2021-02-01
«È la fase terminale della democrazia»
Il politologo Alessandro Campi: «La crisi non è di governo, ma di sistema. Un avvocato senza curriculum politico riesce a passare da demiurgo dell'esecutivo e pure del partito unico Pd-M5s: è la prova dell'impazzimento istituzionale».Alessandro Campi, storico e politologo, con il mandato esplorativo al presidente della Camera Roberto Fico la crisi si allunga. Che effetto le fa questo tatticismo esasperante? «È il parlamentarismo integrale, bellezza! Il conservatorismo istituzionale, diventato nel tempo l'altra faccia dell'antifascismo militante, ha impedito per decenni qualunque riforma nell'architettura dello Stato. E sempre con la stessa scusa: la deriva autoritaria». Risultato? «Abbiamo mantenuto istituzioni obsolete e ora ne paghiamo il prezzo. La sinistra voleva evitare la sindrome del “salvatore della patria" e del “capo carismatico" e per un paradosso della Storia ha finito ha finito per elevare Conte a questo ruolo».Conte è al capolinea? «In ogni caso, da questa crisi uscirà fortemente ridimensionato. Ma comunque, anche se fuori dal governo, un ruolo politico lo avrà ancora». Renzi non ha posto veti su Conte, ma neanche è andato a Canossa. «Credo voglia semplicemente un governo con la vecchia maggioranza, ma senza Conte. Che al momento di aprire la crisi, ricordiamolo, è stato da lui definito un problema per la tenuta democratica del Paese. Sarebbe strano se ora cambiasse idea». Qual è la vera ragione che ha spinto Renzi ad aprire la crisi?«Un uomo abituato al comando non poteva accettare di stare a lungo in terza o quarta fila, senza contare la sua fisiologica irrequietezza. Aveva inoltre bisogno di riconquistare la scena politica, di mandare un segnale d'esistenza in vita dal momento che il suo partito continua a stentare nei sondaggi». Solo questo? «C'erano poi delle serie ragioni politiche per aprire formalmente una crisi che in realtà durava da mesi. Il governo era fermo e impallato, e la guida solitaria di Conte stava oggettivamente diventando un problema». Uno dei problemi di Renzi è il «fiorentinismo», ha scritto. Vale a dire?«Chi lo accusa di essere un teppista politico, pensando sia solo un insulto personale, dovrebbe ricordarsi del teppismo intellettuale praticato agli inizi del Novecento da due toscani doc come Giuseppe Prezzolini e Giovanni Papini. C'è un tratto guascone e spregiudicato che fa parte della cultura da cui proviene Renzi. E che l'ha portato a fare scelte coraggiose e impopolari, ma anche errori per troppa sicumera». Siamo alla psicopolitica, alle crisi di governo per motivi caratteriali? «A rigore la personalizzazione dovrebbe significare che la figura del leader riveste un ruolo dirimente nel processo di acquisizione del consenso. Oggi siamo in effetti un passo oltre. Siamo allo soggettivizzazione, al culto di sé, al leader che non guida le masse ma ne asseconda le pulsioni pur di restare al potere». La maggioranza è venuta meno anche per via dei protagonismi di Conte, che da mediatore ha iniziato a coltivare aspirazioni politiche autonome? «All'improvviso, con lo scoppio della pandemia, per Conte si è creata un'opportunità in effetti unica: passare dal ruolo di mediatore a quello di demiurgo. E l'ha colta al volto, tenuto conto dello stato confusionale dei due partiti maggiori che lo sostenevano».In che modo?«Ha esautorato il Parlamento, aiutato anche dalle sue competenze giuridico-legali, in maniera magistrale: con i famosi dpcm ha imposto una gestione dell'emergenza per via puramente amministrativa, e ha cominciato a coltivare il sogno di fare di Palazzo Chigi, invece che del governo, il centro politico-decisionale unico. Un vero cambiamento della nostra Costituzione materiale».La lista personale di Conte potrebbe avere un futuro? «Conte è entrato in politica dal portone principale, con modalità a dir poco inusitate, segnalato al M5s e poi al capo dello Stato dagli amici degli amici. Ma non può pensare che funzioni sempre così: passare da una carica istituzionale all'altra senza mai misurarsi con il consenso elettorale». Dunque? «Credo che in realtà più che farsi un partito suo, ambisca a essere il candidato alle prossime elezioni di quel partito unico che sta sempre più nascendo e che potremmo chiamare “Democratici a 5 stelle". Perché farsi un partito se gli altri ti affidano il loro?».Intanto il Pd si sta impiccando al nome di Giuseppe Conte, consapevole tuttavia che un suo eventuale partito drenerebbe voti proprio al centrosinistra.«Questa crisi, tra le alte cose, ha dimostrato come il Pd non abbia alcuna linea politica se non quella di restare al potere ad ogni costo. Ciò che lo salva (e lo legittima) è la sua rete di relazioni nel mondo burocratico-sindacale, cosa che manca alla destra, e il suo ancoraggio europeista ortodosso e spesso acritico. Diranno che è una scelta fatta per salvare l'Italia dalle destre».I vertici dei Cinque stelle hanno riaperto a Renzi, ma il movimento, con la sua ala rivoluzionaria, è in subbuglio. «Il M5s non ha mai avuto un tratto rivoluzionario: semmai eversore. L'unico suo progetto per il domani era sfasciare tutto per ragioni di risentimento collettivo e di odio sociale. Arrivati nella stanza dei bottoni ci hanno messo un minuto a trasformarsi in pragmatici occupatori di poltrone. Vedrà che si acconceranno anche a tornare al governo con l'odiato Renzi».Si va verso una riedizione del governo giallorosso, o verso una soluzione istituzionale? «Personalmente, auspicherei un governo istituzionale o del presidente, chiamato a realizzare poche cose ma fondamentali. Siamo in piena pandemia, ad un passo dal baratro economico-sociale: quando, se non ora, un governo di salvezza nazionale?». E invece?«Finirà invece con un governo che sarà la riedizione del precedente, anche perché Renzi non può tirare troppo la corda (anche con quelli del suo gruppo) e in fondo la sua vittoria l'ha già avuta: Conte conterà di meno, Renzi avrà dei ministeri importanti e sarà ancora più decisivo. Tutti rinunceranno a qualcosa, ma tutti avranno qualcosa». Il centrodestra vuole il voto: ma se Conte lascia, non esclude scenari alternativi. «Il centrodestra ha fatto bene a presentarsi unito alle consultazioni: un segnale politico di forza e compattezza. E ha fatto bene a non insistere esclusivamente sulle elezioni. Giusto chiederle, giusto anche offrire al capo dello Stato delle alternative». Anche se non mancano i distinguo nell'alleanza…«Le tensioni per l'egemonia tra Meloni e Salvini sono un fatto, così come l'insofferenza di Berlusconi per il suo ruolo non più da leader indiscusso. Resta il fatto che il centrodestra unito vince, diviso perde. E a nessuna delle componenti attuali del centrodestra piace perdere».Insomma, questa non è una crisi di governo come le altre? «È evidente che è una crisi di sistema. I partiti sono in maggior parte degli ectoplasmi, la magistratura è al punto più basso della sua credibilità, la burocrazia pubblica lavora al minimo a causa della pandemia, il nostro debito pubblico sta esplodendo, i cittadini continuano a non fidarsi della politica, il Parlamento è bloccato e impotente, in politica estera contiamo poco e niente. Cos'altro dovrebbe accadere per convincersi che siamo sull'orlo dell'abisso?».La stessa ascesa di Conte a Palazzo Chigi è il sintomo di una malattia del sistema politico? «In condizioni politicamente normali Conte sarebbe rimasto a insegnare all'università e a occuparsi di grandi cause civili e di contese amministrative. Il fatto che sia asceso alla guida dl governo senza alcun curriculum politico, ma solo in virtù di una rete informale di relazioni, testimonia l'impazzimento del nostro sistema istituzionale».In questo passaggio delicato Stati Uniti ed Europa si limitano ad osservare? «Senza complottismi, i nostri alleati vorrebbero un'Italia stabile e affidabile. Anche se credo si siano ormai rassegnati alle nostre turbolenze. Detto questo, se un Paese è strutturalmente debole, perché anche i suoi amici e alleati non dovrebbero approfittarne? Se non altro per fare qualche affare a buon mercato. Vero, cari amici francesi?».Il tentativo disperato di cercare «costruttori» in Senato ha minato la fiducia dei cittadini nelle istituzioni? «La fiducia era già talmente bassa che non credo sia stata peggiorata dallo spettacolo della caccia al responsabile. Spettacolo che non è stato solo indecoroso, ma politicamente condotto in modo dilettantesco. Il Cavaliere, quando cercava lui i responsabili, aveva, rispetto a Conte, ben altri argomenti da mettere in campo e anche ben altra capacità». Comunque, non abbiamo assistito al solito trasformismo…«Il trasformismo era una prassi politica che implicava un calcolo politico generale. Qui parliamo di anime perse in cerca di uno strapuntino per sé quando la legislatura sarà finita. Per “questi qua" cambiare casacca è come bersi un caffè». Se la prima Repubblica è stata quella delle grandi chiese politiche, e la seconda quella della personalizzazione dei partiti, oggi che etichetta diamo a questo periodo? «L'era dell'avventurismo e della pura casualità. Vincono cioè quelli che non hanno niente da perdere, le facce di tolla, quelli che si trovano nel posto giusto al momento giusto per pura fortuna, quelli che urlano di più, i furbi. Polibio la chiamava “oclocrazia": la fase terminale della democrazia, il governo delle masse urlanti o impaurite e dei demagoghi che le manovrano a loro piacimento».
Jose Mourinho (Getty Images)