2024-05-27
Luc Merenda: «Mi dicono strano perché sono vero»
Luc Merenda (Getty Images)
L’attore: «Ho lasciato il poliziesco quando ho capito che il limone era spremuto. In Francia ero così popolare che sarei potuto diventare presidente. I miei incontri in ascensore con Romy Schneider e Brigitte Bardot».Luc Merenda gioca con le parole, come con la sua vita, anzi con le sue vite, tra il Marocco, la Francia, l’America e l’Italia, dove è ritornato a vivere negli ultimi anni per riannodare i fili sospesi. Il documentario dal titolo emblematico Pretendo l’inferno, diretto da Eugenio Ercolani, riflette una stagione della sua vita, gli anni Settanta, in cui conobbe la gloria, ma respirò anche la violenza dilagante nella società.Com’è nata l’idea del documentario?«Ero partito dall’Italia nella seconda metà degli anni Ottanta con il cuore sanguinolento. Sono tornato in Francia, dove avevo delle opportunità come attore e ho fatto alcuni film e serie tv, anche di successo. Dopo Châteauvallon, se mi fossi presentato alle elezioni, sarei diventato presidente della Repubblica con la stragrande maggioranza! Cercavo un appartamento, entravo nei palazzi e il portiere mi raccontava: “Questa sta per morire, questo magari lo può affittare…”».Poi improvvisamente ha smesso di recitare.«Sono diventato antiquario, però nei momenti di gioia o di spleen mi ripetevo: “Un giorno farò un film su quest’epoca che mi ha fatto veramente essere vivo e cosciente di tante cose”». Quindi non aveva l’ambizione nel documentario di raccontare la sua vita?«No, ma di raccontare tutto quello che abbiamo vissuto politicamente e dolorosamente. Ho conosciuto Steve Della Casa, una persona di una simpatia folle che conosce tutti i miei film. A un certo punto gli ho detto: “Guarda che io ho un’idea stupenda...”. E lui: “...Di fare un film sugli anni Settanta e te”. Aveva già capito e abbiamo fatto assieme il documentario con questa prospettiva. Sono il testimone di un’epoca storica che ho vissuto dall’interno del cinema, spesso nella parte del commissario di polizia. Ovviamente per me era più facile rispetto ai veri poliziotti: mi ammazzavano e il giorno dopo ero di nuovo sul set a girare un’altra sequenza!».Che atmosfera ha respirato in quegli anni?«Appena arrivato in Italia, dopo aver fatto Sole rosso con Charles Bronson e Alain Delon, sono capitato al Number One, il celebre locale notturno, dove erano tutti fatti. Ho pensato: “Qui bisogna portarli all’ospedale”. Ho incontrato il press agent Enrico Lucherini, molto simpatico. “Ahh, chi sei tu?”. “Io sono uno che si ritrova in posti strani...”. “Fai l’attore?”. “In Francia sì”. “Che posso fare per te?”. L’agente Olga Ortiz Primus mi aveva fatto una lista di cinque registi da cui andare: Visconti, Patroni Griffi, Bolognini, Pasolini e Zeffirelli, quindi ho chiesto a Lucherini se mi poteva aiutare a incontrare Visconti, che consideravo un genio». Lucherini l’ha aiutata?«Cinque giorni dopo mi ha telefonato: “Hai l’appuntamento a via Salaria”. Luchino già non stava bene, però devo averlo colpito perché mi ha tenuto per mezz’otra. Stava preparando Ludwig, ma la parte per me era stata promessa a Marc Porel, che aveva avuto una storia con Nathalie Delon. Sono stato sul set del suo ultimo film, L’innocente: un’ambientazione stupenda, talmente espressiva che non c’era nemmeno bisogno di girare! Nessuna della troupe fiatava, parlavano tutti a bassa voce. Incroyable». Dal cinema d’autore si è ritrovato subito in un western, Così sia di Alfio Caltabiano.«Ho fatto l’unico provino della mia vita. Siccome avevo praticato la savate, la boxe francese, il produttore Turi Vasile mi ha chiesto se gli facevo vedere un colpo. Da tre metri di distanza ho dato un calcio a Caltabiano: era talmente alto che l’ho preso sulla spalla! Vasile era stupendo: due occhi celesti, i capelli bianchi, intelligente, quando ne becchi uno così nel cinema, sei a posto. La prima volta che l’ho visto, appena entrato nella stanza, ho esclamato: “Tu mi piaci”. Avrà pensato: “È scemo questo!”». Perché aveva praticato la savate?«Avevo vent’anni e volevo capire perché facevo a botte. Quando impari a menare con delle regole, poi non ci caschi più. Quando vivevo in Marocco da ragazzino, avevo imparato a dare i colpi di testa contro gli asini perché a Medina il sabato ci menavano con i ragazzi del posto e poi la domenica andavamo a bere il tè assieme! Pensa che per la savate Goffredo Lombardo mi voleva come antagonista per un film di Bruce Lee da girare in Italia...».L’urlo di Chen terrorizza anche l’occidente.«Non ho accettato. Avevo praticato la savate per due mesi quattordici ore al giorno, la sera era distrutto, non mi potevo muovere, mentre Bruce Lee era allenato perché faceva arti marziali da quando era bambino. Era stupendo: al limite non ero degno di lui in questo campo».Con Milano trema: la polizia vuole giustizia di Sergio Martino è cominciata per lei la fortunata stagione del poliziesco.«Ne ho fatto tre bellissimi, questo che hai citato, La polizia accusa: il servizio segreto uccide, sempre di Martino, e Il poliziotto è marcio di Fernando Di Leo, poi un altro paio perché avevo veramente fame e così sono diventato un prodotto del genere poliziesco, ma già nel 1975 avevo capito che non sarebbe durato. Quando il limone è spremuto, meglio cambiare frutta. Il produttore Luciano Martino, con cui avevo rapporti stupendi, mi disse: “Che ti frega, ne fai trenta, così ti fai la casa in campagna...”. “Non posso perché sennò entrerei nella polizia!”». Gli altri commissari sullo schermo erano Maurizio Merli e Tomas Milian.«Per Poliziotto sprint il regista Stelvio Massi e il produttore Gianni Di Clemente mi volevano, ma il distributore Goffredo Lombardo si è impuntato: “No, no, no, voglio Merli”, allora per vendetta Stelvio gli ha fatto togliere i baffi a Merli! Per il primo film dell’ispettore Giraldi, Squadra antiscippo, il produttore Galliano Juso, una persona che mi è sempre piaciuta, mi voleva far firmare subito il contratto. “Perché? Fammi leggere qualcosa”. “Ho solo tre-quattro pagine”. Allora ha cominciato a raccontarmi la storia: “Ma non sono io!”. Dopo il successo del film ho mandato un telegramma: “Se avete fatto dei miliardi, ringraziatemi perché se lo avessi interpretato io…”. Tomas era perfetto per quella parte, io non potevo farla, a parte che avevo i capelli e non avrei messo una parrucca».Cosa le sarebbe piaciuto fare?«La commedia. Infatti se vedi Superfantozzi e Missione eroica - I pompieri 2, ti rendi conto che posso farla, anche se mi hanno sempre detto: “Tu non hai la faccia da comico”. Ne I pompieri ho lavorato con Paolo Villaggio, geniale, il più grande di tutti, umanamente, intellettualmente, eruditamente, è chiaro che non potevo essere come lui, o come Lino Banfi o Enzo Cannavale, due altri grandi. Adesso mi propongono horror, ma i film di orrore mi fanno orrore, ho visto un film di Dario Argento e sono uscito dopo tre minuti: morivo dalla paura. L’importante è che non mi propongano la parte del nonno: se accade, il produttore perde la vita!». Ha fatto il padre di Bruno Todeschini in Svenduti di Luca Barbareschi.«Ho la barba lunga, sembro mio nonno! Barbareschi temeva che fossi troppo giovane rispetto a Todeschini e mi hanno invecchiato. Luca è intelligente, colto, furbo, non nel senso negativo: parla con quattro telefoni assieme in quattro lingue diverse!».Da quando è di nuovo in Italia, la invitano in televisione e nei festival, le propongono film, è di nuovo una star.«Tutti pensano: “È strano questo tipo: lo hanno tenuto dentro la naftalina per anni e adesso è ritornato!”».Non è dovuto alla sua simpatia?«Ma no, mi chiamano perché sono tutti morti! E almeno io sono uno vero».Quando si è reso conto di essere ancora popolare nel nostro Paese?«Vivevo ancora in Francia e Marco Giusti mi ha invitato al suo programma Stracult, in Rai. Ho percepito qualcosa nell’aria e mi sembrava assurdo. Io avevo lasciato il cuore in Italia, ma non ci tornavo perché sarei stato triste, così come preferivo non andare in America. Mi sono detto che probabilmente, durante la mia prima esperienza italiana, non avevo fatto le cose necessarie ed è per questo che era finita male, quindi avrei dovuto magari tentare di fare le cose nel modo giusto. L’unico mio dispiacere è che a Roma non ci sia il mare a cinquecento metri. Non dimentichiamo che ho vissuto dai due ai quattordici anni in Marocco con le dune e le spiagge lunghe diciassette chilometri. Invece non mi sono mai trovato bene in Francia».Perché?«C’era una cupola sopra Parigi, vedevi tutto questo grigio fino a cento chilometri, poi i francesi, soprattutto i parigini, hanno la puzza sotto il naso. Mi sono ritrovato senza famiglia perché i miei genitori sono rimasti in Marocco e io i miei parenti, nonno, cugini, zii e zie, non li avevo mai visti. Avevo vissuto in short, la giacca non la conoscevo, la cravatta non la conoscevo, i pantaloni non conoscevo, mi sono ritrovato lì: “Ma questa è una prigione!”. Mi hanno mandato a vivere in pensione perché mia zia, molto chic, aveva capito che ero selvatico, poi avevo un accento leggermente da pied-noir, allora mi diceva: “Ah, ma tu non sei francese…”. Ecco perché l’unica cosa che volevo era di mettere una dogana tra la Francia e me!».Almeno un bel ricordo della Francia?«Ho visto Romy Schneider! Si dà il caso che il mio padrino conosceva il regista Claude Sautet perché gli aveva venduto una casa a Saint-Tropez: “Dai, c’è una serata, vacci…”. “Ma no, che mi frega”. Non mi sono mai voluto proporre. “Per favore, vacci, gli ho venduto una casa. Come minimo ti riceve”. In ascensore vedo Romy Schneider con accanto un uomo piccolo e brutto. Saliamo cinque piani e io e lei ci guardiamo. Ovviamente non pensavo al tappo che aveva accanto, poi alla fine me lo presentano: era Sautet! Ovviamente non mi ha preso in un suo film! In ascensore ho conosciuto anche Brigitte Bardot, ma siamo saliti solo un piano. Se fossimo stati in un grattacielo americano…».
Marco Risi (Getty Images)
Nel riquadro, la stilista Giuliana Cella
Eugenia Roccella (Imagoeconomica)