2020-08-25
Le Regioni possono fermare l’aborto in casa
Spetta a loro garantire che la somministrazione del farmaco non contrasti con la legge 194, che per quanto iniqua predica la tutela di madre e nascituro. Per farlo, devono stipulare convenzioni con le associazioni del volontariato per la vita.Molto è stato scritto, e bene, circa la non conformità alla legge 194/78 della pratica relativa all'assunzione della pillola Ru486. Penso, peraltro, sia urgente guardare oltre e cogliere quest'evenienza infausta per rilanciare e proporre alternative possibili, sulla scorta del costante insegnamento del cardinale Elio Sgreccia, scomparso nel 2019. Mi permetto innanzitutto di considerare strategico il ruolo delle regioni, tanto più in questo momento elettorale (ben sette andranno a breve al voto), attese le loro competenze. In base alla Costituzione, art. 117, alle regioni spetta la potestà legislativa concorrente con quella dello Stato in materia di tutela della salute, mentre allo Stato compete la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Alle regioni compete, nell'ambito della programmazione sanitaria, disciplinare con legge l'articolazione dell'ordinamento degli ospedali, il collegamento tra servizi ospedalieri ed extra ospedalieri, nonché l'individuazione dei presidi e servizi sanitari ospedalieri ed extra ospedalieri che svolgono attività prevalentemente rivolte a territori di più Usl. In tale contesto si colloca anche il provvedimento statale in esame che ha ridefinito l'utilizzo e la somministrazione del farmaco Ru486. Alla regione spetta la valutazione dell'idoneità, sotto il profilo organizzativo, delle strutture sanitarie specificatamente adibite allo svolgimento delle prestazioni e dei servizi previsti dalla legge stessa, ivi compresa la somministrazione dei farmaci; quindi di tutte quelle strutture indicate anche dall'articolo 8 della legge 194/1978. Quanto evidenziato in ordine alla necessità di coordinare l'attuazione della determina dell'Aifa con le norme vincolanti della legge 194/1978, alla quale essa è sottoposta, pone l'esigenza di assicurare che le nuove prescrizioni di somministrazione del farmaco non possano esser trasformate in azioni non conformi alle finalità e alle norme della legge, insuscettibili di essere superate per effetto delle nuove modalità di somministrazione del farmaco in questione. È evidente, del resto, che una fonte secondaria non può derogare a una fonte primaria. Pertanto soprattutto sul versante organizzativo, si potrà operare per assicurare il rispetto della legge nelle sue parti costituenti principi fondamentali. Così facendo si opererà in ossequio alle norme che stabiliscono livelli minimi essenziali delle prestazioni, nell'alveo dei quali si rinvengono il valore sociale della maternità e della tutela della vita umana dal suo inizio, coniugata con il riconoscimento del diritto alla procreazione cosciente e responsabile; principi che vanno a loro volta interpretati congiuntamente al dovere di Stato, regioni ed enti locali nel porre in essere iniziative volte a far sì che l'aborto non sia usato come metodo di controllo delle nascite. Ma non basta. Non possiamo rischiare, sia pure in totale buona fede, di rimanere nell'alveo della legge 194, col rischio di «legittimare» una legge che per sua intrinseca natura rimane «integralmente iniqua», come ammoniva Giorgio La Pira! Dobbiamo rilanciare in positivo, sia per la centralità epocale e planetaria della questione antropologica (che riguarda primariamente la difesa della vita innocente) sia per l'urgenza estrema rappresentata dall'inverno demografico, sia perché da sempre questo è lo stile del movimento per la vita. Del resto le stesse linee d'indirizzo relative alla Ru486 sono figlie della mentalità radicale ispiratrice della legge 194, che obnubila la presenza del figlio concepito. Per cui verremmo meno alla nostra missione se non cogliessimo l'occasione per rimarcare per altre vie l'identità umana dell'essere umano sin dal suo primo sbocciare nel seno materno. E come può attuarsi questo? Almeno in due modi. In primo luogo, chiedendo alle regioni di dare finalmente attuazione all'art. 2 della legge, che appunta in capo ai consultori familiari la funzione di assistere la madre «contribuendo a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all'interruzione della gravidanza». Del resto, già la legge istitutiva dei consultori non solo li definì «servizi di assistenza alla famiglia e alla maternità», ma appuntò in capo ad essi, oltre alla tutela della salute della donna, anche quella «del prodotto del concepimento». Per giunta, non contemplò nessuna competenza dei consultori quanto ad interventi abortivi, ma nemmeno inserì tra le competenze consultoriali il rilascio del cosiddetto titolo, cioè del documento autorizzativo dell'aborto. È vero che da anni parecchi consultori provvedono al rilascio di quel titolo, ma è anche vero che il rilascio non è previsto da nessuna norma.Sulla stessa linea le regioni fissarono con proprie norme legislative i criteri per la programmazione, il funzionamento, la gestione e il controllo del servizio consultoriale per il proprio territorio di competenza. E neppure in alcuna di esse è contemplato il rilascio del documento autorizzativo all'aborto, men che meno l'effettuazione dell'Ivg nei consultori. Le cennate linee d'indirizzo sulla Ru486 sono pertanto fuorilegge. E siamo alla seconda modalità. È ora che le istituzioni colgano l'immensità della posta in gioco, la vita nascente in costante «codice rosso», e stipulino convenzioni con le associazioni del volontariato per la vita, che da decenni si prodigano per offrire alle gestanti in difficoltà sostegno e conforto. In tal modo indicando un paradigma, una via che ha dato prova di produrre buoni frutti. Tanto più che, così operando, si sarebbe nel pieno solco tracciato dalla Commissione parlamentare d'indagine sull'attuazione della legge 194/78, che nella sua relazione conclusiva (2005) ha auspicato caldamente, per l'accoglienza della vita nascente, una virtuosa collaborazione tra pubblico e privato. Il momento è assai propizio, come ricordato. Non lasciamoci sfuggire quest'aurea occasione per contattare tutti i candidati a governatore. Sono certo che i movimenti per la vita e i centri di aiuto alla vita, unitamente al nazionale, faranno la loro parte.
(Guardia di Finanza)
I peluches, originariamente disegnati da un artista di Hong Kong e venduti in tutto il mondo dal colosso nella produzione e vendita di giocattoli Pop Mart, sono diventati in poco tempo un vero trend, che ha generato una corsa frenetica all’acquisto dopo essere stati indossati sui social da star internazionali della musica e del cinema.
In particolare, i Baschi Verdi del Gruppo Pronto Impiego, attraverso un’analisi sulla distribuzione e vendita di giocattoli a Palermo nonché in virtù del costante monitoraggio dei profili social creati dagli operatori del settore, hanno individuato sette esercizi commerciali che disponevano anche degli iconici Labubu, focalizzando l’attenzione soprattutto sul prezzo di vendita, considerando che gli originali, a seconda della tipologia e della dimensione vengono venduti con un prezzo di partenza di circa 35 euro fino ad arrivare a diverse migliaia di euro per i pezzi meno diffusi o a tiratura limitata.
A seguito dei preliminari sopralluoghi effettuati all’interno dei negozi di giocattoli individuati, i finanzieri ne hanno selezionati sette, i quali, per prezzi praticati, fattura e packaging dei prodotti destavano particolari sospetti circa la loro originalità e provenienza.
I controlli eseguiti presso i sette esercizi commerciali hanno fatto emergere come nella quasi totalità dei casi i Labubu fossero imitazioni perfette degli originali, realizzati con materiali di qualità inferiore ma riprodotti con una cura tale da rendere difficile per un comune acquirente distinguere gli esemplari autentici da quelli falsi. I prodotti, acquistati senza fattura da canali non ufficiali o da piattaforme e-commerce, perlopiù facenti parte della grande distribuzione, venivano venduti a prezzi di poco inferiori a quelli praticati per gli originali e riportavano loghi, colori e confezioni del tutto simili a questi ultimi, spesso corredati da etichette e codici identificativi non conformi o totalmente falsificati.
Questi elementi, oltre al fatto che in alcuni casi i negozi che li ponevano in vendita fossero specializzati in giocattoli originali di ogni tipo e delle più note marche, potevano indurre il potenziale acquirente a pensare che si trattasse di prodotti originali venduti a prezzi concorrenziali.
In particolare, in un caso, l’intervento dei Baschi Verdi è stato effettuato in un negozio di giocattoli appartenente a una nota catena di distribuzione all’interno di un centro commerciale cittadino. Proprio in questo negozio è stato rinvenuto il maggior numero di pupazzetti falsi, ben 3.000 tra esercizio e magazzino, dove sono stati trovati molti cartoni pieni sia di Labubu imbustati che di scatole per il confezionamento, segno evidente che gli addetti al negozio provvedevano anche a creare i pacchetti sorpresa, diventati molto popolari proprio grazie alla loro distribuzione tramite blind box, ossia scatole a sorpresa, che hanno creato una vera e propria dipendenza dall’acquisto per i collezionisti di tutto il mondo. Tra gli esemplari sequestrati anche alcune copie più piccole di un modello, in teoria introvabile, venduto nel mese di giugno a un’asta di Pechino per 130.000 euro.
Soprattutto in questo caso la collocazione all’interno di un punto vendita regolare e inserito in un contesto commerciale di fiducia, unita alla cura nella realizzazione delle confezioni, avrebbe potuto facilmente indurre in errore i consumatori convinti di acquistare un prodotto ufficiale.
I sette titolari degli esercizi commerciali ispezionati e destinatari dei sequestri degli oltre 10.000 Labubu falsi che, se immessi sul mercato avrebbero potuto fruttare oltre 500.000 euro, sono stati denunciati all’Autorità Giudiziaria per vendita di prodotti recanti marchi contraffatti.
L’attività s’inquadra nel quotidiano contrasto delle Fiamme Gialle al dilagante fenomeno della contraffazione a tutela dei consumatori e delle aziende che si collocano sul mercato in maniera corretta e che, solo nell’ultimo anno, ha portato i Baschi Verdi del Gruppo P.I. di Palermo a denunciare 37 titolari di esercizi commerciali e a sequestrare oltre 500.000 articoli contraffatti, tra pelletteria, capi d’abbigliamento e profumi recanti marchi delle più note griffe italiane e internazionali.
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