
Molte sezioni non pagano l'affitto e vengono messe alla porta. Intanto dalla Bolognina è sparito un busto del leader comunista.Spiega il vecchio dirigente del Pci che «il compagno Ugo Sposetti fu lungimirante nel togliere il nostro patrimonio dalle mani dei renziani». Perché l'indagine a carico del tesoriere del Pd, Francesco Bonifazi, riaccende al Nazareno vecchi rancori mai sopiti: quelli degli ultimi 5 anni di segreteria di Matteo Renzi, con il tentativo proprio di Bonifazi di accaparrarsi quel tesoro di immobili, circa 2.400, opere d'arte e cimeli sovietici per il valore di circa mezzo miliardo di euro. È una guerra che si consuma proprio in questi giorni, con gli esponenti del Pd sfrattati della storica sezione della Bolognina di Bologna perché morosi per 1 milione di euro di affitto alla Fondazione Duemila, una delle 68 casseforti degli ex Pci e Ds in Italia: a quanto pare durante lo sfratto sarebbe scomparso un busto di 35 chili del compagno Lenin. Eppure il Pd renziano in questi anni di soldi ne ha incassati molti, non solo tramite la Fondazione Eyu di cui parla l'imprenditore Luca Parnasi ma anche con la Open, ormai chiusa, che organizza la Leopolda di Renzi. Dal 2012, anno di nascita della cassaforte renziana presieduta dall'avvocato Alberto Bianchi - anche lui sotto i riflettori della Corte dei conti per le consulenze in Consip - sono stati racimolati circa 6,7 milioni di euro di donazioni private. La Eyu (secondo bilancio 2017) ha incassato 846.769 euro di entrate gestionali, quasi il doppio rispetto al 2016, quando erano 405.060. Gli incassi non devono essere bastati. O non sono serviti solo per il partito. Il personale del Nazareno è stato ridotto all'osso, molti sono in cassa integrazione. La colpa è anche della fine del finanziamento pubblico ai partiti. Ma ora i circoli del Pd vengono chiusi, con i compagni cacciati dai loro stessi compagni. Del resto si tratta di una battaglia che va avanti dal 2013, con Bonifazi da una parte, convinto che gli spazi riservati al partito non andavano pagati, dall'altra parte Sposetti che ha blindato a doppia mandata il patrimonio lasciato in eredità da Palmiro Togliatti ed Enrico Berlinguer. Il problema è diffuso in tutta Italia, più complesso dove ci sono più beni, quindi l'epicentro è Bologna. Le federazioni del Pd spesso pretendono di non pagare. Ma il problema è che se le fondazioni non chiedono i soldi per l'affitto e l'utilizzo degli immobili, si prospetta un possibile reato di finanziamento illecito. Quindi si devono cautelare. «Non voglio commentare, mi dispiace per lui, lo sapete bene voi giornalisti: io amo tutti i tesorieri», spiega Sposetti alla Verità. Eppure Bonifazi aveva anche minacciato di portarlo in tribunale con una class action. «Sì, con cleiss asssion (ride, ndr), come si dice? Ma che so' io Spartaco!», conclude lo storico tesoriere dei Ds, da sempre a favore del finanziamento pubblico ai partiti. Quel tesoretto, però, è una pietra preziosa per la sinistra, soprattutto adesso, con un congresso del Pd alle porte e i venti di scissione che soffiano. E se Renzi se ne va e si fa un partito? E se Massimo D'Alema e Pier Luigi Bersani rifanno la sinistra? A chi andrà quel patrimonio? A quanto pare in questi anni l'ultima parola su quel mezzo miliardo di eredità immobiliare l'ha sempre avuta il presidente emerito Giorgio Napolitano, che ai tempi del Pci era il ministro degli Esteri. Non a caso lo scorso anno, 21 gennaio 2017, festa dei 70 anni di Sposetti a Palazzo Pallavicini-Rospigliosi, con al tavolo Napolitano, Emanuele Macaluso e Piero Fassino, fu scelto l'erede di quel patrimonio, ovvero l'ex ministro di Grazia e Giustizia Andrea Orlando. E proprio ieri, appena uscita la notizia dell'indagine su Bonifazi, il silenzio dei dem è stato interrotto da una mail inviata al partito dal deputato di area orlandiana Maino Marchi. Si chiede la convocazione nei tempi più brevi possibili del comitato di tesoreria del Pd, nominato 2 mesi fa e mai convocato, «anche alla luce delle notizie di stampa odierne». Del resto, rispetto alle vecchia segreteria Renzi, l'unico rimasto nel nuovo corso di Maurizio Martina è proprio Bonifazi. Al Nazareno si domandano ancora i motivi e non sanno darsi risposta.
Anna Falchi (Ansa)
La conduttrice dei «Fatti vostri»: «L’ho sdoganato perché è un complimento spontaneo. Piaghe come stalking e body shaming sono ben altra cosa. Oggi c’è un perbenismo un po’ forzato e gli uomini stanno sulle difensive».
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Il capo del Consorzio, che celebra i 50 anni di attività, racconta i segreti di questo alimento, che può essere dolce o piccante.
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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