2021-04-18
L’europeista Draghi abbatte gli alibi e prende a schiaffi i dogmi dell’Ue
Su debito, deficit, euro e spread (come sulle chiusure) il premier tira bordate che però, in bocca a lui, nessuno contesta e che fanno giustizia di tante bugie sugli ultimi anni. Ma i partiti non sembrano trarne le conseguenze. Più che un presidente del Consiglio, Mario Draghi è un distruttore di alibi. L'ex governatore della Banca centrale europea, simbolo e incarnazione della tecnocrazia, si è presentato in Aula con una sorta di atto di fede sulla «irreversibilità dell'euro», ma da lì in poi ha mostrato un piglio pragmaticamente laico, anche e soprattutto sulle grandi questioni europee, che dovrebbe imporre almeno un paio di riflessioni.«Se il coordinamento europeo funziona bisogna seguirlo, se non funziona bisogna andare per conto proprio», ha scandito nella prima conferenza stampa. Parlava di vaccini, ma ha scardinato un assioma a cui una fetta maggioritaria della classe politica italiana non pareva disposta a rinunciare. Quello secondo cui, comunque e in ogni caso, il «coordinamento europeo» doveva prevalere in caso di conflitti con l'interesse nazionale. Le implicazioni non sono minori.Discorso non dissimile vale per il rovello di debito e crescita: «Ai livelli attuali non sono i tassi di interesse che determinano la sostenibilità del debito pubblico, ma è il tasso di crescita di un Paese», ha spiegato il premier l'altro giorno, parlando del Def. Anche qui, semplice buon senso: ma avvalorato dall'autorevolezza e dalla credibilità di una figura cui più o meno tutti riconoscono la capacità di parlare a istituzioni e mercati senza provocare alzate di sopracciglio. Nella sua goffa piaggeria, la domanda di una giornalista ha colto un punto: «Questo è un Def storico, per i numeri che riporta, che mette i brividi. Vorrei dire che se non ci fosse lei presidente del Consiglio saremmo terrorizzati». La parte interessante della domanda è quella non posta: se si può fare deficit al 12% del Pil, e se - lo ha detto ancora Draghi - si può spiegare di rientrare sotto il 3% «nel 2025» (la Francia addirittura nel 2027), al netto della credibilità del presidente del Consiglio, cosa si deve pensare delle battaglie furibonde per qualche punto decimale di deficit/Pil negli anni scorsi? E cosa pensare delle favole, ripetute per lustri, sulle dichiarazioni o i comportamenti dei singoli politici che «fanno salire lo spread»? Per lungo tempo affermazioni di questo tipo sono state un alibi politico: bastavano per tacitare la controparte e assolversi sotto la coperta dell'europeismo responsabile, raccogliendo plausi dalle istituzioni di Bruxelles.Affermando che di 3% si riparla tra quattro anni, il premier sta mettendo l'Italia in piena contrapposizione con le raccomandazioni Paese della Commissione, con le frasi di Valdis Dombrovskis (che è pur sempre il capo di Paolo Gentiloni), e con la postura tedesca che sogna di riattivare prima possibile il Patto di stabilità soprattutto per i competitor di Berlino. «Eh, ma c'è il Covid: nulla è più come prima», si ripete. Sarà. Ma i trattati sono sempre quelli, e non si cambiano in conferenza stampa. Quando, il 26 marzo, Draghi ha condensato in un'altra conferenza stampa una lezione di politica monetaria su euro e dollaro, ha detto: «Ogni tanto le varie istituzioni europee si svegliano e guardano quanto è importante l'euro come valuta di riserva internazionale, e regolarmente vedono che il dollaro è tanto importante e l'euro è poco importante. [...] Cosa determina il ruolo del dollaro? Il fatto che il titolo del debito del Tesoro Usa è il più scambiato nel mondo. Quello dei nostri Paesi non ha la caratteristica di quello americano di essere completamente privo di rischi. La seconda cosa: loro hanno un mercato dei capitali gigantesco [...], noi non abbiamo mercato unito dei capitali, non abbiamo un'unione bancaria completa, manca un titolo condiviso perché questo può venire solo da un bilancio federale che noi non abbiamo. Ne abbiamo uno piccolo, non usato in funzione anticiclica». Le secche in cui giace il Recovery fund, e la decisione del governo di finanziare alcuni progetti ritenuti importanti ma da esso esclusi con semplice deficit, è conseguenza diretta della fotografia di Draghi sul bilancio Ue, che confligge non poco con l'immagine dell'Europa che salva un Paese altrimenti perduto. E quest'ultimo era un altro comodo alibi, buono per il teatrino dello scontro tra europeisti a prescindere e presunti «anti euro».In un certo senso, la scelta su ristoranti&C frantuma allo stesso modo lo scontro tra «aperturisti» e «chiusuristi», smontando il grande alibi della linea Conte-Speranza: se i contagi vanno giù è merito delle misure, se vanno su ne servono di più rigide perché la gente è indisciplinata. La cosa interessante è che, fin qui, la dissacrazione dei dogmi operata da Draghi pare quasi non venire colta dai partiti e dall'opinione pubblica: né nella necessaria opera di «revisione» rispetto al passato (le menzogne sullo spread, il ruolo della Bce, la surrealtà di un Patto di stabilità e crescita che deve essere sospeso quando c'è bisogno di garantire stabilità e crescita), né nel lavoro politico che essi implicano nel futuro. I partiti «europeisti» rischiano un brutto risveglio quando capiranno che Draghi sta erodendo le loro certezze. Gli altri hanno motivo di interrogarsi sul fatto che alcune loro posizioni prima «impresentabili» oggi appaiono di colpo ragionevoli solo perché è il «premier tecnocrate» a sostenerle. Finora tutto è diluito nel doppio stato d'eccezione: quello della pandemia e quello della «pax draghiana». L'una e l'altra finiranno, e gli alibi saranno infranti.