2019-12-30
L’insostenibile doppia morale grillina sugli indagati
Premessa: per noi chiunque è da considerare innocente fino a che non sia intervenuta una sentenza definitiva di condanna. Ribadiamo: per noi. Ma per gran parte della classe politica una persona è da ritenere innocente fino a che non sia stata raggiunta da un avviso di garanzia, soprattutto se l'«avvisato» sta sulla sponda opposta, ossia non è del tuo partito, ma di quello avversario.Dunque, nel recente passato abbiamo assistito alle dimissioni «spintanee» di Amando Siri, sottosegretario leghista ai lavori pubblici messo sotto indagine dalla Procura di Roma per i contatti con un tizio a sua volta indagato per i rapporti con un altro signore accusato di rapporti con un boss mafioso. Non meglio è andata a Edoardo Rixi, viceministro nello stesso dicastero di Siri e come lui colpito dalla maledizione dell'indagato: il 30 maggio di quest'anno è stato costretto alle dimissioni a causa di una condanna in primo grado. Fosse stato per Matteo Salvini, probabilmente sia Siri che Rixi sarebbero rimasti al loro posto, in attesa di una sentenza definitiva, ma ai tempi del governo gialloblù valeva la morale a 5 stelle, che prevedeva appunto le dimissioni al primo tintinnio di manette. Essendo i due vice entrati nel mirino della magistratura, secondo i grillini era meglio che si facessero da parte. Si può discutere ovviamente su questo principio e ritenerlo una precauzione in quanto un politico deve essere al di sopra di ogni sospetto, oppure una resa di fronte alla magistratura inquirente, che non emette sentenze, ma fa indagini, e dunque nell'equilibrio dei processi è da considerarsi una parte e non la verità assoluta. Sta di fatto che il Movimento 5 stelle, per non sbagliare, ha sempre preteso che i suoi uomini fossero immacolati come gigli, in modo da potersi differenziare dagli altri. Posizione come dicevamo opinabile, tuttavia da rispettare.E poi però, mentre i duri e puri a 5 stelle si fanno vanto della coerenza sulla fedina penale pulita, ecco arrivare il Conte bis e soprattutto le dimissioni improvvise di Lorenzo Fioramonti. Il ministro sudafricano probabilmente ha preso cappello per i tagli dei fondi per l'istruzione, sta di fatto che dopo aver visto che cosa contiene la manovra si è dimesso, peraltro polemizzando con gli stessi vertici del Movimento. Fin qui si può dire che sono cose che capitano in qualsiasi maggioranza, perché ovunque c'è un ministro che si secca e toglie il disturbo per qualche motivo.Il problema però non è Lorenzo Fioramonti che se ne va, ma Gaetano Manfredi che arriva. Costui è il rettore dell'università Federico II di Napoli, oltre che presidente della conferenza dei rettori di tutta Italia. A leggere il curriculum, diciamo che non si può storcere il naso, perché il docente è blasonato e anche se ha una spiccata simpatia per i centri sociali, essendo stato nominato ministro dell'Università e della ricerca di un governo che pende a sinistra non gli si può imputare di essere sbilanciato dalla parte dei compagni. Del resto, è lo stesso esecutivo che è inclinato verso il circolo progressista dei radical chic e choc.E però, oltre ai titoli accademici di cui andar fiero e alle pubblicazioni di cui mostrar vanto, il professor Manfredi nel suo curriculum ha anche un piccolo neo. Una macchiolina nera piccola piccola, che però stona sull'abito da cerimonia che il docente si appresta a sfoggiare per il giuramento da ministro dell'Università e della ricerca nelle mani di Sergio Mattarella. Già, perché sul capo del neo responsabile degli atenei italiani pende una faccenduola imbarazzante come un processo per abuso in merito al collaudo di una scuola. In breve, dopo il terremoto nelle regioni centrali, in un edificio ricostruito sarebbero crollati i balconi e i magistrati alla ricerca delle responsabilità avrebbero aperto un procedimento a carico del costruttore, del progettista, ma anche del collaudatore. E qui ecco spuntare il futuro ministro, che durante l'inchiesta della magistratura è stato chiamato a rispondere.Tuttavia, si sa come vanno le cose in Italia, prima di arrivare al rinvio a giudizio e poi al processo ci vogliono anni e la via crucis non ha fatto sconti neppure al rettore futuro ministro. Risultato, siamo ancora in attesa della prima udienza, peccato però che ormai incomba la prescrizione. Anzi, forse la prescrizione è ormai già arrivata, tanto che a chi gli chieda informazioni sulla faccenda, il professor Gaetano Manfredi risponde facendo capire che si tratta di quisquilie, cioè cose di cui non preoccuparsi. Peccato che i 5 stelle, quelli che lo hanno indicato, siano duri e puri e non facciano sconti agli indagati. Peccato poi che i grillini vogliano introdurre una legge che vieti la prescrizione, per evitare che i furbi la facciano franca. In pratica, siamo di fronte a un futuro ministro che è l'incarnazione delle contraddizioni dei 5 stelle, perché indagato e perché prescritto. Manca solo che sia pure un simpatizzante del partito di Matteo Renzi e avremmo toccato il top dell'incoerenza.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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