2023-02-05
Luca Ragagnin: «Il silenzio degli alberi mi dà sollievo»
Nel riquadro, Luca Ragagnin (IStock)
Lo scrittore e paroliere: «Non sono mai stato un viaggiatore di paesaggi, rimasti dei sogni rimandati. Ho sempre esplorato le grandi città a caccia delle storie del passato, letterarie e musicali. Ma amo il mistero delle piante, sono amiche preziose».Luca Ragagnin (Torino, 1965) è un paroliere, è poeta, saggista, romanziere, drammaturgo, amante della buona musica quanto della buona letteratura. In qualità di scrittore di canzoni ha collaborato con molti artisti tra i quali Subsonica, Antonello Venditti, Bluvertigo, Totò Zingaro e Mao, in qualità di autore teatrale invece con Leo De Berardinis, Teatro della Tosse, Assemblea Teatro, Andrea Liberovici, Michele Di Mauro e Lella Costa. Tra le sue opere in versi e in prosa si ricordano Arcano 21, Agenzia Pertica, Marmo rosso, Il bambino intermittente, Anime pixel, Un amore supremo, Musica per orsi e teiere, Fabbriche Lumière, Biopsie, Granny Smith, La balbuzie degli oracoli, Il libro delle meduse, Autoritratto in vinile, Pulci, mentre insieme all’amico Enrico Remmert ha scritto libri di grande successo quali Elogio della sbronza consapevole, Elogio dell’amore vizioso, Smokiana e L’acino fuggente editi da Marsilio e Laterza. Ha ricevuto diversi premi tra i quali il Montale. Pontescuro è stato candidato al Premio Strega ed è in uscita in traduzione negli Stati Uniti. Il suo ultimo romanzo, Il bambino intermittente, viene così commentato da Dario Voltolini: «La sua vasta e perenne nevicata verbale copre e ricopre di candore un territorio che, tutto bianco, ci appare come sconfinato. Ha invece dei confini, ma noi non li avvertiamo perché Luca Ragagnin è un fuoriclasse del montaggio e il suo racconto corre, si impenna come un cavallo imbizzarrito, dilata in lunghe e molto belle pagine dialoghi di un momento, inventa a getto continuo cose, persone, situazioni, si riallaccia continuamente in sé stesso con rimandi vertiginosi messi lì sulla pagina pacatamente, tra parentesi in apparenza umili, comprime il Tempo mentre espande i singoli tempi.» Chi è Berg, il protagonista del monumentale romanzo Il bambino intermittente (Miraggi)? Come si evolve la sua figura mano a mano che il lettore procede nella lettura, e quanto c’è di autobiografico in lui?«Berg è un bambino degli anni Settanta con una vita tutto sommato ordinaria e una buona educazione; cresce da figlio unico in una famiglia divisa, ha dei genitori e dei nonni amorevoli e, crescendo, avrà amici, fidanzate e passioni travolgenti (la musica soprattutto), tutto nella norma insomma, o così parrebbe. Perché Berg ha un paio di problemi, o piuttosto dilemmi, che trasformeranno questa normalità in qualcos’altro: non riesce a interpretare oggettivamente i fatti della sua vita, ha bisogno di interpretarli a suo modo, che è un modo ovviamente aberrante, trasformativo, fatto di simbologie che lui solo può sciogliere; e per contro non riesce a percepire una propria identità definitiva, si sente in continuo slittamento verso qualcosa che sta sempre un passo oltre lui, in un “altro da sé” che percepisce come il vero sé e che non riesce mai ad afferrare. Queste due caratteristiche renderanno la sua «vita ordinaria» piuttosto imprevedibile, buffa e maldestra ma anche malinconica. C’è dell’autobiografismo (più che nei miei libri precedenti), ma anche molta invenzione. Diciamo che considero Berg un alter ego». La struttura del romanzo è costruita saltando da una situazione all’altra, da una età all’altra, potremmo dire addirittura da un’identità all’altra. Mi ha ricordato il suo esordio in prosa, Adone fatto a pezzi (1997, Amadeus), ma anche un romanzo più vicino a noi come Pontescuro (2019, Miraggi) è composto da diverse voci, da incastri che consentono al lettore di navigare in un mondo polivocale. A cosa è dovuta questa scelta, questo montaggio narrativo?«Nel caso del Bambino i salti temporali hanno a che fare con l’intento principale di Berg: preservare la memoria delle sue esperienze. Berg scrive la sua storia da adulto e quindi è normale, perché così in genere fa la memoria, saltare da un’età a un’altra, andare avanti e indietro, ingrandire a dismisura alcuni episodi e tacere su lunghi periodi. Diciamo che Berg fa quello che la memoria gli consente di fare. È una brutta bestia la memoria: è sentimentale e perciò quasi sempre difettosa e Berg ci si infila dentro con l’intento di cucirle un orlo che tenga insieme un’unità finale, cioè lui stesso. Se ci riuscirà o meno lascio al lettore deciderlo. Ora che mi ci fa pensare citando Adone fatto a pezzi, che è il mio primo libro, sin dall’inizio memoria e identità sono stati temi per me fondamentali. In quel primo libro è l’identità perduta e ricreata da zero il punto focale, mentre Pontescuro è una sorta di favola morale (ma senza giudizio) che richiedeva la presenza di molte voci e non solo umane». Nella sua poesia, nei suoi testi per canzone, e spiccatamente in questi ultimi romanzi, la natura è molto presente. Incontriamo gatti filosofi, insetti, tanti alberi, fiumi che parlano. Che cosa rappresenta la natura per lei, e poi quale natura? «La natura è una specie di sogno sempre rimandato. La guardo e la immagino dal cuore di una grande città. Poi non sono mai stato un viaggiatore di paesaggi, lo dico con rimpianto, semmai ho esplorato le città, alcune grandi città, andando sempre alla caccia delle storie del passato, storie letterarie o musicali, cercando di ricostruire da vicino alcuni momenti storici di esplosione artistica, di rottura con le tradizioni, di rinnovamento culturale. Ma la natura mi piace molto, mi dà sollievo il suo mistero che è poi il suo essere ciò che è, senza interpretazioni, senza interpolazioni. Siamo noi l’interpolazione della natura. E poi sono una persona di lunghi silenzi, la natura li asseconda, la considero un’amica preziosa». Lei è anche un bibliofilo, un divoratore di storie e libri. Ci può segnalare un romanzo poco letto o poco noto, italiano o non, che un lettore appassionato dovrebbe andare a recuperare? Magari citandone un passo…«È una domanda difficile per me. Sono entrato in una fase di letture riparatorie, diciamo così. Opere che volevo affrontare in un’altra età e che per un motivo o per l’altro ho sempre rimandato (le ultime due letture: i volumi autobiografici di Elias Canetti e i Viaggi di Gulliver di Swift). Però un contemporaneo che mi ha inchiodato alla meraviglia c’è, è un ungherese, si chiama Laszlo Krasznahorkai. In Italia sono stati tradotti cinque romanzi e una raccolta di racconti. Nella sua opera ogni elemento della narrazione è perfetto. Il primo racconto della raccolta, che s’intitola Seiobo è discesa quaggiù, pubblicata da Bompiani, inizia così: “Intorno a lui tutto si muove, fluisce, come se per una volta, una soltanto, da un mondo lontano, in qualche misteriosa maniera, sconfiggendo ogni più assurdo ostacolo, forse trascinato da una corrente profonda del fiume, fosse giunto fin qui il messaggio di Eraclito, tutto scorre, fluisce e gorgoglia l’acqua [...]”. Sta scrivendo di un airone, colto nella sua immobilità in attesa di afferrare la sua preda, in un fiume giapponese. A proposito di natura...».