2023-01-22
Lo confesso: sotto sotto Letta mi fa pena
Il segretario dà l’addio al Pd come un becchino che ha portato i suoi dal campo largo al camposanto. Tornando dall’esilio francese si era illuso di potersi riprendere il potere che Matteo Renzi gli aveva soffiato. Invece ha condotto il partito sotto il 15%, superato dal M5s. Lo confesso: a me Enrico Letta fa un po’ pena. Lo conosco da parecchi anni e so che è quello che i milanesi chiamano un «brao fioeu», cioè un bravo ragazzo, ma nulla di più. Ho sempre pensato che fosse uno di quei tipi che hanno tutte le carte in regola per sfondare, ma a cui all’ultimo manca sempre qualche cosa per raggiungere l’obiettivo. Quando divenne sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ai tempi del governo Prodi, avrebbe dovuto essere l’eminenza grigia del premier, così come lo zio lo era stato in precedenza di Silvio Berlusconi. Invece riuscì solo a essere grigio e basta, senza essere né eminente né influente. Il giorno in cui a Palazzo Chigi si ritrovarono tra le mani la patata bollente dello scorporo della rete telefonica, il dossier non finì a lui, ma ad Angelone Rovati, che pur non avendo alcun incarico operativo godeva della fiducia del presidente del Consiglio. E anni dopo, quando per puro caso si ritrovò al posto di Prodi, Letta fu talmente trasparente nella gestione della cosa pubblica che per 12 mesi nessuno si accorse della sua esistenza. So che stupirò molti dei lettori che conoscono i miei rapporti burrascosi con Matteo Renzi, tuttavia io capisco perché appena diventato segretario del Pd, il Rottamatore se ne sbarazzò. Con Letta al governo, invece delle riforme avremmo avuto gli sbadigli. Del resto, diciamoci la verità, è quello che è accaduto negli ultimi due anni, da quando cioè l’ex premier è stato richiamato a furor di nomenclatura dall’esilio parigino. Ricordate? Dopo che Renzi gli fregò la poltrona, facendosi consegnare la campanella dell’esecutivo, Enrichetto si ritirò a Parigi, rifiutando sdegnosamente ogni contatto con i vecchi compagni. Per sette anni ha vissuto nell’eremo ben retribuito di Science Po, ma quando Nicola Zingaretti se ne è andato sbattendo la porta e accusando i dirigenti del Pd di pensare solo alle poltrone, il povero Letta non ha saputo resistere al richiamo della foresta rossa. E così, rinunciando a un lauto stipendio (anche per via delle ricche consulenze), è ritornato convinto di aver ricevuto un risarcimento per l’ingiusta cacciata. Un illuso. Che per di più, per tenere insieme le diverse anime, ha pensato di trasformarsi in una via di mezzo fra Tony Blair e Jean Luc Melenchon. Risultato? Un disastro. Per mesi ha inseguito l’idea di un campo largo, che consentisse al Pd di federare tutte le anime della sinistra, 5 stelle inclusi. Ma dopo il 25 settembre, si è reso conto di aver portato il partito al camposanto. I sondaggi sono impietosi: dopo le sue dimissioni da segretario e la lentezza con cui è stata avviata la fase congressuale, al Pd è attribuito meno del 15 per cento, scavalcato perfino dai pentastellati, che fino all’altro ieri secondo alcuni erano spacciati. Parlando ieri alla direzione del partito, Enrichetto ha fatto cenno alla amarezze e alle ingenerosità che hanno accompagnato il suo percorso. Dal che si è capito che non vede l’ora di mollare e di rintanarsi nel rifugio parigino, lasciandosi alle spalle due anni di sconfitte e lacerazioni. Le correnti che dovranno eleggere la nuova guida non sono neppure riuscite a mettersi d’accordo sul manifesto dei lavori, la cui adozione infatti è stata rinviata a dopo il 26 febbraio, quando si capirà chi ha vinto e chi ha perso. La sensazione è che dal voto usciranno tutti sconfitti, e invece di eleggere un leader si rischia di nominarne almeno due: uno alla guida del partito e un altro o un’altra alla testa del partito che potrebbe nascere dall’ennesima scissione. Sì, il congresso, invece di decretare il vincitore rischia di certificare il disastro. Trasformando l’adunata in un funerale. Un successo per l’uomo in grigio che ha officiato le esequie.