Le motivazioni della sentenza di assoluzione al processo Eni dimostrano l'urgenza di una riforma profonda. Con buona pace di Piercamillo Davigo, non è affatto vero che la Procura si comporta sempre come un organo neutrale
Le motivazioni della sentenza di assoluzione al processo Eni dimostrano l'urgenza di una riforma profonda. Con buona pace di Piercamillo Davigo, non è affatto vero che la Procura si comporta sempre come un organo neutraleL'altra sera in tv, Piercamillo Davigo ha spiegato, con la perentorietà da tutti conosciuta, che in un processo non esiste alcuno svantaggio tra accusa e difesa, perché il pm è punito se non dice o occulta la verità, mentre l'avvocato dell'imputato può essere condannato proprio se davanti alla Corte racconta fatti veri che possono danneggiare il suo cliente. Tradotto, secondo l'ex esponente del pool di Mani pulite, il vantaggio ce l'hanno i legali, perché il pubblico ministero è al servizio della legge, mentre i difensori sono al servizio di interessi privati e dunque, in udienza, possono anche raccontare balle. La sentenza tv dell'ex capo di Autonomia e indipendenza, una delle correnti della magistratura, non ammette dubbi: «Sapendo che l'imputato è innocente, se un pm ne chiede la condanna commette il delitto di calunnia. E se sostiene questa sua richiesta con atti falsi, redatti da lui o da altri, commette il delitto di falso ideologico o di falso in atto pubblico». Chiaro, no? La pubblica accusa non può fabbricare prove, non può omettere qualche cosa, non può accusare un innocente sapendo che è innocente. Ad ascoltare Davigo, sembra tutto perfetto, tutto al di sopra delle parti, tutto a tutela dell'imputato. Un modello da prendere a esempio, così come avrebbe fatto il Consiglio d'Europa, raccomandando agli Stati membri di imparare dall'Italia, Paese che, pur disponendo della giustizia più lenta del mondo, pur avendo un arretrato processuale di anni, pur mandando in prescrizione una montagna di reati, sarebbe un sistema che funziona proprio per le garanzie nei confronti dell'imputato e per la competenza dei suoi magistrati.Peccato che appena finito di ascoltare le parole di Davigo, uno poi legga la sentenza con cui il tribunale di Milano ha mandato assolti i vertici dell'Eni accusati di aver pagato una tangente miliardaria ad alcuni uomini politici e faccendieri nigeriani. Tra le motivazioni del proscioglimento, c'è un passaggio da brivido: nel documento di 482 pagine, i giudici della VII sezione penale scrivono che la Procura avrebbe omesso di depositare fra gli atti del procedimento «un documento che, portando alla luce l'uso strumentale che Armanna intendeva fare delle proprie dichiarazioni e dell'auspicata conseguente attivazione dell'autorità inquirente, reca straordinari elementi in favore degli imputati». In pratica, i giudici spiegano che senza il deposito di quel documento sarebbe stato sottratto «alla conoscenza delle difese e del tribunale un dato processuale di estrema rilevanza». Cioè il giudizio sarebbe stato viziato dall'occultamento di una prova a favore degli imputati.Alcuni lettori probabilmente ricorderanno di che cosa io stia parlando, perché La Verità è stato l'unico giornale che quel documento lo ha raccontato quando ancora nessuno o quasi ne conosceva l'esistenza. Si tratta di un video registrato dall'avvocato Pietro Amara, ossia di colui che l'altro ieri la Procura di Potenza ha fatto arrestare, in cui è possibile ascoltare una conversazione con Vincenzo Armanna, ex dirigente dell'Eni che insieme al succitato legale è stato uno dei testimoni chiave dei pm di Milano contro i vertici della società petrolifera. Nella registrazione, Armanna, che due giorni dopo si recherà in Procura accusando i manager del gruppo, manifesta l'intenzione di «ricattare» i vertici del cane a sei zampe, preannunciando l'intenzione di rivolgersi ai pm milanesi per far arrivare «una valanga di merda» e «un avviso di garanzia» all'amministratore delegato e ai suoi colleghi. In sostanza, si capisce che Armanna aveva «interesse a cambiare i capi dell'Eni per sostituirli con uomini di suo gradimento, così da poter essere agevolato in alcuni affari petroliferi che stavano a cuore a lui e a Pietro Amara».Vi state perdendo nel guazzabuglio di nomi? Niente paura, per un po' ho faticato anche io a raccapezzarmi. In poche parole, due tizi si dicono pronti a vuotare il sacco con i pm, per poter togliere di mezzo chi li intralcia, un intento che non pare certo quello di fare giustizia, ma semmai di fare affari. Scrivono i giudici: «L'intenzione era quella di gettare un alone di illiceità sulla gestione da parte di Eni».Peccato che questa prova chiave, che avrebbe dovuto chiarire tutto fin da subito, evitando un processo dispendioso e un impegno di risorse pubbliche, i pm non l'hanno prodotta, dimenticandosene inspiegabilmente, e dunque il testimone dell'accusa animato da così poco disinteressate intenzioni, ha potuto trascinare per anni un procedimento che probabilmente non sarebbe mai dovuto neppure iniziare. Dunque torniamo all'inizio, alla parole di Davigo pronunciate in tv senza contraddittorio, così sicure, ma così lontane dalla realtà se messe a confronto con ciò che accade in certe aule di giustizia. Una cosa tuttavia appare certa: il Guardasigilli, Marta Cartabia, ha un'occasione formidabile. Mai come in questa stagione, dopo lo scandalo Palamara, dopo le vicende che hanno inguaiato il Csm, dopo gli arresti di magistrati corrotti, si è sentito il bisogno di una riforma che faccia in modo che la legge sia davvero uguale per tutti. Anche per i magistrati.
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Nel suo ultimo libro Paolo Nori, le cui lezioni su Dostoevskij furono oggetto di una grottesca polemica, esalta i grandi della letteratura: se hanno sconfitto la censura sovietica, figuriamoci i ridicoli epigoni di casa nostra.
Obbligazionario incerto a ottobre. La Fed taglia il costo del denaro ma congela il Quantitative Tightening. Offerta di debito e rendimenti reali elevati spingono gli operatori a privilegiare il medio e il breve termine.
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Il progetto del corridoio fra India, Medio Oriente ed Europa e il patto difensivo con il Pakistan entrano nel dossier sulla normalizzazione con Israele, mentre Donald Trump valuta gli effetti su cooperazione militare e stabilità regionale.
Le trattative in corso tra Stati Uniti e Arabia Saudita sulla possibile normalizzazione dei rapporti con Israele si inseriscono in un quadro più ampio che comprende evoluzioni infrastrutturali, commerciali e di sicurezza nel Medio Oriente. Un elemento centrale è l’Imec, ossia il corridoio economico India-Medio Oriente-Europa, presentato nel 2023 come iniziativa multinazionale finalizzata a migliorare i collegamenti logistici tra Asia meridionale, Penisola Arabica ed Europa. Per Riyad, il progetto rientra nella strategia di trasformazione economica legata a Vision 2030 e punta a ridurre la dipendenza dalle rotte commerciali tradizionali del Golfo, potenziando collegamenti ferroviari, marittimi e digitali con nuove aree di scambio.
La piena operatività del corridoio presuppone relazioni diplomatiche regolari tra Arabia Saudita e Israele, dato che uno dei tratti principali dovrebbe passare attraverso porti e nodi logistici israeliani, con integrazione nelle reti di trasporto verso il Mediterraneo. Fonti statunitensi e saudite hanno più volte collegato la normalizzazione alle discussioni in corso con Washington sulla cooperazione militare e sulle garanzie di sicurezza richieste dal Regno, che punta a formalizzare un trattato difensivo bilaterale con gli Stati Uniti.
Nel 2024, tuttavia, Riyad ha firmato in parallelo un accordo di difesa reciproca con il Pakistan, consolidando una cooperazione storicamente basata su forniture militari, addestramento e supporto politico. Il patto prevede assistenza in caso di attacco esterno a una delle due parti. I governi dei due Paesi lo hanno descritto come evoluzione naturale di rapporti già consolidati. Nella pratica, però, l’intesa introduce un nuovo elemento in un contesto regionale dove Washington punta a costruire una struttura di sicurezza coordinata che includa Israele.
Il Pakistan resta un attore complesso sul piano politico e strategico. Negli ultimi decenni ha adottato una postura militare autonoma, caratterizzata da un uso esteso di deterrenza nucleare, operazioni coperte e gestione diretta di dossier di sicurezza nella regione. Inoltre, mantiene legami economici e tecnologici rilevanti con la Cina. Per gli Stati Uniti e Israele, questa variabile solleva interrogativi sulla condivisione di tecnologie avanzate con un Paese che, pur indirettamente, potrebbe avere punti di contatto con Islamabad attraverso il patto saudita.
A ciò si aggiunge il quadro interno pakistano, in cui la questione israelo-palestinese occupa un ruolo centrale nel dibattito politico e nell’opinione pubblica. Secondo analisti regionali, un eventuale accordo saudita-israeliano potrebbe generare pressioni su Islamabad affinché chieda rassicurazioni al partner saudita o adotti posizioni più assertive nei forum internazionali. In questo scenario, l’esistenza del patto di difesa apre la possibilità che il suo richiamo possa essere utilizzato sul piano diplomatico o mediatico in momenti di tensione.
La clausola di assistenza reciproca solleva inoltre un punto tecnico discusso tra osservatori e funzionari occidentali: l’eventualità che un’azione ostile verso Israele proveniente da gruppi attivi in Pakistan o da reticolati non statali possa essere interpretata come causa di attivazione della clausola, coinvolgendo formalmente l’Arabia Saudita in una crisi alla quale potrebbe non avere interesse a partecipare. Analoga preoccupazione riguarda la possibilità che operazioni segrete o azioni militari mirate possano essere considerate da Islamabad come aggressioni esterne. Da parte saudita, funzionari vicini al dossier hanno segnalato la volontà di evitare automatismi che possano compromettere i negoziati con Washington.
Sulle relazioni saudita-statunitensi, la gestione dell’intesa con il Pakistan rappresenta quindi un fattore da chiarire nei colloqui in corso. Washington ha indicato come priorità la creazione di un quadro di cooperazione militare prevedibile, in linea con i suoi interessi regionali e con le esigenze di tutela di Israele. Dirigenti israeliani, da parte loro, hanno riportato riserve soprattutto in relazione alle prospettive di trasferimenti tecnologici avanzati, tra cui sistemi di difesa aerea e centrali per la sorveglianza delle rotte commerciali del Mediterraneo.
Riyadh considera la normalizzazione con Israele parte di un pacchetto più ampio, che comprende garanzie di sicurezza da parte statunitense e un ruolo definito nel nuovo assetto economico regionale. Il governo saudita mantiene l’obiettivo di presentare il riconoscimento di Israele come passo inserito in un quadro di stabilizzazione complessiva del Medio Oriente, con benefici economici e infrastrutturali per più Paesi coinvolti. Tuttavia, la gestione del rapporto con il Pakistan richiede una definizione più precisa delle implicazioni operative del patto di difesa, alla luce del nuovo equilibrio a cui Stati Uniti e Arabia Saudita stanno lavorando.
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