2021-09-24
La violenza verbale diventa legittima se serve a schernire il nemico «no vax»
Etichettare chiunque dissenta ha lo stesso intento offensivo degli insulti razzisti e xenofobi. Eppure nessuno s'indigna.Quando una persona viene etichettata come «negro», «terrone» o «migrante», è solitamente implicito, e talvolta esplicito - per esempio se il sostantivo è accompagnato da una qualifica come «sporco» - un giudizio negativo sull'intera categoria cui lo si dichiara appartenente. I fini dicitori che allo stadio accoglievano il calciatore Mario Balotelli con lo slogan «Non ci sono negri italiani» non stavano enunciando una frase esistenziale negativa, come sarebbero «Non ci sono elefanti italiani» o «Non ci sono italiani alti tre metri»; stavano invece prendendo vigorosamente le distanze da una persona che, a loro garbato modo di vedere, usurpava la nobile cittadinanza del Belpaese alla quale loro stessi ritenevano di avere incontestabile diritto. Bene hanno fatto, dunque, quanti hanno stigmatizzato il razzismo manifestato da queste brutali volgarità (l'ironia è appropriata, ma non vorrei che qualcuno non la capisse) e hanno cercato di elevare una barriera contro la loro circolazione. Immaginiamo però che qualcuno usi le medesime espressioni senza nessun intento dispregiativo, esplicito o implicito. Per lui (o lei) hanno un valore meramente descrittivo: si riferiscono a persone che hanno la pelle di un certo colore, o provengono dall'Italia del Sud, o hanno varcato una frontiera per raggiungerci dalla loro nazione d'origine. Una lingua è fatta perché ci si capisca, potrebbe spiegare costui (o costei); e se io dico «negro», «terrone» o «migrante» gli altri mi capiscono - tutto qui. «Un negro mi ha venduto dei tappeti», «Il mio portinaio è un terrone» e «Ho visto un migrante all'angolo della strada» sono frasi perfettamente comprensibili, che non offendono nessuno, che non commettono nessuna violenza. E invece no. Ogni persona è una realtà complessa, con una sua storia unica e con qualità (conseguenze in parte della sua storia) inconfondibili con quelle di chiunque altro. Ridurla a un aggettivo la umilia, nega la sua straordinarietà, quel miracolo che, secondo Hannah Arendt, viene rinnovato con la venuta al mondo di ognuno di noi. «Il fatto che l'uomo sia capace di azione» dice Arendt, il più grande filosofo del Novecento, in Vita activa, inaugurando una filosofia della nascita dopo 2.000 anni di filosofia maschile della morte, «significa che da lui ci si può aspettare l'inaspettato, che è in grado di compiere quel che è infinitamente improbabile. E questo a sua volta è possibile solo perché ogni uomo è unico, cosicché con ogni nascita viene al mondo qualcosa di unicamente nuovo». Quindi io mi trovo a obiettare ogniqualvolta sento dire, senza nessuna intenzione polemica, che «i toscani», o «gli inglesi», o «la mia (o la tua) generazione», sono così e così, perché mi sembra che si faccia d'ogni erba un fascio, che si violi la specificità di qualunque individuo si trovi a essere toscano, o inglese, o di una certa generazione. C'è la statistica, certo, e ci fornisce utili indicazioni; ma c'è anche il livello individuale, e a livello individuale, come osservava Trilussa, se statisticamente abbiamo mangiato un pollo a testa, magari tu ne hai mangiati due e io nessuno. Con questa premessa, veniamo a un'espressione che è stata molto usata di questi tempi: «no vax». È chiaro che molti dei suoi usi hanno un intento offensivo, esplicito o implicito. I no vax vengono spesso qualificati come stupidi e folli, e, con o senza qualifiche, si augurano loro campi di concentramento, torture e camere a gas. Mi è capitato però di discorrere in proposito con amici (o pseudotali, se è vero che l'amico si vede nel momento del bisogno, o almeno della difficoltà, della tensione) i quali hanno insistito su una loro utilizzazione del tutto neutrale di questo termine. «Il 99% degli italiani capisce chi intendo» ha detto uno di loro «e tanto basta a giustificare il mio uso del termine». Al che la mia domanda, non al (presunto) amico ma a me stesso, è «Siamo sicuri di capire chi si intende?». Nelle ultime settimane decine di migliaia di persone si sono ritrovate in piazza per protestare contro i decreti del governo. Ognuna di loro aveva le sue diverse motivazioni. Qualcuna era contraria ai vaccini tout court; qualcuna era contraria a una terapia genica sperimentale impropriamente denominata «vaccino»; qualcuna non era contraria né agli uni né all'altra ma riteneva un abuso che si introducesse un obbligo anticostituzionale neppure troppo strisciante. E potrei continuare. Etichettarle tutte come no vax significa negare queste loro diversità, e farlo, perlopiù, imponendo loro a forza un termine che non hanno scelto - così come non sono state le persone di colore a scegliere il termine «negro», le persone originarie dell'Italia del Sud a scegliere il termine «terrone» o le persone che vengono a noi da Paesi stranieri a scegliere il termine «migrante». È violenza, pura e semplice, riduzione dell'essere umano al minimo comun denominatore, e funge da premessa per quell'altra violenza più ovvia dell'insulto e dello scherno, dei campi di concentramento e delle camere a gas. Ho dunque una modesta richiesta, che sono sicuro (ahimè) lascerà il tempo che trova. Non usiamo più questa espressione. Quando vogliamo descrivere quel che accade in Italia, diciamo, per esempio: «Alcune migliaia di cittadini si sono ritrovate in piazza per protestare contro le politiche del governo».
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)