2018-04-15
Le bombe per Assad cadono sul centrodestra
Le bombe di Trump sulla Siria pare che non abbiano fatto né vittime né grandi devastazioni. In compenso qualche danno lo hanno provocato in Italia, perché ieri, quando la politica si è svegliata con la notizia dell'attacco, lanciato oltre che dagli americani anche da inglesi e francesi, le reazioni non sono state unanimi. Anzi. Il primo obiettivo centrato dalla polemica post bombardamento è il centrodestra, che già era vicino all'esplosione, ma ieri è letteralmente andato in pezzi. Dopo la salita al Colle per le consultazioni, la temperatura fra Matteo Salvini e Silvio Berlusconi era prossima al punto di fusione. Il primo infatti non aveva fatto nulla per nascondere l'irritazione per la sceneggiata all'uscita del Quirinale, con il Cavaliere che acchiappa il microfono dopo aver monopolizzato l'attenzione e spara contro Luigi Di Maio, rimproverandogli di non conoscere l'Abc della democrazia. Ma ieri è andata anche peggio di giovedì. Già, perché alla notizia dell'attacco il segretario della Lega si era subito schierato contro i bombardamenti, giudicando «pazzesco» l'intervento, perché «il grilletto facile aiuta solo i terroristi». Neanche il tempo di digerire le frasi che dal Molise, dove è in tour elettorale in vista del voto della prossima settimana per la Regione, si è fatto vivo Berlusconi, il quale ha chiosato le parole leghiste dicendo che «a volte è meglio tacere». Insomma, i due non solo non la smettono di trattarsi più da nemici che da amici, ma adesso siamo ai cazzotti in faccia. Quello che dice il primo, il secondo lo smentisce e viceversa: un bel modo di presentarsi agli italiani che attendono il nuovo governo. Qualcuno potrebbe pensare che sulle questioni estere si possano anche tenere opinioni diverse senza essere costretti a divorziare. In realtà la vicenda dimostra che lo scontro non riguarda qualche cosa di lontano, dove ognuno ha diritto a votare secondo coscienza. Ma è la spia di un malessere più profondo, che rivela ciò che da tempo pensiamo e cioè che Salvini e Berlusconi non sono fatti per andare d'accordo. Troppo diversi per cultura e visione, troppo lontani a causa di interessi e obiettivi. Diciamo la verità: nessuno di noi avrebbe scommesso un soldo sul fatto che alle elezioni del 4 marzo Lega e Forza Italia si sarebbero presentate insieme. Infatti, se ai tempi di Umberto Bossi c'era il rito della cena del lunedì ad Arcore, dove i due leader con la mediazione di Giulio Tremonti si mettevano d'accordo e trovavano la «quadra», tra Salvini e il Cavaliere non c'è nessuna camera di compensazione. I due viaggiano su strade lontane e non hanno alcun disegno per colpire uniti. Inutile girarci intorno, fino all'ultimo Berlusconi ha coltivato il disegno di un'alleanza con il Pd, ritenendo più organica alla sua la leadership di Matteo Renzi rispetto a quella di Matteo Salvini. E anche ora i consiglieri del Cav parlano più volentieri con quelli dell'ex segretario Pd che con gli uomini del segretario leghista. Ogni giorno le pagine dei quotidiani riferiscono di un colloquio riservato o di un messaggio scambiato fra l'entourage berlusconiano e gli appartenenti al Giglio magico, mentre sono pochi e radi i contatti fra Arcore e via Bellerio, che pure distano in linea d'aria appena 17 chilometri. Le bombe di Trump dunque sono state solo una miccia accesa sotto a una polveriera che era già pronta ad esplodere, perché il solco apertosi in queste ore fra Lega e Forza Italia viene da lontano. Se si rileggono le cronache dei mesi scorsi ce ne si rende conto agevolmente. Salvini non ha mai riconosciuto Berlusconi come leader del centrodestra, ma Berlusconi ha sempre pensato che i consensi superiori di Forza Italia avrebbero piegato la resistenza dell'erede di Bossi. Così non è stato, perché alla fine i voti della Lega hanno sopravanzato quelli del Cavaliere e da qui discende tutto. Giunti a questo punto è però lecito chiedersi che succederà, nel centrodestra e nel Paese, che, giova ricordarlo, è guidato da un governo dimissionario in un momento in cui sono richieste decisioni nazionali e internazionali di non poco conto. La nostra sensazione è che Berlusconi non voglia fare un governo con i 5 stelle, anche perché i 5 stelle non vogliono farlo con lui. Il Cav preferisce un governo del presidente, con dentro tutti, in modo che tutti i partiti risultino annacquati. Sul Colle dunque si sono inventati la formula del governo di traghettamento. Ma è nostra convinzione che alla fine su quel traghetto la Lega non salirà e forse non ci saliranno neppure i grillini. Il che significa tre cose: la prima è che avremo un governo di minoranza, la seconda che fra un anno si tornerà a votare e la terza che la resa dei conti nel centrodestra è cominciata e si protrarrà fino al prossimo voto, quando gli elettori pronunceranno la parola fine.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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