aver letto la lettera di Marina Berlusconi.
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