2021-10-11
Bruno Pizzul: «Oggi nel calcio comanda il dio denaro»
L’ex telecronista della Nazionale: «Certi giocatori sono agenzie d’affari. Si cambi l’uso del Var nel fuorigioco e stop al cronometro se s’interrompe la gara. Perché tifo Torino? Da piccoli, gli juventini ci rubavano la palla...»È stato la voce della nostra passione azzurra. Bruno Pizzul, 83 anni, oggi vive a Cormòns, borgo di 7.000 abitanti in provincia di Gorizia. «Il mio eremo paesano», lo chiama. E lo racconta con la stessa poesia con cui impreziosiva le telecronache della Nazionale: «È una zona ad alta vocazione enoica, da sempre ha prodotto grandi vini». Nello spot che ha girato per Dazn, lo vediamo giocare a carte al bar con gli amici: «Vivo con ritmi tranquilli, coltivo antiche abitudini. Certo, qui è in voga la merendina, la bicchierata, ma gli acciacchi dell’età mi impediscono di partecipare in maniera vigorosa a questi simposi».In Nations league la fortuna non ci ha esattamente arriso. Ma lei, di partite sfortunate dell’Italia, ne sa qualcosa. Quale sconfitta le è pesata di più: la semifinale di Italia 90, persa ai rigori con l’Argentina; la finale di Usa 94, che il Brasile ci soffiò dagli undici metri; o la finale di Euro 2000, sfumata praticamente all’ultimo minuto?«Direi la semifinale di Italia 90. In quel Mondiale la nostra Nazionale aveva espresso il miglior calcio. E fu eliminata per una serie di circostanze assolutamente fortuite».Ma la partita più «infame» fu l’ottavo con la Corea del Sud, nel 2002, con l’arbitro Byron Moreno.«Però giocammo male. Ricordo ancora l’errore clamoroso di Bobo Vieri, all’ultimo secondo, a porta sguarnita: buttò fuori un pallone che sembrava più facile da infilare che da sbagliare. Se avesse segnato, di Moreno, che pure ne aveva combinata una per colore, non avrebbe parlato nessuno…».E la finale dell’Heysel, nel 1985?«È rimasta dentro di me come una ferita, qualcosa di inaccettabile dal punto di vista etico: essere costretto a raccontare di 39 morti per una partita di pallone è umanamente intollerabile».Su Youtube c’è un video di lei che, a Cormòns, declama le formazioni di Italia e Inghilterra prima della finale di Euro 2020. Le è dispiaciuto non aver mai commentato un trionfo azzurro?«Avrei più che volentieri urlato che avevamo vinto un Mondiale o un Europeo. Però vorrei tranquillizzare chi si preoccupa per questa mia carenza: non ho perso nessuna nottata di sonno…».Quando si arriva a una finale, si preparano prima le frasi da dire in caso di vittoria o di sconfitta?«No, io non l’ho mai fatto. Ritengo che l’espressione migliore dello sport sia la trasmissione di emozioni. E l’emozione non può essere prefigurata. Bisogna ubbidire all’istinto del momento».Che ne pensa delle telecronache di oggi?«Risentono dei grandi cambiamenti intervenuti nel linguaggio per immagini».Che intende?«Un tempo le riprese venivano fatte con due telecamere dall’alto. Si seguiva lo sviluppo della coralità della manovra».E ora?«I registi hanno a disposizione un numero molto maggiore di telecamere. Ed essendo di formazione cinematografica, hanno la tendenza a confezionare una good television».Quindi?«Le immagini sono molto frammentate e, necessariamente, la cronaca deve rispettare questo ritmo incalzante. Qualche volta si ha la sensazione che il commento, con questa ridondanza di immagini e parole, diventi più importante di ciò che racconta. La cornice è preminente rispetto al quadro. E l’alluvione di parole può sembrare eccessiva».C’è un epigono che ammira?«Li ammiro tutti. Sono preparatissimi, quasi in maniera imbarazzante. Io sono sempre stato afflitto da tratti di pigrizia notevoli e da una certa presunzione, per cui non è che mi preparassi tanto. Questi qua sanno tutto».Sciorinano statistiche e informazioni sovrabbondanti, no?«Eh sì… C’è il rischio che si finisca a parlare, anziché di Rivera, della zia di Rivera».La Fifa vorrebbe far disputare il Mondiale ogni due anni. Il sindacato dei calciatori è contrario.«Le cadenze quadriennali, inframezzate poi dai campionati continentali, sono un format già convincente. Si cerca in tutti i modi di reperire fonti di sovvenzionamento attraverso i diritti tv, ma non credo che sentiamo il bisogno di un ulteriore affollamento d’impegni internazionali».La Nations league le garba?«È qualcosa di abbastanza raccogliticcio. Non è che abbia inciso molto sulla fantasia della gente».È stato già deciso l’allargamento del campionato del mondo da 32 a 48 squadre, a partire dal 2026. Va bene offrire chance alle Nazionali minori, ma non si esagera?«Ma sì, dai… C’è il rischio che ci siano partite assolutamente inutili. E soprattutto, c’è un impatto tra realtà calcistiche che hanno una dimensione, una storia e delle potenzialità troppo diverse».Un’altra ipotesi è quella di introdurre il tempo effettivo di gioco: due frazioni da 30 minuti, con il cronometro che si ferma a ogni interruzione.«È un’ipotesi accarezzata da tantissimo tempo. Non riesco a capire per quale motivo la regola non sia già stata adottata».Si eviterebbero sceneggiate nei minuti finali delle partite, tra calciatori che stramazzano al suolo e calci di rinvio lunghi un minuto…«Ma anche interpretazioni troppo personali da parte dei direttori di gara: c’è chi dà sette minuti di recupero, chi molto meno».E le sostituzioni illimitate?«È chiaro che già con cinque sostituzioni, la regola dell’era Covid, le partite possono essere davvero cambiate. E se si va verso un ulteriore rigonfiamento degli impegni, si dovrebbero consacrare definitivamente i cinque cambi. Ma a tal proposito, sono abbastanza scettico. C’è però un’altra ipotesi al vaglio della Fifa, che trovo condivisibile».Quale?«La possibilità di interpretare in maniera diversa l’uso del Var per il fuorigioco».Cioè?«Si dice che il Var abbia portato certezze assolute, ma alcune decisioni sono aberranti».A che pensa?«Gol annullati per un’unghia di un piede al di là del difensore…».E cosa si può fare?«Introdurre il cosiddetto “spazio fra i giocatori”».Sarebbe?«Un calciatore verrebbe considerato in fuorigioco solo quando c’è una luce tra l’attaccante e l’ultimo difensore. Certo, anche lì, poi, basterebbe un tacchetto al di là del nuovo limite individuato...».Quali partite le è piaciuto di più commentare?«Sorprendentemente, alcune di quelle che ho seguito prima di diventare telecronista della Nazionale. Per chi ama il calcio, non c’è paragone tra un Italia-Lussemburgo e un Germania-Inghilterra».C’è un match che ricorda con più soddisfazione?«Ricordo con molto piacere l’eccezionale avventura di Messico 70. Se me l’avessero detto qualche mese prima, non ci avrei creduto».Perché?«Entrai in Rai senza alcuna vocazione, avendo partecipato quasi per caso a un concorso. E appena assunto, venni subito spedito lì a fare il quarto telecronista. La partita più bella fu proprio il quarto di finale tra Germania-Inghilterra».Come andò?«Era la rivincita della finale del 1966, quella del famoso “gol non gol”. Il match fu emozionante: l’Inghilterra conduceva per 2-0 fino a dieci minuti dalla fine. Poi i tedeschi pareggiarono e vinsero ai supplementari, in condizioni ambientali terribili: si giocava a mezzogiorno, con un caldo feroce».Meglio il calcio di ieri o quello di oggi?«Nel calcio moderno, anche per la crescente incidenza del dio denaro, si è venuta perdendo molta della patina di romanticismo che accompagnava quello di un tempo, con i giocatori bandiera e l’attaccamento alla maglia. Certi calciatori sono diventati agenzie d’affari».Anche seguirlo, il calcio, è diventato difficile. Quanti fastidi per i problemi di Dazn…«Mi pare che Dazn abbia rimediato, ma l’apparato attraverso il quale si vuole proporre in maniera così esaustiva tutto il calcio, in tutte le salse, ha le sue controindicazioni. E i mezzi tecnologici non sempre funzionano alla perfezione».E poi c’è lo spezzatino: di orari e di piattaforme. Ne servono tre.«Sì, la cosa suscita qualche perplessità».È l’anno del Napoli?«Sta facendo benissimo, anche se vive molto sulle individualità, peraltro di altissimo livello. Luciano Spalletti è un comunicatore del tutto particolare e il momento è di grande fulgore. Con l’Inter, il Napoli è, allo stato attuale, la squadra che gode di maggior credito».La Juve uscirà dalla crisi?«Già nel corso di questa stagione arriverà a un rendimento adeguato alle sue aspirazioni. Certo, il ritardo in classifica è cospicuo. Ma si va profilando un campionato in cui si riaffaccia la competizione tra le “sette sorelle”, che finiranno per rubarsi punti a vicenda. E ciò rende la Serie A molto interessante».Il giocatore azzurro più forte?«Anche se non sempre ha azzeccato le prestazioni, Federico Chiesa dà l’impressione di avere un cambio di passo e di velocità che manca ai suoi compagni».Per chi tiene, in politica?«Ho un figlio impegnato (è consigliere regionale dem in Lombardia, ndr). Io sono di estrazione cattolica, ma di idee progressiste».Tifa per il Torino?«Sì. Da queste parti, era facile ammirare il Grande Toro. Ma io e i miei coetanei diventammo tifosi del Torino per un altro motivo».Quale?«Nell’immediato dopoguerra, qui la situazione era durissima: non si sapeva se saremmo rimasti con l’Italia o se saremmo finiti con la Jugoslavia. Non avevamo nulla».Drammatico.«Miracolosamente, però, il prete del paese riuscì a trovare un pallone, che usava per chiamarci a raccolta in parrocchia. Solo che ne lasciava la gestione a noi ragazzi...».E allora?«Quelli più grandi di noi se ne impadronivano, non ce lo facevano mai toccare. Erano tutti tifosi della Juventus. Per reazione, ci mettemmo a tifare Torino…».
Nicola Pietrangeli (Getty Images)
Gianni Tessari, presidente del consorzio uva Durella
Lo scorso 25 novembre è stata presentata alla Fao la campagna promossa da Focsiv e Centro sportivo italiano: un percorso di 18 mesi con eventi e iniziative per sostenere 58 progetti attivi in 26 Paesi. Testimonianze dal Perù, dalla Tanzania e da Haiti e l’invito a trasformare gesti sportivi in aiuti concreti alle comunità più vulnerabili.
In un momento storico in cui la fame torna a crescere in diverse aree del pianeta e le crisi internazionali rendono sempre più fragile l’accesso al cibo, una parte del mondo dello sport prova a mettere in gioco le proprie energie per sostenere le comunità più vulnerabili. È l’obiettivo della campagna Sport contro la fame, che punta a trasformare gesti atletici, eventi e iniziative locali in un supporto concreto per chi vive in condizioni di insicurezza alimentare.
La nuova iniziativa è stata presentata martedì 25 novembre alla Fao, a Roma, nella cornice del Sheikh Zayed Centre. Qui Focsiv e Centro sportivo italiano hanno annunciato un percorso di 18 mesi che attraverserà l’Italia con eventi sportivi e ricreativi dedicati alla raccolta fondi per 58 progetti attivi in 26 Paesi.
L’apertura della giornata è stata affidata a mons. Fernando Chica Arellano, osservatore permanente della Santa Sede presso Fao, Ifad e Wfp, che ha richiamato il carattere universale dello sport, «linguaggio capace di superare barriere linguistiche, culturali e geopolitiche e di riunire popoli e tradizioni attorno a valori condivisi». Subito dopo è intervenuto Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, che ha ricordato come il raggiungimento dell’obiettivo fame zero al 2030 sia sempre più lontano. «Se le istituzioni faticano, è la società a doversi organizzare», ha affermato, indicando iniziative come questa come uno dei modi per colmare un vuoto di cooperazione.
A seguire, la presidente Focsiv Ivana Borsotto ha spiegato lo spirito dell’iniziativa: «Vogliamo giocare questa partita contro la fame, non assistervi. Lo sport nutre la speranza e ciascuno può fare la differenza». Il presidente del Csi, Vittorio Bosio, ha invece insistito sulla responsabilità educativa del mondo sportivo: «Lo sport costruisce ponti. In questa campagna, l’altro è un fratello da sostenere. Non possiamo accettare che un bambino non abbia il diritto fondamentale al cibo».
La campagna punta a raggiungere circa 150.000 persone in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente. Durante la presentazione, tre soci Focsiv hanno portato testimonianze dirette dei progetti sul campo: Chiara Concetta Starita (Auci) ha descritto l’attività delle ollas comunes nella periferia di Lima, dove la Olla común 8 de octubre fornisce pasti quotidiani a bambini e anziani; Ornella Menculini (Ibo Italia) ha raccontato l’esperienza degli orti comunitari realizzati nelle scuole tanzaniane; mentre Maria Emilia Marra (La Salle Foundation) ha illustrato il ruolo dei centri educativi di Haiti, che per molti giovani rappresentano al tempo stesso luogo di apprendimento, rifugio e punto sicuro per ricevere un pasto.
Sul coinvolgimento degli atleti è intervenuto Michele Marchetti, responsabile della segreteria nazionale del Csi, che ha spiegato come gol, canestri e chilometri percorsi nelle gare potranno diventare contributi diretti ai progetti sostenuti. L’identità visiva della campagna accompagnerà questo messaggio attraverso simboli e attrezzi di diverse discipline, come illustrato da Ugo Esposito, Ceo dello studio di comunicazione Kapusons.
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Mark Zuckerberg (Getty Images)