2022-05-12
La profezia di Solzenicyn sul destino di Kiev e Mosca
Aleksandr Solzenicyn (Getty images)
Negli anni Novanta il premio Nobel scriveva che non ha senso la separazione forzata fra Russia e Ucraina, già all’epoca sostenuta da forze esterne: «Sarebbe il frutto dell’ottundimento degli anni comunisti». Finché si nega questa realtà, la pace è impossibile. Nel 1990 una strada per costruire la pace in Ucraina l’aveva indicata Aleksandr Solzenicyn, lo scrittore premio Nobel non certo sospettabile di simpatie comuniste, nazibolsceviche o rossobrune. Purtroppo, dalle nostre parti, i suoi testi politici sono molto difficili da reperire, ed è un vero peccato dato che potrebbero fornire moltissime indicazioni utili persino ai nostri governanti. «Sono io stesso ucraino quasi per metà», scriveva Solzenicyn, «e crebbi al suono della parlata ucraina […]. Ad essi non parlo da fuori, ma come “uno di loro”. Il nostro popolo fu scisso in tre rami dalla sciagurata minaccia dell’invasione mongola e dalla colonizzazione polacca. È un falso fabbricato di recente che già dal IX secolo sia esistito un distinto popolo ucraino, con una distinta lingua non russa». Solzenicyn, che è stato anche storico appassionato della sua nazione, proseguiva spiegando che «tutti noi discendiamo dalla superba Kiev, “dove cominciò a esistere la terra nostra”, secondo la cronaca di Nestore e da cui c’è giunta la luce del cristianesimo». Egli deplorava il bando zarista della lingua ucraina, ma anche la creazione della Rada socialista ucraina nel 1917, voluta dai rossi che spinsero Kiev a «proclamare l’uscita dell’Ucraina dalla Russia» senza «richiedere il parere del popolo». Soprattutto, il grande romanziere tentava di ricostruire la genesi del nazionalismo ucraino con tendenze antirusse: «Nell’Austria del 1848 i galiziani definivano ancora il loro consiglio nazionale Golovna Russka Rada, Consiglio centrale russo. Ma poi nella separata Galizia, con l’istigazione dell’Austria, si cominciò a coltivare una lingua ucraina non popolare, infarcita di parole tedesche e polacche, e ad alimentare la tentazione di staccare i russi carpatici dalla lingua russa, la tentazione di un separatismo panucraino, sfociante nei leader dell’attuale emigrazione in un’ignoranza patetica». Sì, Solzenicyn si opponeva alla separazione forzata tra Russia e Ucraina già allora alimentata da forze esterne. «Staccare oggi l’Ucraina significa passare attraverso milioni di famiglie e di persone», spiegava nel 1990, «quanta commistione di popolazioni; intere regioni e città a predominanza russa; quante persone imbarazzate a scegliere tra le due nazionalità […]. Nel fulcro della popolazione radicata non c’è ombra di intolleranza tra ucraini e russi. Fratelli! Non ci serve questa crudele separazione! Sarebbe il frutto dell’ottundimento degli anni comunisti. Insieme abbiamo sofferto l’epoca sovietica, insieme siamo precipitati in questo baratro, e insieme ne usciremo». Come ricorda su Limes Jame W. Carden, ex consulente del dipartimento di Stato americano, pochi anni dopo l’uscita del testo di Solzenicyn, cioè nel 1992, «milioni di russi etnici in Crimea e nel Donbass si ritrovarono cittadini di un Paese diverso. I primi attriti si manifestarono già nel 1992, quando il parlamento regionale della Crimea dichiarò l’indipendenza della penisola dalla neonata nazione ucraina». Carden riassume bene il pensiero di Solzenicyn: «Era dell’idea che El’cin si fosse lasciato raggirare dalla promessa del presidente ucraino Leonid Kravcuk (appena morto, ndr). […] Secondo l’intellettuale, i nazionalisti in carica a Kiev, «che in passato si erano opposti così strenuamente al comunismo, maledicendo Lenin», adesso invece, con un voltafaccia, accoglievano entusiasti «i tendenziosi confini dell’Ucraina tracciati da Lenin». Insomma, da un lato Solzenicyn chiarisce molto bene quali siano le fonti più antiche del separatismo ucraino, tendenze che oggi sembrano tornate dominanti e che - pare - sono state agevolmente manipolate da chi aveva interesse a scatenare il caos. Dall’altra parte, lo scrittore immagina una possibile convivenza basata sul rispetto reciproco, in maniera estremamente concreta. «Nessuna russificazione forzosa (e per altro nessuna ucrainizzazione forzosa, quale si ebbe verso la fine degli anni Venti), ma libero sviluppo parallelo di ambedue le culture, e classi scolastiche con l’insegnamento nelle due lingue, a scelta dei genitori. Certo, se il popolo ucraino desiderasse effettivamente separarsi, nessuno potrebbe impedirglielo con la forza. Il nostro spazio è multiforme, e solo la popolazione locale può decidere le sorti della propria località, della propria regione, mentre ogni nuova minoranza recentemente formatasi in questa località deve contare sulla medesima non coercizione». Se ci pensate bene, in queste parole non c’è un briciolo di utopia. Si tratta, al contrario, di un ragionamento estremamente realistico. Una volta tramontata la possibilità di una federazione o unione allargata a tutti i popoli, non restano che l’autodeterminazione e la pari dignità. Quest’ultima, almeno in Donbass e in Crimea, negli anni passati non è stata rispettata. L’ucrainizzazione forzata - piaccia o no - c’è stata eccome. Ora assistiamo probabilmente a un tentativo militare di imporre il contrario. Il discorso di Solzenicyn è valido certamente per Kiev: se vuole davvero l’indipendenza, e sembra volerla, deve averla. Ma, in teoria, dovrebbe valere anche per Crimea e Donbass, no? Ebbene, queste perfino banali riflessioni potrebbero, a ben vedere, fornire una base solida su cui edificare una trattativa nei prossimi giorni e settimane. Il dramma è che, ancora oggi, nessuno sembra intenzionato anche solo a prendere in considerazione la possibilità. Dalla visita di Mario Draghi a Washington sono emerse tante prospettive interessanti riguardo i possibili scambi energetici, e di sicuro sono stati trovati accordi importanti sull’invio di armi, militari italiani ai confini degli Stati europei più prossimi al terreno di guerra e utilizzo di nuove tecnologie. Certo, il presidente del Consiglio ha pure fatto presente che l’Europa e l’Italia desiderano la pace, ed è un’affermazione difficile da smentire, specie se si dà un’occhiata ai sondaggi. Ma, nel concreto, per costruire la pace che è stato fatto? Forse Draghi e Biden hanno studiato un piano segreto per le trattative? La sensazione, al contrario, è che si proceda spediti sul sentiero della guerra a oltranza, utile a indebolire la Russia e a metterla in ginocchio (così almeno danno mostra di pensare le autorità statunitensi). Questo è il punto centrale. Proprio come il progetto si Solzenicyn, la pace non è il sogno bambinesco di qualche attivista ingenuo. È una prospettiva concreta a cui servono azioni concrete. Solo che nessuno ha voglia di compierle.
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