
L'ex attaccante della Nazionale trovato positivo ai controlli. Rintracciata della dorzolamide, sostanza presente anche nei colliri, dopo Benevento-Genoa del 12 maggio 2018. La squalifica metterebbe la parola fine a un'avventura funestata da grane e infortuni.La legge di Murphy è sempre in agguato, se qualcosa può andare storto lo farà. E se nella vita ogni mille Paperoga c'è un Gastone, questo non è certamente Giuseppe Rossi, che un giorno Enzo Bearzot soprannominò Pepito perché gli ricordava nel dribbling secco, nel guizzo in area, nel killer instinct del cobra, il suo Pablito mondiale. Era un campione al quale dare le chiavi della squadra, ma non ha mai potuto dimostrarlo. E ieri, a 31 anni, dopo l'ennesimo inciampo agonistico (il Genoa non gli aveva rinnovato il contratto a fine stagione e lui era senza squadra), ecco la mazzata finale: positivo all'antidoping. Se finora non è riuscito a fermarlo il destino, ci prova il giudice federale. Il controllo effettuato il 12 maggio scorso dopo Benevento-Genoa non lascia dubbi: positivo alla dorzolamide, un agente antiglaucoma, serve per diminuire la produzione di umore acqueo. Tradito da tre gocce di collirio come a suo tempo Edgar Davids. Ma mentre il mediano della Juventus giocava con gli occhiali protettivi per un problema cronico agli occhi, nei due interrogatori ai quali è stato sottoposto finora Rossi ha negato di avere mai usato collirio. La sostanza è vietata, la Procura antidoping ha chiesto un anno di squalifica, il processo sarà celebrato il primo ottobre.«Sarò più forte della sfortuna», ripetono come un mantra i maltrattati dal destino. Ecco, se Pepito Rossi decidesse di rompere la convenzione, mandare tutti a quel paese e ritirarsi a Manhattan a cercare d'inverno le anatre in Central Park nessuno potrebbe obiettare alcunché. Poteva essere un fuoriclasse decisivo, ha collezionato sei interventi ai legamenti delle ginocchia in otto anni; poteva fare la differenza in Nazionale, ha guardato mondiali ed europei alla tivù con il ghiaccio sulle articolazioni. Un giorno, mentre Villarreal era ai suoi piedi, i giornali spagnoli si azzardarono ad appaiare la sua foto a quella di Leo Messi. Pepito è alto 1,75, quattro centimetri più di lui; leggero come lui (72 kg), scattante come lui, rapace come lui. Stava anche segnando come lui. Era il 2011, aveva centrato la porta 32 volte, con 11 gol in Europa league (record del club), dove una città di 50.000 abitanti ha le vertigini e sogna il paradiso in terra prima di essere eliminata dal Porto in semifinale. Pepito alla Valenciana, per lui era impossibile fare dieci metri senza codazzo e senza fotografi dietro le siepi, pronti a immortalare il suo sorriso da torero ganador. In quella fiesta, durante quei quattro anni dorati in Spagna, si materializzò anche Kalle Rummenigge: il Bayern era pronto a mettere 25 milioni sul piatto per farlo giocare accanto a Mario Gomez. Due giorni prima dell'accordo, durante una partita contro il Real Madrid, rottura del legamento crociato del ginocchio destro: tre mesi di prognosi. Nuova lesione in allenamento durante il recupero: altri quattro mesi. Complicazioni alle cartilagini, nuova operazione: altri sei mesi. Pepito col gambone, Villarreal in serie B, i treni della vita che passano veloci e tu con le stampelle non puoi rincorrerli.Poteva essere un top player il figlio di Fernando, allenatore dilettante e insegnante di spagnolo, e di Cleonilde (anch'essa docente di lingue), cresciuto nel New Jersey prima di rientrare con la famiglia a Parma. Il padre ci crede, lo accompagna nelle giovanili del Parma e lo segue quando, a 17 anni, quel suo ragazzo mancino e già micidiale sullo scatto breve è ingaggiato dal Manchester United di sir Alex Ferguson. Due stagioni con i Red devils, il debutto in Champions league, i primi gol. Ma è giovane e per crescere dritto va in prestito al Newcastle e poi al Parma. Ritorno provvidenziale, 9 gol in 19 partite e la salvezza degli emiliani. In Italia tutti lo ammirano, ma stanno a guardare. Il Manchester lo richiama, poi lo cede al Villarreal e lui esplode, diventa il sindaco della città con quel numero 49 sulla maglia dedicato all'anno di nascita del papà, morto nel frattempo. Dopo gli infortuni decide di ripartire da Firenze, è il 2013 e vorrebbe un posto per i mondiali brasiliani. Gioca e segna come ha sempre fatto. Fino al 5 gennaio quando si infortuna di nuovo, con il Livorno, in seguito a un fallo di Leandro Rinaudo che scatena le prime scene di violenza da social network applicate allo sport. Pepito non vuol perdersi i mondiali: recupera, rientra, a maggio fa gol al Sassuolo. Ma il ct Cesare Prandelli lo lascia a casa e la compagna di Rossi, Jenna Sodano, lo insulta su Twitter.Il destino non molla la presa, Pepito torna e si fa male. Una maledizione. Fino alla scommessa con il Genoa nei sei mesi della scorsa stagione; una punta da supportare in una squadra che aveva l'imperativo di difendersi per salvarsi. Arrivederci. Tutto poteva aspettarsi Pepito, anche le lacrime. Non il collirio.
Roberto Crepaldi
La toga progressista: «Voterò no, ma sono in disaccordo con il Comitato e i suoi slogan. Separare le carriere non mi scandalizza. Il rischio sono i pubblici ministeri fuori controllo. Serviva un Csm diviso in due sezioni».
È un giudice, lo anticipiamo ai lettori, contrario alla riforma della giustizia approvata definitivamente dal Parlamento e voluta dal governo, ma lo è per motivi diametralmente opposti rispetto ai numerosi pm che in questo periodo stanno gridando al golpe. Roberto Crepaldi ritiene, infatti, che l’unico rischio della legge sia quello di dare troppo potere ai pubblici ministeri.
Magistrato dal 2014 (è nato nel 1985), è giudice per le indagini preliminari a Milano dal 2019. Professore a contratto all’Università degli studi di Milano e docente in numerosi master, è stato componente della Giunta di Milano dell’Associazione nazionale magistrati dal 2023 al 2025, dove è stato eletto come indipendente nella lista delle toghe progressiste di Area.
Antonella Sberna (Totaleu)
Lo ha dichiarato la vicepresidente del Parlamento Ue Antonella Sberna, in un'intervista a margine dell'evento «Facing the Talent Gap, creating the conditions for every talent to shine», in occasione della Gender Equality Week svoltasi al Parlamento europeo di Bruxelles.
Ansa
Mirko Mussetti («Limes»): «Trump ha smosso le acque, ma lo status quo conviene a tutti».
Le parole del presidente statunitense su un possibile intervento militare in Nigeria in difesa dei cristiani perseguitati, convertiti a forza, rapiti e uccisi dai gruppi fondamentalisti islamici che agiscono nel Paese africano hanno riportato l’attenzione del mondo su un problema spesso dimenticato. Le persecuzioni dei cristiani In Nigeria e negli Stati del Sahel vanno avanti ormai da molti anni e, stando ai dati raccolti dall’Associazione Open Doors, tra ottobre 2023 e settembre 2024 sono stati uccisi 3.300 cristiani nelle province settentrionali e centrali nigeriane a causa della loro fede. Tra il 2011 e il 2021 ben 41.152 cristiani hanno perso la vita per motivi legati alla fede, in Africa centrale un cristiano ha una probabilità 6,5 volte maggiore di essere ucciso e 5,1 volte maggiore di essere rapito rispetto a un musulmano.






