2021-10-17
L’Ue canta le lodi del suo Green bond ma la finanza verde sta appassendo
Ursula von der Leyen (Ansa)
La prima emissione della Commissione è andata bene, però sui mercati compaiono segnali di scetticismo verso i titoli legati alla sostenibilità. Mentre la concretizzazione del Recovery plan mostra tutti i suoi limiti«A ruba il primo Euro green bond». Questo il trionfalistico titolo di apertura del Sole 24 Ore di mercoledì scorso, riferito alla prima emissione di obbligazioni da parte della Commissione guidata da Ursula von der Leyen destinate a finanziare investimenti «green»: 12 miliardi, con scadenza 2037, piazzati dalla Commissione. La domanda è stata circa undici volte superiore all’offerta, e ha spuntato un rendimento dello 0,45%. Ovvero di 32 punti base superiore al corrispondente titolo tedesco e 5 punti base in meno rispetto all’omologo titolo francese. La Commissione ha in programma ulteriori collocamenti per complessivi 250 miliardi, candidandosi a diventare il più grande emittente mondiale di titoli di questa categoria. Si tratta di bond finalizzati a finanziare investimenti Esg (Enviromental, social, governance) che si caratterizzano per la specifica finalità di tutela dell’ambiente, attenzione all’impatto sociale e regole di buona gestione. La Commissione si è dotata di uno specifico quadro regolamentare per le caratteristiche degli investimenti Esg e dei titoli di debito emessi. Gli investitori hanno così la garanzia che le obbligazioni finanzieranno effettivamente spese con un positivo contributo alla transizione ecologica.Considerato che tutti gli Stati membri hanno dovuto inserire nei rispettivi Recovery plan, a pena di bocciatura, una quota di investimenti destinata alla transizione ambientale non inferiore al 37% del totale, è comprensibile che la Commissione spinga su questa leva. Ma sono tanti i numeri che non tornano. Innanzitutto questa emissione ha messo in evidenza che sta cominciando a scemare l’attrattività per gli investitori di questa particolare tipologia di titoli. Sia Bloomberg sia il Financial Times hanno sottolineato che gli investitori non sono più disposti a pagare alcun premio all’emittente, cioè accettare un rendimento più basso rispetto ad analoghi titoli «convenzionali». Si è mosso perfino il prestigioso storico e professore di economia Adam Tooze per rilevare che il premio («greenium») di questi titoli si è ridotto sostanzialmente a zero, dai quasi 10 punti base del 2020. «Ciò che conta è l’affidabilità e la solidità dell’emittente», fanno sapere dalle sale trading delle più grandi case di investimento mondiali. Un altro elemento del progressivo sgonfiarsi di questa bolla è l’andamento delle emissioni. Una ricerca dell’Institute for international finance apparso sul Financial Times ha mostrato che il flusso trimestrale verso questi titoli, dopo un picco di oltre 150 miliardi nel primo trimestre 2021, nel terzo trimestre si è attestato intorno a 100 miliardi. Se non si riesce a spuntare un tasso più basso, perché continuare a emettere titoli gravandosi di pesanti vincoli?, si saranno chiesti i soggetti emittenti.Accertato che gli investitori non sono così tonti da farsi bastare l’etichetta «green» per accettare un tasso più basso sui bond, resta il problema più ampio costituito dal rendimento delle emissioni eseguite finora dalla Commissione. A partire dal 15 giugno, per finanziare il Next generation Eu la Commissione ha emesso - lungo scadenze che vanno da 3 mesi a 30 anni - bond per 82,5 miliardi, con rendimenti crescenti dal -0,74% del 3 mesi allo 0,73% del titolo trentennale. Lo spread sull’omologo titolo tedesco si è mosso tra i 21 punti base del titolo a 7 anni emesso il 14 settembre e i 53 del ventennale emesso il 13 luglio.Gli investitori sono concordi nel definire questo maggior rendimento rispetto al Bund come un vero e proprio regalo, ed è questo il motivo per cui accorrono a ogni emissione. Tale rendimento è ingiustificato rispetto al profilo di rischio del titolo, che gode della garanzia pro quota di tutti gli Stati membri e che risulterebbe coperto dalla garanzia della sola Germania, anche nell’irrealistico caso di default di tutti gli altri Paesi membri. Un titolo a rischio zero, che però costa alla Commissione più del Bund perché il mercato è relativamente poco liquido. Non è infatti facile in poche settimane costituire un mercato di titoli di debito come quello italiano o tedesco, le cui dimensioni si misurano nell’ordine delle migliaia di miliardi di euro: questo «difetto» ha un costo che si paga a favore degli investitori.Ma c’è un altro macigno sulla strada del Ngeu. Partito con la roboante cifra di 750 miliardi, è oggi fermo a 495, perché solo sette Paesi (tra cui l’Italia) hanno richiesto i prestiti. Inoltre, dopo sei mesi dal termine del 30 aprile fissato per l’invio dei Recovery plan nazionali, su 27 Stati membri, 26 hanno presentato i rispettivi piani nazionali, e 22 sono stati approvati dalla Commissione. Sedici tra questi ultimi hanno ricevuto già l’anticipo del 13% (per complessivi 51,5 miliardi) e sei sono in attesa. Ci sono quindi cinque «desaparecidos»: l’Olanda non ha presentato il piano; Polonia, Ungheria e Svezia sono ancora in attesa dell’approvazione. La Bulgaria l’ha presentato venerdì scorso.Se a questo aggiungiamo che l’effettivo pagamento dei fondi Ngeu è dilazionato lungo un arco temporale di dieci rate semestrali, tutte pesantemente condizionate al rispetto di centinaia di obiettivi e riforme, si comprendono i dati che testimoniano il modesto impatto macroeconomico di questo strumento. La montagna ha partorito il topolino ed è pure costoso e inefficiente.
Il ministro degli Interni tedesco Alexander Dobrindt con il cancelliere Friedrich Merz (Ansa)
Massimo Cacciari (Getty Images)