2021-03-17
Cade il feticcio del rischio zero. E pure quello dei regolatori
Sui vaccini tutti sono pronti a tollerare una soglia di inevitabili complicazioni. Però è surreale che ci si stupisca dello stop al primo dubbio di effetti nocivi dopo mesi in cui si è mirato al «contagio zero» e si è trattata la scienza come un dogma di fede La pandemia ha ristretto il campo delle idee a disposizione: alle strette, vincono quelle che la cultura prevalente mette sul piatto in quel momento. Non è detto siano le migliori, ma poi cambiarle diventa quasi impossibile. Dal «paziente 1», e a prezzo di incredibili contraddizioni, vediamo in azione una serie di concetti diventati inamovibili, e assurti a puri dogmi. Solo che, non avendone l'adeguata impenetrabilità teologica, dopo mesi tendono decisamente a mostrare la corda.Si avvera in maniera imprevedibile ciò che George Orwell scriveva a proposito del totalitarismo: «Stabilisce alcuni dogmi inconfutabili e li modifica da un giorno all'altro. Ha bisogno di dogmi, perché necessita dell'obbedienza assoluta dei suoi sudditi, ma non può evitare le modifiche, che sono dettate dalle necessità della politica di potere. Si dichiara infallibile e allo stesso tempo attacca il concetto stesso di verità oggettiva». Il più incrollabile di questi assunti è quello, precipitato nei sempre meno giustificabili lockdown, che sia possibile, giusto e sensato mirare a una società a rischio zero di Covid. Il corollario di questa idea ardita, difesa nei fatti a ogni passaggio decisivo della battaglia contro la pandemia, è amplissimo: essa ha motivato le chiusure, le ulteriori restrizioni, il blocco delle scuole, la serrata dei ristoranti, quella degli impianti sciistici, i coprifuoco, i danni sanitari incalcolabili di cure e diagnosi sospese per le altre patologie e molto altro. Si è scelto, in forza di un principio di precauzione eretto a vette babeliche, di spingersi verso l'utopia di un «divieto di contagio» che la realtà ha mostrato impossibile, e con una pletora di controprove piuttosto convincenti.Ora, è davvero lecito stupirsi quando lo stesso principio di precauzione assolutizzato viene applicato, con tutti i debiti distinguo, sui vaccini? Ci sarà tempo per indagare tra le pieghe economiche e geopolitiche del clamoroso stop alla somministrazione di Astrazeneca in mezza Europa. E oggi sentiremo ripetere - non senza ragioni - il paragone tra i 500 e passa morti di soggetti positivi al Covid fatti registrare ieri in Italia e i sette decessi di persone cui, nell'arco di mesi, era stato inoculato un vaccino che pare indubitabilmente efficace su larga scala. Specificato che un agente immunizzante non è una malattia, e quindi è sacrosanto pretendere chiarezza e fugare ogni dubbio, resta il principio di buon senso e di razionalità, che applicato al caso in questione suona così: ci sono reazioni avverse a qualunque medicinale, ci sono eventi non necessariamente legati ai vaccini e che colpiranno persone dopo la dose, senza che quest'ultima abbia inciso nell'evento stesso.Tutto vero, e rafforzato dal fatto che ogni evidenza indica che i rischi connessi al Covid sono incommensurabilmente maggiori rispetto a quelli attribuibili ai vaccini (e che proprio per questo vanno acclarati con massima attenzione). Eppure, lo stesso realismo è mancato nel tentativo fallimentare di azzerare con astrusi provvedimenti e inedite restrizioni la malattia stessa. La pretesa di contenere il Covid con i lockdown, magari lodevole negli intenti, ha già prodotto danni certi in cambio di benefici discutibili. Ma è sempre stata giustificata in forza del potenziale azzeramento del rischio, sbandierando un «diritto alla salute» che ha finito, letteralmente, per annullare il diritto alle cure per milioni di persone pur sancito dalla Costituzione; per tacere del massacro economico e delle libertà personali, altrettanto dannoso per il benessere e la vita stessa. Qualche giorno fa ha destato scalpore il caso ligure di un cluster ospedaliero di infezioni la cui responsabilità non si è tardato ad attribuire a una presunta «infermiera no vax». Chi oggi incolpa giornali e media dell'allarmismo su Astrazeneca, come valuta questa corsa al reo, questa gogna verso chi - per usare l'inflazionata espressione ripetuta ieri da Enrico Letta - «non crede nella scienza»?Nel combattere la pandemia ci siamo adagiati su una teologia immanente che non tiene più, e come diceva Orwell si finge immutabile per ragioni di potere mentre, contemporaneamente, si contorce nelle contraddizioni. Alla fiducia sacramentale e positivistica nei vaccini fa da specchio, nello stesso momento, il dietrofront alla comparsa di una perplessità che magari un approccio più laico avrebbe potuto mettere in conto. Possiamo considerarlo eccessivo, ma non incoerente rispetto alle premesse.Ed ecco che il dogma va in cortocircuito: se i vaccini sono sicuri, se dei regolatori - enti terzi, dunque alieni dal problema del consenso - bisogna fidarsi, come non farlo adesso che gli stessi regolatori chiedono ulteriori controlli, per di più sotto dichiarata ed esplicita spinta politica? È sbagliato fidarsi dei dubbi di adesso, o delle certezze di prima? Se il problema sono i «no vax», accusati di sfruttare un caso per trarne conclusioni logicamente sproporzionate se non ontologicamente fallaci, che differenza c'è con l'atteggiamento assai prudenziale dell'Aifa?Più radicalmente: se il problema è di «credere nella scienza» (un po' come nell'irreversibilità dell'euro), imbattersi di colpo nella «rivelazione» che questa non è un atto di fede ma un metodo fatto di domande, falsificazioni e dibattito può produrre disillusioni anche violente. Forse, per dirla con il filosofo Byung Chul Han, viene al pettine un inevitabile naufragio del grande tentativo moderno di concepire una vita totalmente autonoma e autodeterminata, protetta da qualunque accidente esterno: «Chi vuole sconfiggere ogni dolore dovrà anche abolire la morte. Ma una vita senza morte né dolore non è umana, bensì non morta. L'essere umano si fa fuori per sopravvivere».
Nicola Pietrangeli (Getty Images)
Gianni Tessari, presidente del consorzio uva Durella
Lo scorso 25 novembre è stata presentata alla Fao la campagna promossa da Focsiv e Centro sportivo italiano: un percorso di 18 mesi con eventi e iniziative per sostenere 58 progetti attivi in 26 Paesi. Testimonianze dal Perù, dalla Tanzania e da Haiti e l’invito a trasformare gesti sportivi in aiuti concreti alle comunità più vulnerabili.
In un momento storico in cui la fame torna a crescere in diverse aree del pianeta e le crisi internazionali rendono sempre più fragile l’accesso al cibo, una parte del mondo dello sport prova a mettere in gioco le proprie energie per sostenere le comunità più vulnerabili. È l’obiettivo della campagna Sport contro la fame, che punta a trasformare gesti atletici, eventi e iniziative locali in un supporto concreto per chi vive in condizioni di insicurezza alimentare.
La nuova iniziativa è stata presentata martedì 25 novembre alla Fao, a Roma, nella cornice del Sheikh Zayed Centre. Qui Focsiv e Centro sportivo italiano hanno annunciato un percorso di 18 mesi che attraverserà l’Italia con eventi sportivi e ricreativi dedicati alla raccolta fondi per 58 progetti attivi in 26 Paesi.
L’apertura della giornata è stata affidata a mons. Fernando Chica Arellano, osservatore permanente della Santa Sede presso Fao, Ifad e Wfp, che ha richiamato il carattere universale dello sport, «linguaggio capace di superare barriere linguistiche, culturali e geopolitiche e di riunire popoli e tradizioni attorno a valori condivisi». Subito dopo è intervenuto Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, che ha ricordato come il raggiungimento dell’obiettivo fame zero al 2030 sia sempre più lontano. «Se le istituzioni faticano, è la società a doversi organizzare», ha affermato, indicando iniziative come questa come uno dei modi per colmare un vuoto di cooperazione.
A seguire, la presidente Focsiv Ivana Borsotto ha spiegato lo spirito dell’iniziativa: «Vogliamo giocare questa partita contro la fame, non assistervi. Lo sport nutre la speranza e ciascuno può fare la differenza». Il presidente del Csi, Vittorio Bosio, ha invece insistito sulla responsabilità educativa del mondo sportivo: «Lo sport costruisce ponti. In questa campagna, l’altro è un fratello da sostenere. Non possiamo accettare che un bambino non abbia il diritto fondamentale al cibo».
La campagna punta a raggiungere circa 150.000 persone in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente. Durante la presentazione, tre soci Focsiv hanno portato testimonianze dirette dei progetti sul campo: Chiara Concetta Starita (Auci) ha descritto l’attività delle ollas comunes nella periferia di Lima, dove la Olla común 8 de octubre fornisce pasti quotidiani a bambini e anziani; Ornella Menculini (Ibo Italia) ha raccontato l’esperienza degli orti comunitari realizzati nelle scuole tanzaniane; mentre Maria Emilia Marra (La Salle Foundation) ha illustrato il ruolo dei centri educativi di Haiti, che per molti giovani rappresentano al tempo stesso luogo di apprendimento, rifugio e punto sicuro per ricevere un pasto.
Sul coinvolgimento degli atleti è intervenuto Michele Marchetti, responsabile della segreteria nazionale del Csi, che ha spiegato come gol, canestri e chilometri percorsi nelle gare potranno diventare contributi diretti ai progetti sostenuti. L’identità visiva della campagna accompagnerà questo messaggio attraverso simboli e attrezzi di diverse discipline, come illustrato da Ugo Esposito, Ceo dello studio di comunicazione Kapusons.
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Mark Zuckerberg (Getty Images)