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2019-02-10
L’intesa coop-sindacati che frega i lavoratori
Ansa
L'articolo della Verità sui contratti capestro applicati ai lavoratori delle coop sociali, alle quali è appaltata in Emilia Romagna la raccolta rifiuti per conto della holding Hera, ha sconquassato i sonni tranquilli di chi, sulla pelle (e sulle tasche) dei dipendenti, faceva business e risparmiava sostanziosi versamenti previdenziali e fiscali. Immediata è però arrivata la contromossa, elaborata in gran segreto nella sede di una delle società condannate dal giudice del lavoro per aver sottopagato i propri operai.
Il nostro giornale è in grado di anticipare i contenuti di una dichiarazione congiunta che dovrebbe essere firmata nei prossimi giorni, oltre che dalla coop 134 Cooperativa sociale, dai rappresentanti di Federcoop Romagna, Legacoop Romagna e i sindacati Fp Cgil, Fisascat Cisl Romagna e Uil Fpl. Che cosa dice il documento? È in pratica un accordo che va contro gli interessi dei lavoratori che, è opportuno ricordare, versano le quote associative ai sindacati proprio per essere tutelati a livello contrattuale.
In pratica, datori di lavoro e sindacati, di fronte al rischio di trovarsi travolti da una valanga di ricorsi alla magistratura, s'impegnano a legare le mani ai dipendenti. La lettura del testo non offre diverse interpretazioni. «Le parti (quelle poco prima citate, ndr) si impegnano a mettere in campo tutte le azioni possibili atte a dissuadere i lavoratori addetti dal presentare ricorsi innanzi al Tribunale di Rimini per chiedere il riconoscimento dell'applicazione del Ccnl dell'igiene ambientale fino all'accertamento definitivo del contenzioso». I contratti delle coop sociali, infatti, sono più bassi di circa 500 euro al mese e non prevedono la quattordicesima rispetto a quelli nazionali di categoria. Se le coop, che godono di importanti agevolazioni fiscali, fossero obbligate da una sentenza ad adeguare gli stipendi a tutti i lavoratori (solo in Emilia Romagna ci sono 1.000 potenziali interessati) si «metterebbe a rischio la sopravvivenza stessa di tutte le cooperative», si legge ancora nella bozza di dichiarazione congiunta, «in quanto non si consentirebbe il mantenimento di economie tali da giustificare offerte tecniche ed economiche a prezzi e condizioni competitive». Insomma, pur di vincere un appalto si può spremere i lavoratori, secondo i sindacati.
Una tesi, peraltro, fatta a pezzi proprio dal giudice del lavoro di Bologna, che aveva già risolto a favore di un dipendente un caso analogo, con un ragionamento assai critico sulle modalità di conduzione delle aziende sociali. «Che le società cooperative possano e debbano partecipare ad ogni gara come previsto anche dal codice degli appalti è fuori discussione», si legge nella sentenza, «quello che non è possibile consentire è che in nome di benefici, accordati per tutt'altre finalità, possano offrire servizi a prezzi non concorrenziali pagando i propri lavoratori meno degli altri». Il giudice ha anche analizzato e demolito l'ipotesi difensiva di Hera, in quella circostanza condannata in solido per omesso controllo sulla corretta esecuzione contrattuale, scrivendo: «L'altro argomento offerto in sede di discussione da Hera sui prezzi offerti ai propri clienti-utenti, consentiti in termini contenuti solo per il costo del lavoro concorrenziale (in sostanza, pagando di più i lavoratori, i costi dei propri servizi risulterebbero maggiorati a scapito degli utenti che pagherebbero tariffe maggiori)... si osserva che ci sono molti metodi per ridurre i propri costi, e non si comprende perché solo il sistema che introduce nella sostanza dumping contrattuale possa essere ritenuto praticabile».
Nella bozza di dichiarazione congiunta che La Verità ha potuto leggere c'è riportato pure che i «sindacati sono a conoscenza da sempre dell'applicazione del ccnl cooperative sociali» ai dipendenti che dovrebbero invece essere contrattualizzati sulla base di quello Utilitalia. E questo nonostante l'obbligo di rifarsi al contratto nazionale di categoria fosse previsto sia nel protocollo d'intesa sugli appalti del gruppo Hera sia nel protocollo regionale tra i sindacati più rappresentativi e l'Atersir, l'agenzia territoriale dell'Emilia Romagna per i servizi idrici e di igiene ambientale. La conclusione della dichiarazione d'intenti è drammatica per i lavoratori: se le coop fossero costrette a pagare di più i dipendenti, i conti correnti si assottiglierebbero e, senza soldi, dovrebbero essere messe in liquidazione. Con tanto di licenziamenti dietro l'angolo per dipendenti normodotati e portatori di handicap.
«Tutto ciò è di inaudita gravità», commenta il capogruppo consiliare della lista La Pigna di Ravenna, Veronica Verlicchi che da mesi segue la vertenza in solitaria. «A seguito dell'articolo apparso nei giorni scorsi sul quotidiano La Verità e successivamente alla riunione tra la lista civica La Pigna e i lavoratori delle coop sociali ravennati e romagnoli dell'igiene ambientale, alla quale ha partecipato in incognito un rappresentante di una coop sociale, nelle cooperative è scattata l'azione di pressione e di intimidazione sui lavoratori che hanno espresso la volontà di rivolgersi al giudice del lavoro per vedere riconosciuti i propri diritti e le proprie spettanze. Solo a Ravenna sono circa 20 i lavoratori che hanno espresso la volontà di far causa alla propria cooperativa».
Cgil, Cisl e Uil attaccano i gialloblù perché hanno demolito la Fornero
«Questi non sanno neanche dov'è la sinistra, li mandi a guidare in Inghilterra e fanno subito un frontale». La battuta feroce, su Twitter, sta sotto una foto che potrebbe essere stata scattata negli anni Ottanta: palloncini rossi sullo sfondo, teste lambite da bandieroni postmarxisti e in primo piano loro tre, i compagni d'Italia: Massimo D'Alema, Sergio Cofferati e Guglielmo Epifani. Come grida Maurizio Landini dal palco di piazza San Giovanni a Roma: «Il cambiamento siamo noi».
Benvenuti al corteo dei sindacati riuniti dove il cambiamento è D'Alema (70 anni) che torna come un Visitor ad allungare la sua ombra sulle spoglie renziane, produce vini algidi come lui in provincia di Terni (il nome del feudo sembra quello della moglie di un ambasciatore francese, la Madeleine) e lancia un anatema che gli somiglia: «Il governo? Solo nazionalismo straccione». Benvenuti dove il cambiamento è Cofferati (71 anni) sceso da una cornice in sede alla Cgil dopo un decennio di nulla, anonimo parlamentare europeo, noto agli happy few dell'Ulivo prodiano per aver usurpato il buon nome di Tex Willer. O addirittura dove il cambiamento è Epifani (69 anni), che dopo una vita da grigio custode dell'articolo 18 ha scandalizzato la sinistra operaia quando ha allegramente votato il Jobs Act che ha picconato lo Statuto dei lavoratori.
Nuovi come un trumeau trovato in cantina durante un trasloco, brillanti come un romanzo di Sandro Veronesi, gli allegri rivoluzionari annoiati a forza di guardare i cantieri sono il simbolo del corteo del Paese che insorge contro il governo dei quarantenni. E lo osteggia, lo boccia, lo deride con la bava verde alla bocca saltando a piè pari la fase d'una legittima e perfino doverosa critica costruttiva. Il melting pot politico è bizzarro: accanto ai duri e puri della Cgil in marcia c'è la Confindustria dell'Emilia Romagna (anche questa si chiama concertazione); accanto alla sempre più pasionaria arcobaleno Laura Boldrini ecco il Carlo Calenda in cachemire, gran visir di Siamo Europei, ammucchiata anti sovranista mascherata da convention permanente dei Competenti.
Le frasi simbolo del pomeriggio romano dei 150.000 in gita dentro il loro passato sono tre: «Dopo questa giornata, se il governo ha un minimo di saggezza apre una trattativa con noi. Se non dovesse succedere andrà a sbattere» (Maurizio Landini, Cgil). «Il governo esca dalla realtà virtuale, dopo tanti anni di una crisi tremenda avevamo iniziato a riandare la testa e ad avere una speranza nel futuro. Oggi si parla di recessione tecnica, cala la produzione industriale. Solo lo spread sale abbattendo salari e pensioni» (Annamaria Furlan, Cisl). «Il governo del cambiamento non può cambiare il Paese in peggio» (Carmelo Barbagallo, Uil).
L'ego ipertrofico di Landini necessitava di una rentrée da cantante lirica, di un bagno di folla per archiviare la stagione della bibliotecaria Susanna Camusso. Ed ecco che anche Cisl e Uil con Furlan e Barbagallo lo affiancano per un happening dal titolo «Futuro al lavoro» con lo scopo di chiedere all'esecutivo un confronto su crescita, sviluppo, pensioni e fisco. È la prova generale della primavera degli scioperi per dare una spallata alla maggioranza prima delle elezioni europee. Ed è la prima manifestazione unitaria dal 2013, dato che viene sottolineato con trionfale senso dell'alleanza, mentre noi ci domandiamo dove fosse la triplice mentre Matteo Renzi inneggiava al globalismo mercatista, intaccava le garanzie dello stato sociale, faceva sue le storture della legge di Elsa Fornero.
È davanti a questa evidente contraddizione che si fermano a replicare Matteo Salvini e Luigi Di Maio, rappresentati nel corteo con cartonati vestiti da scolaretti. Il vicepremier della Lega adombra la possibilità che dietro la ritrovata unità sindacale ci sia una manovra politica per puntellare un sempre più traballante Pd: «È curioso che la Cgil, rimasta muta sull'infame legge Fornero, nella prima settimana in cui viene smontata vada in piazza». Parlando, anch'egli da Vicenza, a margine dell'incontro organizzato dai risparmiatori della Banca Popolare di Vicenza ridotti sul lastrico, il ministro del Lavoro nonché vicepremier in quota Movimento 5 stelle aggiunge: «Ho a che fare con i sindacati tutti i giorni sulle più grandi vertenze del paese. Certo, è un po' singolare vedere che si scende in piazza contro quota 100 e non si è scesi in piazza quando è stata fatta la legge Fornero».
La manifestazione non si pone problemi di coerenza, semplicemente avanza al ritmo di Bella Ciao. Tutto secondo copione antico, tranne uno slogan che rimane impresso: «Meno Stato sui social, più Stato sociale»; probabilmente Boldrini, Calenda, Zingaretti, Martina e Fratoianni (la nuova sinistra, mentre ormai D'Alema e i suoi compari arrancano più indietro) intendono quello rottamato da Renzi. È un invito retorico, perfino da dissociazione psicologica perché i suddetti scandalizzati dalla Nutella di Salvini e dalla piattaforma Rousseau hanno la residenza prima casa sui social, dentro la bolla mediatica che vorrebbero bucare. Da lì in presa diretta (e proprio mentre scandiscono la frase) pubblicano selfie, servizi fotografici da San Giovanni, tweet di autopromozione, filmati con pretese registiche da Oliver Stone. Soprattutto postano scorci di tramonto rosso. Che sia il loro?
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Dopo le sentenze che hanno punito i contratti capestro applicati, le holding rosse romagnole preparano un patto con le parti sociali per «dissuadere i dipendenti dal fare ricorso al Tribunale». E così rivendicare l'applicazione dei livelli retributivi previsti dalla legge.Tra minacce («andrete a sbattere»), e fantasmi dal passato come Guglielmo Epifani, al corteo partecipa pure Confindustria. Matteo Salvini e Luigi Di Maio: «Curioso protestare adesso piuttosto che ai tempi di Monti».Lo speciale contiene due articoli.L'articolo della Verità sui contratti capestro applicati ai lavoratori delle coop sociali, alle quali è appaltata in Emilia Romagna la raccolta rifiuti per conto della holding Hera, ha sconquassato i sonni tranquilli di chi, sulla pelle (e sulle tasche) dei dipendenti, faceva business e risparmiava sostanziosi versamenti previdenziali e fiscali. Immediata è però arrivata la contromossa, elaborata in gran segreto nella sede di una delle società condannate dal giudice del lavoro per aver sottopagato i propri operai.Il nostro giornale è in grado di anticipare i contenuti di una dichiarazione congiunta che dovrebbe essere firmata nei prossimi giorni, oltre che dalla coop 134 Cooperativa sociale, dai rappresentanti di Federcoop Romagna, Legacoop Romagna e i sindacati Fp Cgil, Fisascat Cisl Romagna e Uil Fpl. Che cosa dice il documento? È in pratica un accordo che va contro gli interessi dei lavoratori che, è opportuno ricordare, versano le quote associative ai sindacati proprio per essere tutelati a livello contrattuale. In pratica, datori di lavoro e sindacati, di fronte al rischio di trovarsi travolti da una valanga di ricorsi alla magistratura, s'impegnano a legare le mani ai dipendenti. La lettura del testo non offre diverse interpretazioni. «Le parti (quelle poco prima citate, ndr) si impegnano a mettere in campo tutte le azioni possibili atte a dissuadere i lavoratori addetti dal presentare ricorsi innanzi al Tribunale di Rimini per chiedere il riconoscimento dell'applicazione del Ccnl dell'igiene ambientale fino all'accertamento definitivo del contenzioso». I contratti delle coop sociali, infatti, sono più bassi di circa 500 euro al mese e non prevedono la quattordicesima rispetto a quelli nazionali di categoria. Se le coop, che godono di importanti agevolazioni fiscali, fossero obbligate da una sentenza ad adeguare gli stipendi a tutti i lavoratori (solo in Emilia Romagna ci sono 1.000 potenziali interessati) si «metterebbe a rischio la sopravvivenza stessa di tutte le cooperative», si legge ancora nella bozza di dichiarazione congiunta, «in quanto non si consentirebbe il mantenimento di economie tali da giustificare offerte tecniche ed economiche a prezzi e condizioni competitive». Insomma, pur di vincere un appalto si può spremere i lavoratori, secondo i sindacati. Una tesi, peraltro, fatta a pezzi proprio dal giudice del lavoro di Bologna, che aveva già risolto a favore di un dipendente un caso analogo, con un ragionamento assai critico sulle modalità di conduzione delle aziende sociali. «Che le società cooperative possano e debbano partecipare ad ogni gara come previsto anche dal codice degli appalti è fuori discussione», si legge nella sentenza, «quello che non è possibile consentire è che in nome di benefici, accordati per tutt'altre finalità, possano offrire servizi a prezzi non concorrenziali pagando i propri lavoratori meno degli altri». Il giudice ha anche analizzato e demolito l'ipotesi difensiva di Hera, in quella circostanza condannata in solido per omesso controllo sulla corretta esecuzione contrattuale, scrivendo: «L'altro argomento offerto in sede di discussione da Hera sui prezzi offerti ai propri clienti-utenti, consentiti in termini contenuti solo per il costo del lavoro concorrenziale (in sostanza, pagando di più i lavoratori, i costi dei propri servizi risulterebbero maggiorati a scapito degli utenti che pagherebbero tariffe maggiori)... si osserva che ci sono molti metodi per ridurre i propri costi, e non si comprende perché solo il sistema che introduce nella sostanza dumping contrattuale possa essere ritenuto praticabile». Nella bozza di dichiarazione congiunta che La Verità ha potuto leggere c'è riportato pure che i «sindacati sono a conoscenza da sempre dell'applicazione del ccnl cooperative sociali» ai dipendenti che dovrebbero invece essere contrattualizzati sulla base di quello Utilitalia. E questo nonostante l'obbligo di rifarsi al contratto nazionale di categoria fosse previsto sia nel protocollo d'intesa sugli appalti del gruppo Hera sia nel protocollo regionale tra i sindacati più rappresentativi e l'Atersir, l'agenzia territoriale dell'Emilia Romagna per i servizi idrici e di igiene ambientale. La conclusione della dichiarazione d'intenti è drammatica per i lavoratori: se le coop fossero costrette a pagare di più i dipendenti, i conti correnti si assottiglierebbero e, senza soldi, dovrebbero essere messe in liquidazione. Con tanto di licenziamenti dietro l'angolo per dipendenti normodotati e portatori di handicap.«Tutto ciò è di inaudita gravità», commenta il capogruppo consiliare della lista La Pigna di Ravenna, Veronica Verlicchi che da mesi segue la vertenza in solitaria. «A seguito dell'articolo apparso nei giorni scorsi sul quotidiano La Verità e successivamente alla riunione tra la lista civica La Pigna e i lavoratori delle coop sociali ravennati e romagnoli dell'igiene ambientale, alla quale ha partecipato in incognito un rappresentante di una coop sociale, nelle cooperative è scattata l'azione di pressione e di intimidazione sui lavoratori che hanno espresso la volontà di rivolgersi al giudice del lavoro per vedere riconosciuti i propri diritti e le proprie spettanze. Solo a Ravenna sono circa 20 i lavoratori che hanno espresso la volontà di far causa alla propria cooperativa».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/lintesa-coop-sindacati-che-frega-i-lavoratori-2628490434.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="cgil-cisl-e-uil-attaccano-i-gialloblu-perche-hanno-demolito-la-fornero" data-post-id="2628490434" data-published-at="1765066785" data-use-pagination="False"> Cgil, Cisl e Uil attaccano i gialloblù perché hanno demolito la Fornero «Questi non sanno neanche dov'è la sinistra, li mandi a guidare in Inghilterra e fanno subito un frontale». La battuta feroce, su Twitter, sta sotto una foto che potrebbe essere stata scattata negli anni Ottanta: palloncini rossi sullo sfondo, teste lambite da bandieroni postmarxisti e in primo piano loro tre, i compagni d'Italia: Massimo D'Alema, Sergio Cofferati e Guglielmo Epifani. Come grida Maurizio Landini dal palco di piazza San Giovanni a Roma: «Il cambiamento siamo noi». Benvenuti al corteo dei sindacati riuniti dove il cambiamento è D'Alema (70 anni) che torna come un Visitor ad allungare la sua ombra sulle spoglie renziane, produce vini algidi come lui in provincia di Terni (il nome del feudo sembra quello della moglie di un ambasciatore francese, la Madeleine) e lancia un anatema che gli somiglia: «Il governo? Solo nazionalismo straccione». Benvenuti dove il cambiamento è Cofferati (71 anni) sceso da una cornice in sede alla Cgil dopo un decennio di nulla, anonimo parlamentare europeo, noto agli happy few dell'Ulivo prodiano per aver usurpato il buon nome di Tex Willer. O addirittura dove il cambiamento è Epifani (69 anni), che dopo una vita da grigio custode dell'articolo 18 ha scandalizzato la sinistra operaia quando ha allegramente votato il Jobs Act che ha picconato lo Statuto dei lavoratori. Nuovi come un trumeau trovato in cantina durante un trasloco, brillanti come un romanzo di Sandro Veronesi, gli allegri rivoluzionari annoiati a forza di guardare i cantieri sono il simbolo del corteo del Paese che insorge contro il governo dei quarantenni. E lo osteggia, lo boccia, lo deride con la bava verde alla bocca saltando a piè pari la fase d'una legittima e perfino doverosa critica costruttiva. Il melting pot politico è bizzarro: accanto ai duri e puri della Cgil in marcia c'è la Confindustria dell'Emilia Romagna (anche questa si chiama concertazione); accanto alla sempre più pasionaria arcobaleno Laura Boldrini ecco il Carlo Calenda in cachemire, gran visir di Siamo Europei, ammucchiata anti sovranista mascherata da convention permanente dei Competenti. Le frasi simbolo del pomeriggio romano dei 150.000 in gita dentro il loro passato sono tre: «Dopo questa giornata, se il governo ha un minimo di saggezza apre una trattativa con noi. Se non dovesse succedere andrà a sbattere» (Maurizio Landini, Cgil). «Il governo esca dalla realtà virtuale, dopo tanti anni di una crisi tremenda avevamo iniziato a riandare la testa e ad avere una speranza nel futuro. Oggi si parla di recessione tecnica, cala la produzione industriale. Solo lo spread sale abbattendo salari e pensioni» (Annamaria Furlan, Cisl). «Il governo del cambiamento non può cambiare il Paese in peggio» (Carmelo Barbagallo, Uil). L'ego ipertrofico di Landini necessitava di una rentrée da cantante lirica, di un bagno di folla per archiviare la stagione della bibliotecaria Susanna Camusso. Ed ecco che anche Cisl e Uil con Furlan e Barbagallo lo affiancano per un happening dal titolo «Futuro al lavoro» con lo scopo di chiedere all'esecutivo un confronto su crescita, sviluppo, pensioni e fisco. È la prova generale della primavera degli scioperi per dare una spallata alla maggioranza prima delle elezioni europee. Ed è la prima manifestazione unitaria dal 2013, dato che viene sottolineato con trionfale senso dell'alleanza, mentre noi ci domandiamo dove fosse la triplice mentre Matteo Renzi inneggiava al globalismo mercatista, intaccava le garanzie dello stato sociale, faceva sue le storture della legge di Elsa Fornero. È davanti a questa evidente contraddizione che si fermano a replicare Matteo Salvini e Luigi Di Maio, rappresentati nel corteo con cartonati vestiti da scolaretti. Il vicepremier della Lega adombra la possibilità che dietro la ritrovata unità sindacale ci sia una manovra politica per puntellare un sempre più traballante Pd: «È curioso che la Cgil, rimasta muta sull'infame legge Fornero, nella prima settimana in cui viene smontata vada in piazza». Parlando, anch'egli da Vicenza, a margine dell'incontro organizzato dai risparmiatori della Banca Popolare di Vicenza ridotti sul lastrico, il ministro del Lavoro nonché vicepremier in quota Movimento 5 stelle aggiunge: «Ho a che fare con i sindacati tutti i giorni sulle più grandi vertenze del paese. Certo, è un po' singolare vedere che si scende in piazza contro quota 100 e non si è scesi in piazza quando è stata fatta la legge Fornero». La manifestazione non si pone problemi di coerenza, semplicemente avanza al ritmo di Bella Ciao. Tutto secondo copione antico, tranne uno slogan che rimane impresso: «Meno Stato sui social, più Stato sociale»; probabilmente Boldrini, Calenda, Zingaretti, Martina e Fratoianni (la nuova sinistra, mentre ormai D'Alema e i suoi compari arrancano più indietro) intendono quello rottamato da Renzi. È un invito retorico, perfino da dissociazione psicologica perché i suddetti scandalizzati dalla Nutella di Salvini e dalla piattaforma Rousseau hanno la residenza prima casa sui social, dentro la bolla mediatica che vorrebbero bucare. Da lì in presa diretta (e proprio mentre scandiscono la frase) pubblicano selfie, servizi fotografici da San Giovanni, tweet di autopromozione, filmati con pretese registiche da Oliver Stone. Soprattutto postano scorci di tramonto rosso. Che sia il loro?
Friedrich Merz (Ansa)
Il dissenso della gioventù aveva provocato forti tensioni all’interno della maggioranza tanto da far rischiare la prima crisi di governo seria per Merz. Il via libera del parlamento tedesco, dunque, segna di fatto una crisi politica enorme e pure lo scollamento della democrazia tra maggioranza effettiva e maggioranza dopata. Come già era accaduto in Francia, la materia pensionistica è l’iceberg contro cui si schiantano i… Titanic: Macron prima, Merz adesso. Il presidente francese sulle pensioni ha visto la rottura dei suoi governi per l’incalzare di rivolte popolari e questo in carica guidato da Lecornu ha dovuto congelare la materia per non lasciarci le penne. Del resto in Europa non è il solo che naviga a vista, non curante della sfiducia nel Paese: in Spagna il governo Sánchez è in piena crisi di consensi per i casi di corruzione scoppiati nel partito e in casa, e pure l’accordo coi i catalani e coi baschi rischia di far deragliare l’esecutivo sulla finanziaria. In Olanda non c’è ancora un governo. In Belgio il primo ministro De Wever ha chiesto altro tempo al re Filippo per superare lo stallo sulla legge di bilancio che si annuncia lacrime e sangue. In Germania - dicevamo - il governo si è salvato per l’appoggio determinante della sinistra radicale, aprendo quindi un tema politico che lascerà strascichi dei quali beneficerà Afd, partito assai attrattivo proprio tra i giovani.
I tre voti con i quali Merz si è salvato peseranno tantissimo e manterranno acceso il dibattito proprio su una questione ancestrale: l’aumento del debito pubblico. «Questo disegno di legge va contro le mie convinzioni fondamentali, contro tutto ciò per cui sono entrato in politica», ha dichiarato a nome della Junge Union Gruppe Pascal Reddig durante il dibattito. Lui è uno dei diciotto che avrebbe voluto affossare la stabilizzazione previdenziale anche a costo di mandare sotto il governo: il gruppo dei giovani non aveva mai preso in considerazione l’idea di caricare sulle spalle delle future generazioni 115 miliardi di costi aggiuntivi a partire dal 2031.
E senza quei 18 sì, il governo sarebbe finito al tappeto. Quindi ecco la solita minestrina riscaldata della sopravvivenza politica a qualsiasi costo: l’astensione dai banchi dell’opposizione del partito di estrema sinistra Die Linke, per effetto della quale si è ridotto il numero di voti necessari per l'approvazione. E i giovani? E le loro idee?
Merz ha affermato che le preoccupazioni della Junge Union saranno prese in considerazione in una revisione più ampia del sistema pensionistico prevista per il 2026, che affronterà anche la spinosa questione dell'innalzamento dell'età pensionabile. Un bel modo per cercare di salvare il salvabile. Anche se ora arriva pure la tegola della riforma della leva: il parlamento tedesco ha infatti approvato la modernizzazione del servizio militare nel Paese, introducendo una visita medica obbligatoria per i giovani diciottenni e la possibilità di ripristinare la leva obbligatoria in caso di carenza di volontari. Un altro passo verso la piena militarizzazione, materia su cui l’opinione pubblica tedesca è in profondo disaccordo e che Afd sta cavalcando. Sempre che la democrazia non deciderà di fermare Afd…
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«The Rainmaker» (Sky)
The Rainmaker, versione serie televisiva, sarà disponibile su Sky Exclusive a partire dalla prima serata di venerdì 5 dicembre. E allora l'abisso immenso della legalità, i suoi chiaroscuri, le zone d'ombra soggette a manovre e interpretazioni personali torneranno protagonisti. Non a Memphis, dov'era ambientato il romanzo originale, bensì a Charleston, nella Carolina del Sud.
Il rainmaker di Grisham, il ragazzo che - fresco di laurea - aveva fantasticato sulla possibilità di essere l'uomo della pioggia in uno degli studi legali più prestigiosi di Memphis, è lontano dal suo corrispettivo moderno. E non solo per via di una città diversa. Rudy Baylor, stesso nome, stesso percorso dell'originale, ha l'anima candida del giovane di belle speranze, certo che sia tutto possibile, che le idee valgano più dei fatti. Ma quando, appena dopo la laurea in Giurisprudenza, si trova tirocinante all'interno di uno studio fra i più blasonati, capisce bene di aver peccato: troppo romanticismo, troppo incanto. In una parola, troppa ingenuità.
Rudy Baylor avrebbe voluto essere colui che poteva portare più clienti al suddetto studio. Invece, finisce per scontrarsi con un collega più anziano nel giorno dell'esordio, i suoi sogni impacchettati come fossero cosa di poco conto. Rudy deve trovare altro: un altro impiego, un'altra strada. E finisce per trovarla accanto a Bruiser Stone, qui donna, ben lontana dall'essere una professionista integerrima. Qui, i percorsi divergono.
The Rainmaker, versione serie televisiva, si discosta da The Rainmaker versione carta o versione film. Cambia la trama, non, però, la sostanza. Quel che lo show, in dieci episodi, vuole cercare di raccontare quanto complessa possa essere l'applicazione nel mondo reale di categorie di pensiero apprese in astratto. I confini sono labili, ciascuno disposto ad estenderli così da inglobarvi il proprio interesse personale. Quel che dovrebbe essere scontato e oggettivo, la definizione di giusto o sbagliato, sfuma. E non vi è più certezza. Nemmeno quella basilare del singolo, che credeva di aver capito quanto meno se stesso. Rudy Baylor, all'interno di questa serie, a mezza via tra giallo e legal drama, deve, dunque, fare quel che ha fatto il suo predecessore: smettere ogni sua certezza e camminare al di fuori della propria zona di comfort, alla ricerca perpetua di un compromesso che non gli tolga il sonno.
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Ursula von der Leyen (Ansa)
Mentre l’Europa è strangolata da una crisi industriale senza precedenti, la Commissione europea offre alla casa automobilistica tedesca una tregua dalle misure anti-sovvenzioni. Questo armistizio, richiesto da VW Anhui, che produce il modello Cupra in Cina, rappresenta la chiusura del cerchio della de-industrializzazione europea. Attualmente, la VW paga un dazio anti-sovvenzione del 20,7 per cento sui modelli Cupra fabbricati in Cina, che si aggiunge alla tariffa base del 10 per cento. L’offerta di VW, avanzata attraverso la sua sussidiaria Seat/Cupra, propone, in alternativa al dazio, una quota di importazione annuale e un prezzo minimo di importazione, meccanismi che, se accettati da Bruxelles, esenterebbero il colosso tedesco dal pagare i dazi. Non si tratta di una congiuntura, ma di un disegno premeditato. Pochi giorni fa, la stessa Volkswagen ha annunciato come un trionfo di essere in grado di produrre veicoli elettrici interamente sviluppati e realizzati in Cina per la metà del costo rispetto alla produzione in Europa, grazie alle efficienze della catena di approvvigionamento, all’acquisto di batterie e ai costi del lavoro notevolmente inferiori. Per dare un’idea della voragine competitiva, secondo una analisi Reuters del 2024 un operaio VW tedesco costa in media 59 euro l’ora, contro i soli 3 dollari l’ora in Cina. L’intera base produttiva europea è già in ginocchio. La pressione dei sindacati e dei politici tedeschi per produrre veicoli elettrici in patria, nel tentativo di tutelare i posti di lavoro, si è trasformata in un calice avvelenato, secondo una azzeccata espressione dell’analista Justin Cox.
I dati sono impietosi: l’utilizzo medio della capacità produttiva nelle fabbriche di veicoli leggeri in Europa è sceso al 60% nel 2023, ma nei paesi ad alto costo (Germania, Francia, Italia e Regno Unito) è crollato al 54%. Una capacità di utilizzo inferiore al 70% è considerata il minimo per la redditività.
Il risultato? Centinaia di migliaia di posti di lavoro che rischiano di scomparire in breve tempo. Volkswagen, che ha investito miliardi in Cina nel tentativo di rimanere competitiva su quel mercato, sta tagliando drasticamente l’occupazione in patria. L’accordo con i sindacati prevede la soppressione di 35.000 posti di lavoro entro il 2030 in Germania. Il marchio VW sta già riducendo la capacità produttiva in Germania del 40%, chiudendo linee per 734.000 veicoli. Persino stabilimenti storici come quello di Osnabrück rischiano la chiusura entro il 2027.
Anziché imporre una protezione doganale forte contro la concorrenza cinese, l’Ue si siede al tavolo per negoziare esenzioni personalizzate per le sue stesse aziende che delocalizzano in Oriente.
Questa politica di suicidio economico ha molto padri, tra cui le case automobilistiche tedesche. Mercedes e Bmw, insieme a VW, fecero pressioni a suo tempo contro l’imposizione di dazi Ue più elevati, temendo che una guerra commerciale potesse danneggiare le loro vendite in Cina, il mercato più grande del mondo e cruciale per i loro profitti. L’Associazione dell’industria automobilistica tedesca (Vda) ha definito i dazi «un errore» e ha sostenuto una soluzione negoziata con Pechino.
La disastrosa svolta all’elettrico imposta da Bruxelles si avvia a essere attenuata con l’apertura (forse) alle immatricolazioni di motori a combustione e ibridi anche dopo il 2035, ma ha creato l’instabilità perfetta per l’ingresso trionfale della Cina nel settore. I produttori europei, combattendo con veicoli elettrici ad alto costo che non vendono come previsto (l’Ev più economico di VW, l’ID.3, costa oltre 36.000 euro), hanno perso quote di mercato e hanno dovuto ridimensionare obiettivi, profitti e occupazione in Europa. A tal riguardo, ieri il premier Giorgia Meloni, insieme ai leader di Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria e Ungheria, in una lettera ai vertici Ue, ha esortato l’Unione ad abbandonare, una volta per tutte, il dogmatismo ideologico che ha messo in ginocchio interi settori produttivi, senza peraltro apportare benefici tangibili in termini di emissioni globali». Nel testo, si chiede di mantenere anche dopo il 2035 le ibride e di riconoscere i biocarburanti come carburanti a emissioni zero.
L’Ue, che sempre pretende un primato morale, ha in realtà creato le condizioni perfette per svuotare il continente di produzione industriale. Accettare esenzioni dai dazi sull’import dalle aziende che hanno traslocato in Cina è la beatificazione della delocalizzazione. L’Europa si avvia a diventare uno showroom per prodotti asiatici, con le sue fabbriche ridotte a ruderi. Paradossalmente, diverse case automobilistiche cinesi stanno delocalizzando in Europa, dove progettano di assemblare i veicoli e venderli localmente, aggirando così i dazi europei. La Great Wall Motors progetta di aprire stabilimenti in Spagna e Ungheria per assemblare i veicoli. Anche considerando i più alti costi del lavoro europei (16 euro in Ungheria, dato Reuters), i cinesi pensano di riuscire ad essere più competitivi dei concorrenti locali. Per convenienza, i marchi europei vanno in Cina e quelli cinesi vengono in Europa, insomma. A perderci sono i lavoratori europei.
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