
Ennesimo strafalcione per l'esperto di estrema destra di Repubblica: «Nel codice nero 88 sta per SS». Ma anche Gianluigi Buffon, che dovette cambiare numero di maglia, sa che significa «Heil Hitler». In passato scambiò un carabiniere per un mafioso.Ci sono informazioni di cui, diciamolo, si può fare tranquillamente a meno. Una di queste è quella relativa alla simbologia degli ambienti neonazisti americani, che talora fa capolino anche nella destra radicale italiana. Se ne può fare a meno, sempre se non ci si spacci per esperti dell'argomento e si pretenda addirittura di essere portatori di una preziosa testimonianza civile essenziale alla vita democratica di questo Paese. È il caso di Paolo Berizzi, il pistarolo nero di Repubblica, un cronista che da anni segue praticamente solo le cronache dell'estrema destra. Senza averci capito granché, a quanto pare. L'ultima perla del giornalista riguarda l'interesse della destra radicale per le arti marziali. Fascisti che fanno sport da combattimento: uno scoop che resterà negli annali… Il diavolo, però, è nei dettagli. Parlando infatti di un lottatore che avrebbe idee politiche estremiste, cosa peraltro ancora non proibita, in Italia, Berizzi scrive: «Ha esibito davanti ai propri sostenitori e a qualche saluto romano i suoi tatuaggi: tra gli altri, il numero 88 tatuato sul petto (nel codice dell'estrema destra l'88 sta per l'acronimo SS)». Peccato che, almeno dai tempi della celebre maglia del Parma numero 88 scelta da Gianluigi Buffon e poi ritirata dopo la bufera mediatica, anche i bambini sanno che quel numero, in certi ambienti del radicalismo politico, alluderebbe alle iniziali di «Heil Hitler», il noto saluto della Germania nazionalsocialista. La H è infatti l'ottava lettera dell'alfabeto e quindi HH è uguale a «Heil Hitler». Ce ne sono altre, di numerologie estremiste: il numero 14, per esempio, fa allusione alle «14 parole», ovvero al credo del suprematista americano David Lane: «We must secure the existence of our people and a future for white children», ovvero «Dobbiamo assicurare l'esistenza del nostro popolo e un futuro per i bambini bianchi». E così via. Si vive benissimo, come dicevamo, ignorando l'esistenza di questi codici gruppuscolari. Resta però il fatto che, se ci si presenta come esperti dell'argomento, dire che il numero 88 sia «l'acronimo delle SS» (e in che modo, poi?) equivale ad affermare che nel calcio si gioca in 12 per un cronista sportivo. Tanto più che Berizzi non è un oscuro blogger di estrema sinistra i cui strafalcioni lasciano il tempo che trovano, ma una figura chiave in quella campagna scandalistica contro la marea nera montante che, nei mesi della campagna elettorale, monopolizzò le prime pagine e l'agenda politica del governo stesso, con tanto di minaccia di leggi speciali per fermare l'orda nera. Fu Berizzi, tanto per dirne una, a lanciare lo scoop del «bagnino fascista» di Chioggia. Di quel bagno con goliardici proclami mussoliniani si parlò per settimane, poi ovviamente la vicenda fu archiviata. Ma intanto il caso servì per alimentare l'impressione artefatta di un'Italia sull'orlo della dittatura. E a far vendere qualche copia in più dell'ultima inchiesta berizziana, sobriamente intitolata Nazitalia. Ma l'eccesso di zelo, a volte, gioca brutti scherzi al nostro segugio. Come quando, sempre su Repubblica, sollevò il caso della «bandiera neonazista» a un comizio milanese di Matteo Salvini. Si trattava della bandiera del Kekistan, uno Stato immaginario creato sui social a fini satirici dai fan americani di Donald Trump. Insomma, era una burla, una cosa fatta per ridere, che invece per il giornalista testimoniava la pericolosa deriva estremista della Lega. Ma di «berizzate» ce ne sono a bizzeffe: pensiamo a quando dedicò una paginata a una colonia estiva di Forza nuova, le cui terribili attività eversive erano lavoretti con «i colori del nazionalsocialismo e del Reich» (?), o quando, in un articolo contro un evento del movimento Lealtà azione, confuse la «ruota solare» (il cerchio con una croce al centro) con la svastica. Tutta roba su cui esistono libri molto dettagliati, ma per cui basterebbe anche solo un'occhiata a Wikipedia. Il top del metodo Berizzi, tuttavia, è stato raggiunto in due occasioni. In una, pubblicò in un suo libro una foto di Ignazio La Russa immortalato vicino a un tizio definito come «esponente della 'ndrangheta», quando invece era un… carabiniere (Bompiani fu costretta a ritirare il libro e a ristamparlo emendato). In un'altra, pubblicò la storia di un bambino di Cantù a cui i genitori fascisti avevano insegnato a fare il saluto romano, con grande sgomento delle maestre. Anche in quel caso si trattava di una bufala, tanto che l'Ordine dei giornalisti emise una sanzione di censura contro l'autore del pezzo. Insomma, una sfilza enorme di errori, bufale, sciatterie e imprecisioni che avrebbero costretto chiunque a cambiare, se non mestiere, quanto meno argomento. Paolo Berizzi, invece, continua a presentarsi come esperto di estrema destra e a dare tutte le lezioni del caso. Ma del resto, perché approfondire? In fondo parliamo solo di fascisti.
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