Da aprile scade il «regime covid» nel privato che ha riguardato 3,6 milioni di persone: tutte le grandi imprese, però, prevedono di sottoscrivere nuovi accordi per continuare. Più incertezza nelle piccole realtà della Pa.
Da aprile scade il «regime covid» nel privato che ha riguardato 3,6 milioni di persone: tutte le grandi imprese, però, prevedono di sottoscrivere nuovi accordi per continuare. Più incertezza nelle piccole realtà della Pa.La vita di 3,6 milioni di lavoratori italiani (dati Osservatorio Smart working della School of management del Politecnico di Milano) da ieri non sarà più la stessa. Con il mese di aprile il settore privato deve dire addio al lavoro da remoto anche per genitori con figli minori di 14 anni e lavoratori fragili. Bocciato anche l’emendamento al decreto milleproroghe per estendere ulteriormente la scadenza. Dunque, si torna tutti, senza alcuna distinzione, in ufficio. Certo, questo è quello che dice la legge. Resta però aperta la strada degli accordi individuali tra azienda e lavoratori in base alle scelte della società per cui si lavora. In parole povere, per mantenere la possibilità di lavorare da casa, le aziende dovranno stipulare contratti ad hoc. I lavoratori del settore privato, dunque, da ieri dovranno seguire l’iter già iniziato il primo gennaio dai dipendenti del settore pubblico.Tutto, insomma, torna alle norme pre-Covid, quando lo smart working era una pratica per pochi e perlopiù mal regolata a livello contrattuale. Si torna, per intenderci, a quanto previsto dall’articolo 19 della legge 81 del 2017. Si tratta della norma secondo cui è l’accordo aziendale, ed eventualmente anche individuale, a dover menzionare espressamente durata, modalità e luoghi adatti per lo svolgimento dello smart working. Una volta siglato questo contratto, i datori di lavoro del settore privato dovranno comunicare al ministero del Lavoro l’inizio del periodo di smart working entro i 5 giorni successivi alla stipula. Per le aziende del settore pubblico c’è più tempo e il termine è fissato entro il 20 del mese successivo a quello di inizio del periodo di lavoro da remoto. L’accordo deve normare inoltre «i tempi di riposo del lavoratore» e «le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro».Dalla pandemia del Covid-19 in poi quella del lavoro da remoto è stata sicuramente una pratica rivoluzionaria per i lavoratori italiani. Sebbene prima fosse praticata da poche aziende pioniere di un nuovo mondo di lavorare, oggi svolgere le proprie mansioni da casa è per molti una prassi abituali che, da ieri, andrà normata diversamente. Secondo i dati dell’Osservatorio Smart working della School of management del Politecnico di Milano - presentati durante il convegno «Rimettere a fuoco lo Smart working: necessità, convenzione o scelta consapevole?» - nel 2023 i lavoratori da remoto nel nostro Paese si sono assestati a quota 3,585 milioni, registrando una leggera crescita rispetto ai 3,570 milioni del 2022 e un aumento deciso (+541%) rispetto al periodo pre-Covid. Si stima inoltre che nel 2024 il numero di smart worker in Italia raggiungerà i 3,65 milioni. Nelle grandi imprese, il 96% delle realtà offre iniziative di lavoro da remoto con modelli strutturati e oltre un lavoratore su due (1,88 milioni di persone) svolge più o meno abitualmente le proprie mansioni in modalità smart. Il 20% delle organizzazioni si sta, inoltre, impegnando a estendere l’applicazione dello Smart working anche a profili tecnici e operativi finora esclusi da questa possibilità. Anche nelle Pmi si è registrato un lieve aumento della penetrazione di questa modalità, che oggi è riguarda circa 570.000 lavoratori, che rappresentano il 10% della platea potenziale. Il 56% delle aziende ha adottato il lavoro da remoto, spesso con modelli informali gestiti a livello di specifici team. Al contrario, nelle microimprese e nelle Pubbliche amministrazioni si è registrata una diminuzione dei remote worker. In quest’ultime, il 61% presenta però iniziative strutturate, soprattutto nelle realtà di maggiori dimensioni.Uno degli aspetti positivi dello smart working riguarda senza dubbio il suo impatto sull’ambiente. Grazie alla riduzione degli spostamenti e al minor utilizzo degli uffici, lavorare da remoto per due giorni a settimana permette di evitare l’emissione aggiuntiva di 480 kg di Co2 ogni anno per ciascun collaboratore.Secondo i dati dello studio, insomma, lo smart working è ormai una pratica consolidata a cui i lavoratori non vogliono rinunciare perché migliora la qualità della vita permettendo di ridurre il tempo speso per gli spostamenti e la lontananza dalle persone care. Per questo, anche se ora la legge richiederà accordi specifici in tema di lavoro da casa, per molte compagnie cambierà poco o nulla. Sempre secondo i dati dell’Osservatorio, infatti praticamente tutte le grandi imprese prevedono di mantenere il lavoro da remoto anche in futuro, con solo il 6% degli intervistati che si dichiara incerto riguardo a questa decisione. Tuttavia, nelle pubbliche amministrazioni si riscontra una maggiore incertezza, con il 20% che non sa come evolverà l’iniziativa di smart working, soprattutto nelle organizzazioni di dimensioni più piccole. Le Pmi seguono questa tendenza, con il 19% che non sa se la propria organizzazione contemplerà ancora in futuro e come eventualmente attuerà lo smart working. Complessivamente si prevede però un ulteriore aumento del numero di lavoratori coinvolti nel 2024, per una cifra stimata di 3,65 milioni di individui.
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