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2018-06-23
La Procura di Trapani sta indagando sulle Ong con «bandiere di comodo»
ANSA
A Trapani da tempo la Procura indaga su alcune Ong tedesche le cui navi usano bandiere ombra, violando i codici di navigazione. Le segnalazioni sono arrivate ai magistrati siciliani nell'ambito delle inchieste sul favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, una delle quali ha portato al sequestro della nave Iuventa. La denuncia del governo italiano sulla nuova nave pirata ha fatto drizzare le orecchie agli investigatori.
Equipaggio compreso, sulla Lifeline, una nave da 50 posti della Ong tedesca Missione Lifeline, ci sono 224 persone stipate a bordo. E al timone un capitano determinato a portare in Italia i migranti presi in acque libiche. Ma il vero problema è Malta, le cui autorità si girano dall'altra parte pur di non aprire i porti. «Malta non era né l'autorità coordinatrice né quella competente dei soccorsi», puntano i piedi da La Valletta. E rimpallano verso l'Italia, sostenendo che il soccorso è avvenuto tra la Libia e Lampedusa.
Ora la priorità è mettere in salvo le persone. «Ma sia chiaro che poi quella nave dovrà essere sequestrata e il suo equipaggio fermato. Mai più in mare a trafficare». Il tweet del ministro dell'Interno Matteo Salvini non lascia spazio a interpretazioni. Per lui quella nave è fuorilegge. E non attraccherà in Italia. Da Malta hanno continuano a fare gli gnorri per tutta la mattina di ieri: fonti del governo maltese hanno fatto sapere al quotidiano Malta Today che né la Lifeline, né il centro di coordinamento di Roma hanno trasmesso a La Valletta una richiesta formale di accogliere la nave dell'Ong con a bordo i migranti. Verso ora di pranzo, però, è stata comunicata la richiesta ufficiale della Capitaneria di porto italiana: «Fate attraccare la Lifeline». Anche perché non è Roma a guidare l'operazione questa volta. È da Frontex che hanno individuato l'area di mare Search and rescue come maltese.
Nel frattempo, su Twitter, la Ong Missione Lifeline ha messo le mani avanti, postando il documento che confermerebbe la registrazione della bandiera e l'indicazione di Amsterdam come home port. E sostenendo: «Abbiamo agito come in tutte le precedenti missioni in acque internazionali». Il governo italiano non si accontenta e Salvini ha fatto sapere di aver già mandato una nota ufficiale al governo olandese per chiedere delucidazioni sulle due navi sospette: la Lifeline e la Sealife, entrambe di Ong tedesche ed entrambe battenti bandiera olandese. Dai Paesi Bassi hanno fatto sapere che le due navi appartengono a Ong tedesche e non sono presenti nel registro navale olandese. Quindi l'Olanda non è in grado di dare istruzioni a queste imbarcazioni.
Affinché il legame con la bandiera issata a bordo abbia valore giuridico, ogni imbarcazione deve essere regolarmente registrata nel Paese di cui espone il vessillo, altrimenti è soggetta alla giurisdizione di tutti gli Stati. L'accertamento della nazionalità è un atto di polizia giudiziaria disciplinato dal codice della navigazione e da più di una convenzione internazionale.
«L'Italia è consapevole della posizione olandese», hanno ribattuto da Amsterdam, costringendo il governo italiano ad annunciare un'inchiesta su quelle che hanno tutte le caratteristiche per essere definite navi fantasma. Se dovessero arrivare in acque italiane, quindi, scatterà il loro sequestro. La storia della Lifeline è facile da ricostruire con le informazioni disponibili online. E dimostra facilmente che è una nave da avventurieri: già Sea Watch 2, ex Clupea, ha uno scafo da 32 metri di lunghezza e 8 di larghezza. La costruzione è del 1968. In origine era un peschereccio, comprato nel 2015 dalla Ong Sea Watch che se la portò ad Amburgo per ribattezzarla Sea Watch 2 il 18 marzo 2016. Poco dopo è passata di mano a Mission Lifeline per 200.000 euro. «Unaltra Ong ci ha offerto in vendita la sua nave di soccorso», è scritto sul sito nella Ong nella sezione in cui viene descritta la missione dedicata ai salvataggi nel Mediterraneo. Una nave «quasi completamente attrezzata», anche se «qua e là da riparare».
Dopo i ritocchi, il peschereccio cinquantenne è finito di nuovo in acqua. E infatti il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli su Facebook ha sottolineato che sulla Lifeline sono stati imbarcati «circa 250 naufraghi senza avere i mezzi tecnici per poter garantire l'incolumità degli stessi e dellequipaggio». Ma c'è di più, da informazioni acquisite nell'immediatezza dal governo italiano, la Ong non avrebbe collaborato con la guardia costiera libica, che stava intervenendo per salvare i migranti e riportarli su suolo libico.
Axel Steier, portavoce di Lifeline, ha confermato questa versione all'agenzia Reuters, aggiungendo però che i migranti erano in pericolo e che non c'era il tempo di aspettare. Steier ha anche aggiunto che i migranti sarebbero stati comunque in pericolo se fossero stati trasportati in Libia, dove ci sono centri di detenzione nei quali vengono spesso violati i loro diritti umani. «È da irresponsabili, non da filantropi, incentivare la partenza dei barconi della morte», ha rincarato la dose Toninelli, ribadendo che la soluzione resta quella di fermare le partenze dei barconi attivando gli hotspot in Africa. Una possibilità di cui si parlerà, nei prossimi giorni, in un vertice europeo in programma a Bruxelles.
Fino a quel momento la posizione dell'Italia sulla chiusura dei porti resta ferma. Porti chiusi per le navi delle Ong che battono bandiera straniera: «Vadano in Olanda». La flotta italiana, composta da navi militari e Guardia costiera, continuerà a pattugliare il Mar Mediterraneo e salvare vite, ma a condizioni diverse dal passato. «Staranno più vicine alle coste italiane», ha spiegato Salvini. Che ha aggiunto: «Ci sono altri che devono intervenire: la Tunisia, Malta, Francia, Spagna». La portavoce del governo spagnolo Ibabel Celaà questa volta non si è fatta attendere e ha comunicato che il ministero degli Esteri è in contatto con Malta, Italia e Francia. La linea dura, a quanto pare, paga.
Fabio Amendolara
Altri 200 morti nel Mediterraneo I libici: «È colpa dei taxi del mare»
Il conteggio dell'orrore sembra non avere fine: sono 220, secondo l'Unhcr, l'Agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati, i migranti annegati negli ultimi giorni al largo delle coste libiche, portando il numero dei morti nel Mediterraneo a oltre 1.000 dall'inizio del 2018. Una mattanza di fronte alla quale è facile urlare «basta». Ma contro chi?
Le Ong, da tempo, si sono autoinvestite del ruolo di uniche detentrici della moralità nautica, ma le cose sembrano essere più complesse. «Quando vedono le navi delle Ong i migranti che abbiamo appena imbarcato si rituffano in mare, anche se non sanno nuotare; questa storia deve finire», ha detto all'agenzia Dire il colonnello Abu Ageila Abdul Bari, comandante delle motovedette della Guardia costiera della Libia. Che tuona: «Le Ong sono taxi del mare, che di fatto aiutano i migranti a raggiungere l'Europa». Gli attivisti sedicenti umanitari, spiega ancora il militare libico, «complicano il nostro lavoro, che nonostante alcuni successi, resta difficile». Fra le autorità libiche, sul punto sembrano concordare tutti. Ieri Repubblica riportava le parole del comandante Ayub Qassim, portavoce della Guardia costiera libica, secondo cui «i trafficanti ne stanno facendo partire a migliaia e altri ancora li spingeranno in mare nei prossimi giorni». In mare, dice Qassim, «noi abbiamo soltanto nemici: i trafficanti di benzina, quelli di armi che ci sparano addosso a cannonate; poi i mercanti di migranti. Ma ci sono anche le Ong che non ci rispettano, che sono un ostacolo per noi e non fanno salvataggio, assicurano ai trafficanti le ultime miglia del loro trasporto marittimo. Noi salviamo quei migranti».
Parole chiare, che svelano una volta di più il ruolo nefasto delle Ong. Parole che, certo, vengono dalla Guardia costiera libica, la cattivissima forza anti migranti che, ci dicono, spara, sperona, affonda, tortura e chi più ne ha più ne metta.
Già, ma chi è che ha iniziato a collaborare con la Guardia costiera libica? Ma il governo del Pd, ovviamente. È sotto la supervisione dell'ex ministro della Difesa Roberta Pinotti che le nostre navi hanno iniziato a operare insieme agli uomini del Paese nordafricano. A marzo 2016, Fayez Al Sarraj aveva chiesto all'Ue mezzi e apparecchiature per un totale di almeno 800 milioni di euro. Ne era nato un accordo bilaterale che prevedeva l'addestramento, l'equipaggiamento e il sostegno alla Guardia costiera libica. Nei mesi successivi, i regali a pioggia erano quindi iniziati. Non che l'idea di puntare a fermare le partenze direttamente dalla Libia, fosse sbagliata, anzi. Quel ponte gettato verso Tripoli, tuttavia, avrebbe dovuto essere il primo passo per una partnership, al fine di porre fine alle partenze. Tutte cose che potrebbe e dovrebbe fare Matteo Salvini, che ha finalmente deciso di buttarsi anima e corpo sul dossier libico. Cominciando con l'andare in loco.
Mentre nella zona dei terminal petroliferi dell'Est Khalifa Haftar sta in queste ore guerreggiando con delle milizie criminali e jihadiste per il controllo dei pozzi (il generale ha comunque annunciato di aver ripreso sia Sider che Ras Lanuf), Salvini sarà a Tripoli lunedì 25. La visita è stata accuratamente preparata dall'ambasciatore Giuseppe Perrone, che ha incontrato Al Serraj e i ministri Taher Siala (Esteri) e Salam Ashur (Interno). Il titolare del Viminale offrirà ai partner nordafricani dieci nuove motovedette, finanziate con fondi europei, e altre tre unità navali. Sul piatto, tuttavia, ci sarà anche la questione Ong, con cui, come già detto, italiani e libici sembrano ora decisamente in sintonia. Ma la partnership verrà rinforzata, passando anche per i protocolli di intesa tra le autorità giudiziarie locali e la Procura nazionale antimafia. Un'ulteriore svolta per una risoluzione definitiva della questione potrebbe arrivare da un altro passaggio cruciale di questi giorni: le autorità libiche, infatti, stanno per dichiarare l'istituzione di una propria zona di ricerca e soccorso (Sar). Finora, infatti, le Ong avevano giocato molto su una sorta di vuoto normativo. Tripoli, infatti, non aveva ancora una zona Sar riconosciuta a livello internazionale, il che faceva sì che l'area del mar libico a Sud di quella maltese e confinante con le acque territoriali della Libia non fosse posta sotto la responsabilità di alcuno Stato. È per questa ragione che, in caso di naufragio in quell'area, la prima centrale contattata per iniziare il salvataggio era sistematicamente quella italiana. Il che, in qualche modo, legittimava le Ong a portare qui da noi i migranti recuperati (anche perché Malta, benché abbia una Sar enorme, pari a 750 volte il suo territorio, non apre le porte). Ora, però, le cose potrebbero cambiare.
Qualche giorno fa, le autorità libiche hanno inoltrato all'Organizzazione marittima internazionale (Imo) i primi riferimenti di un centro di coordinamento dei soccorsi (Rcc, Rescue coordination centre) di stanza a Tripoli. Contattata dal sito Altreconomia.it il 20 giugno, l'Imo ha riferito di attendersi dettagli al più «presto». Si tratta di un primo passo per mettere ordine in quel tratto di mare in cui trafficanti, Ong, navi militari e predoni vari fanno il bello e il cattivo tempo, in un caos assoluto che fa solo il gioco degli schiavisti. Chi risolve questo rebus, risolve gran parte del problema migranti. Per Salvini è la sfida il cui esito potrebbe segnare la differenza tra il comunicatore brillante e lo statista.
Adriano Scianca
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Riduci
La Lifeline dovrebbe approdare a Malta, ma pare intenzionata a sbarcare in Italia, dove rischia il sequestro I giudici italiani sono al lavoro da qualche tempo sulle organizzazioni tedesche che usano «vessilli ombra».Dopo l'ennesima strage davanti alle coste nordafricane sono più di 1.000 le vittime da inizio 2018. La Guardia costiera di Tripoli attacca le Ong. Lunedì arriva il ministro dell'Interno, si va verso una strategia comune.Lo speciale contiene due articoliA Trapani da tempo la Procura indaga su alcune Ong tedesche le cui navi usano bandiere ombra, violando i codici di navigazione. Le segnalazioni sono arrivate ai magistrati siciliani nell'ambito delle inchieste sul favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, una delle quali ha portato al sequestro della nave Iuventa. La denuncia del governo italiano sulla nuova nave pirata ha fatto drizzare le orecchie agli investigatori. Equipaggio compreso, sulla Lifeline, una nave da 50 posti della Ong tedesca Missione Lifeline, ci sono 224 persone stipate a bordo. E al timone un capitano determinato a portare in Italia i migranti presi in acque libiche. Ma il vero problema è Malta, le cui autorità si girano dall'altra parte pur di non aprire i porti. «Malta non era né l'autorità coordinatrice né quella competente dei soccorsi», puntano i piedi da La Valletta. E rimpallano verso l'Italia, sostenendo che il soccorso è avvenuto tra la Libia e Lampedusa.Ora la priorità è mettere in salvo le persone. «Ma sia chiaro che poi quella nave dovrà essere sequestrata e il suo equipaggio fermato. Mai più in mare a trafficare». Il tweet del ministro dell'Interno Matteo Salvini non lascia spazio a interpretazioni. Per lui quella nave è fuorilegge. E non attraccherà in Italia. Da Malta hanno continuano a fare gli gnorri per tutta la mattina di ieri: fonti del governo maltese hanno fatto sapere al quotidiano Malta Today che né la Lifeline, né il centro di coordinamento di Roma hanno trasmesso a La Valletta una richiesta formale di accogliere la nave dell'Ong con a bordo i migranti. Verso ora di pranzo, però, è stata comunicata la richiesta ufficiale della Capitaneria di porto italiana: «Fate attraccare la Lifeline». Anche perché non è Roma a guidare l'operazione questa volta. È da Frontex che hanno individuato l'area di mare Search and rescue come maltese. Nel frattempo, su Twitter, la Ong Missione Lifeline ha messo le mani avanti, postando il documento che confermerebbe la registrazione della bandiera e l'indicazione di Amsterdam come home port. E sostenendo: «Abbiamo agito come in tutte le precedenti missioni in acque internazionali». Il governo italiano non si accontenta e Salvini ha fatto sapere di aver già mandato una nota ufficiale al governo olandese per chiedere delucidazioni sulle due navi sospette: la Lifeline e la Sealife, entrambe di Ong tedesche ed entrambe battenti bandiera olandese. Dai Paesi Bassi hanno fatto sapere che le due navi appartengono a Ong tedesche e non sono presenti nel registro navale olandese. Quindi l'Olanda non è in grado di dare istruzioni a queste imbarcazioni.Affinché il legame con la bandiera issata a bordo abbia valore giuridico, ogni imbarcazione deve essere regolarmente registrata nel Paese di cui espone il vessillo, altrimenti è soggetta alla giurisdizione di tutti gli Stati. L'accertamento della nazionalità è un atto di polizia giudiziaria disciplinato dal codice della navigazione e da più di una convenzione internazionale. «L'Italia è consapevole della posizione olandese», hanno ribattuto da Amsterdam, costringendo il governo italiano ad annunciare un'inchiesta su quelle che hanno tutte le caratteristiche per essere definite navi fantasma. Se dovessero arrivare in acque italiane, quindi, scatterà il loro sequestro. La storia della Lifeline è facile da ricostruire con le informazioni disponibili online. E dimostra facilmente che è una nave da avventurieri: già Sea Watch 2, ex Clupea, ha uno scafo da 32 metri di lunghezza e 8 di larghezza. La costruzione è del 1968. In origine era un peschereccio, comprato nel 2015 dalla Ong Sea Watch che se la portò ad Amburgo per ribattezzarla Sea Watch 2 il 18 marzo 2016. Poco dopo è passata di mano a Mission Lifeline per 200.000 euro. «Unaltra Ong ci ha offerto in vendita la sua nave di soccorso», è scritto sul sito nella Ong nella sezione in cui viene descritta la missione dedicata ai salvataggi nel Mediterraneo. Una nave «quasi completamente attrezzata», anche se «qua e là da riparare». Dopo i ritocchi, il peschereccio cinquantenne è finito di nuovo in acqua. E infatti il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli su Facebook ha sottolineato che sulla Lifeline sono stati imbarcati «circa 250 naufraghi senza avere i mezzi tecnici per poter garantire l'incolumità degli stessi e dellequipaggio». Ma c'è di più, da informazioni acquisite nell'immediatezza dal governo italiano, la Ong non avrebbe collaborato con la guardia costiera libica, che stava intervenendo per salvare i migranti e riportarli su suolo libico. Axel Steier, portavoce di Lifeline, ha confermato questa versione all'agenzia Reuters, aggiungendo però che i migranti erano in pericolo e che non c'era il tempo di aspettare. Steier ha anche aggiunto che i migranti sarebbero stati comunque in pericolo se fossero stati trasportati in Libia, dove ci sono centri di detenzione nei quali vengono spesso violati i loro diritti umani. «È da irresponsabili, non da filantropi, incentivare la partenza dei barconi della morte», ha rincarato la dose Toninelli, ribadendo che la soluzione resta quella di fermare le partenze dei barconi attivando gli hotspot in Africa. Una possibilità di cui si parlerà, nei prossimi giorni, in un vertice europeo in programma a Bruxelles. Fino a quel momento la posizione dell'Italia sulla chiusura dei porti resta ferma. Porti chiusi per le navi delle Ong che battono bandiera straniera: «Vadano in Olanda». La flotta italiana, composta da navi militari e Guardia costiera, continuerà a pattugliare il Mar Mediterraneo e salvare vite, ma a condizioni diverse dal passato. «Staranno più vicine alle coste italiane», ha spiegato Salvini. Che ha aggiunto: «Ci sono altri che devono intervenire: la Tunisia, Malta, Francia, Spagna». La portavoce del governo spagnolo Ibabel Celaà questa volta non si è fatta attendere e ha comunicato che il ministero degli Esteri è in contatto con Malta, Italia e Francia. La linea dura, a quanto pare, paga.Fabio Amendolara<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/la-procura-di-trapani-sta-indagando-sulle-ong-con-bandiere-di-comodo-2580383307.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="altri-200-morti-nel-mediterraneo-i-libici-e-colpa-dei-taxi-del-mare" data-post-id="2580383307" data-published-at="1765654311" data-use-pagination="False"> Altri 200 morti nel Mediterraneo I libici: «È colpa dei taxi del mare» Il conteggio dell'orrore sembra non avere fine: sono 220, secondo l'Unhcr, l'Agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati, i migranti annegati negli ultimi giorni al largo delle coste libiche, portando il numero dei morti nel Mediterraneo a oltre 1.000 dall'inizio del 2018. Una mattanza di fronte alla quale è facile urlare «basta». Ma contro chi? Le Ong, da tempo, si sono autoinvestite del ruolo di uniche detentrici della moralità nautica, ma le cose sembrano essere più complesse. «Quando vedono le navi delle Ong i migranti che abbiamo appena imbarcato si rituffano in mare, anche se non sanno nuotare; questa storia deve finire», ha detto all'agenzia Dire il colonnello Abu Ageila Abdul Bari, comandante delle motovedette della Guardia costiera della Libia. Che tuona: «Le Ong sono taxi del mare, che di fatto aiutano i migranti a raggiungere l'Europa». Gli attivisti sedicenti umanitari, spiega ancora il militare libico, «complicano il nostro lavoro, che nonostante alcuni successi, resta difficile». Fra le autorità libiche, sul punto sembrano concordare tutti. Ieri Repubblica riportava le parole del comandante Ayub Qassim, portavoce della Guardia costiera libica, secondo cui «i trafficanti ne stanno facendo partire a migliaia e altri ancora li spingeranno in mare nei prossimi giorni». In mare, dice Qassim, «noi abbiamo soltanto nemici: i trafficanti di benzina, quelli di armi che ci sparano addosso a cannonate; poi i mercanti di migranti. Ma ci sono anche le Ong che non ci rispettano, che sono un ostacolo per noi e non fanno salvataggio, assicurano ai trafficanti le ultime miglia del loro trasporto marittimo. Noi salviamo quei migranti». Parole chiare, che svelano una volta di più il ruolo nefasto delle Ong. Parole che, certo, vengono dalla Guardia costiera libica, la cattivissima forza anti migranti che, ci dicono, spara, sperona, affonda, tortura e chi più ne ha più ne metta. Già, ma chi è che ha iniziato a collaborare con la Guardia costiera libica? Ma il governo del Pd, ovviamente. È sotto la supervisione dell'ex ministro della Difesa Roberta Pinotti che le nostre navi hanno iniziato a operare insieme agli uomini del Paese nordafricano. A marzo 2016, Fayez Al Sarraj aveva chiesto all'Ue mezzi e apparecchiature per un totale di almeno 800 milioni di euro. Ne era nato un accordo bilaterale che prevedeva l'addestramento, l'equipaggiamento e il sostegno alla Guardia costiera libica. Nei mesi successivi, i regali a pioggia erano quindi iniziati. Non che l'idea di puntare a fermare le partenze direttamente dalla Libia, fosse sbagliata, anzi. Quel ponte gettato verso Tripoli, tuttavia, avrebbe dovuto essere il primo passo per una partnership, al fine di porre fine alle partenze. Tutte cose che potrebbe e dovrebbe fare Matteo Salvini, che ha finalmente deciso di buttarsi anima e corpo sul dossier libico. Cominciando con l'andare in loco. Mentre nella zona dei terminal petroliferi dell'Est Khalifa Haftar sta in queste ore guerreggiando con delle milizie criminali e jihadiste per il controllo dei pozzi (il generale ha comunque annunciato di aver ripreso sia Sider che Ras Lanuf), Salvini sarà a Tripoli lunedì 25. La visita è stata accuratamente preparata dall'ambasciatore Giuseppe Perrone, che ha incontrato Al Serraj e i ministri Taher Siala (Esteri) e Salam Ashur (Interno). Il titolare del Viminale offrirà ai partner nordafricani dieci nuove motovedette, finanziate con fondi europei, e altre tre unità navali. Sul piatto, tuttavia, ci sarà anche la questione Ong, con cui, come già detto, italiani e libici sembrano ora decisamente in sintonia. Ma la partnership verrà rinforzata, passando anche per i protocolli di intesa tra le autorità giudiziarie locali e la Procura nazionale antimafia. Un'ulteriore svolta per una risoluzione definitiva della questione potrebbe arrivare da un altro passaggio cruciale di questi giorni: le autorità libiche, infatti, stanno per dichiarare l'istituzione di una propria zona di ricerca e soccorso (Sar). Finora, infatti, le Ong avevano giocato molto su una sorta di vuoto normativo. Tripoli, infatti, non aveva ancora una zona Sar riconosciuta a livello internazionale, il che faceva sì che l'area del mar libico a Sud di quella maltese e confinante con le acque territoriali della Libia non fosse posta sotto la responsabilità di alcuno Stato. È per questa ragione che, in caso di naufragio in quell'area, la prima centrale contattata per iniziare il salvataggio era sistematicamente quella italiana. Il che, in qualche modo, legittimava le Ong a portare qui da noi i migranti recuperati (anche perché Malta, benché abbia una Sar enorme, pari a 750 volte il suo territorio, non apre le porte). Ora, però, le cose potrebbero cambiare. Qualche giorno fa, le autorità libiche hanno inoltrato all'Organizzazione marittima internazionale (Imo) i primi riferimenti di un centro di coordinamento dei soccorsi (Rcc, Rescue coordination centre) di stanza a Tripoli. Contattata dal sito Altreconomia.it il 20 giugno, l'Imo ha riferito di attendersi dettagli al più «presto». Si tratta di un primo passo per mettere ordine in quel tratto di mare in cui trafficanti, Ong, navi militari e predoni vari fanno il bello e il cattivo tempo, in un caos assoluto che fa solo il gioco degli schiavisti. Chi risolve questo rebus, risolve gran parte del problema migranti. Per Salvini è la sfida il cui esito potrebbe segnare la differenza tra il comunicatore brillante e lo statista. Adriano Scianca
iStock
Dal primo luglio 2026, in tutta l’Unione europea entrerà in vigore un contributo fisso di tre euro per ciascun prodotto acquistato su internet e spedito da Paesi extra-Ue, quando il valore della spedizione è inferiore a 150 euro. L’orientamento politico era stato definito già il mese scorso; la riunione di ieri del Consiglio Ecofin (12 dicembre) ne ha reso operativa l’applicazione, stabilendone i criteri.
Il prelievo di 3 euro si applicherà alle merci in ingresso nell’Unione europea per le quali i venditori extra-Ue risultano registrati allo sportello unico per le importazioni (Ioss) ai fini Iva. Secondo fonti di Bruxelles, questo perimetro copre «il 93% di tutti i flussi di e-commerce verso l’Ue».
In realtà, la misura non viene presentata direttamente come un’iniziativa mirata contro la Cina, anche se è dalla Repubblica Popolare che proviene la quota maggiore di pacchi. Una delle preoccupazioni tra i ministri è che parte della merce venga immessa nel mercato unico a prezzi artificialmente bassi, anche attraverso pratiche di sottovalutazione, per aggirare le tariffe che si applicano invece alle spedizioni oltre i 150 euro. La Commissione europea stima che nel 2024 il 91% delle spedizioni e-commerce sotto i 150 euro sia arrivato dalla Cina; inoltre, valutazioni Ue indicano che fino al 65% dei piccoli pacchi in ingresso potrebbe essere dichiarato a un valore inferiore al reale per evitare i dazi doganali.
«La decisione sui dazi doganali per i piccoli pacchi in arrivo nell’Ue è importante per garantire una concorrenza leale ai nostri confini nell’era odierna dell’e-commerce», ha detto il commissario per il Commercio, Maroš Šefčovič. Secondo il politico slovacco, «con la rapida espansione dell’e-commerce, il mondo sta cambiando rapidamente e abbiamo bisogno degli strumenti giusti per stare al passo».
La decisione finale da parte di Bruxelles arriva dopo un iter normativo lungo cinque anni. La Commissione europea aveva messo sul tavolo, nel maggio 2023, la cancellazione dell’esenzione dai dazi doganali per i pacchi con valore inferiore a 150 euro, inserendola nel pacchetto di riforma doganale. Nella versione originaria, l’entrata in vigore era prevista non prima della metà del 2028. Successivamente, il Consiglio ha formalizzato l’abolizione dell’esenzione il 13 novembre 2025, chiedendo però di anticipare l’applicazione già al 2026.
C’è poi un secondo balzello messo a punto dall’esecutivo Meloni. Si tratta di un emendamento che prevede l’introduzione di un contributo fisso di due euro per ogni pacco spedito con valore dichiarato fino a 150 euro.
La misura, però, non sarebbe limitata ai soli invii provenienti da Paesi extra-Ue. Rispetto alle ipotesi circolate in precedenza, l’impostazione è stata ampliata: se approvata, la tassa finirebbe per applicarsi a tutte le spedizioni di piccoli pacchi, indipendentemente dall’origine, quindi anche a quelle spedite dall’Italia. In origine, l’idea sembrava mirata soprattutto a intercettare le micro-spedizioni generate da piattaforme come Shein o Temu. Il punto, però, è che colpire esclusivamente i pacchi extra-europei avrebbe reso la misura assimilabile a un dazio, materia che rientra nella competenza dell’Unione europea e non dei singoli Stati membri. Per evitare questo profilo di incompatibilità, l’emendamento alla manovra 2026 ha quindi «generalizzato» il prelievo, estendendolo all’intero perimetro delle spedizioni. L’effetto pratico è evidente: la tassa non impatterebbe solo sulle piattaforme asiatiche, ma anche sugli acquisti effettuati su Amazon, eBay e, in generale, su qualsiasi negozio online che spedisca pacchi entro quella soglia di valore dichiarato.
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Riduci
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Insomma: il vento è cambiato. E non spinge più la solita, ingombrante, vela francese che negli ultimi anni si era abituata a intendere l’Italia come un’estensione naturale della Rive Gauche.
E invece no. Il pendolo torna indietro. E con esso tornano anche ricordi e fantasie: Piersilvio Berlusconi sogna la Francia. Non quella dei consessi istituzionali, ma quella di quando suo padre, l’unico che sia riuscito a esportare il varietà italiano oltre le Alpi, provò l’avventura di La Cinq.
Una televisione talmente avanti che il presidente socialista François Mitterrand, per non farla andare troppo lontano, decise di spegnerla. Letteralmente.
Erano gli anni in cui gli italiani facevano shopping nella grandeur: Gianni Agnelli prese una quota di Danone e Raul Gardini mise le mani sul più grande zuccherificio francese, giusto per far capire che il gusto per il raffinato non ci era mai mancato. Oggi al massimo compriamo qualche croissant a prezzo pieno.
Dunque, Berlusconi – quello junior, stavolta – può dirlo senza arrossire: «La Francia sarebbe un sogno». Si guarda intorno, valuta, misura il terreno: Tf1 e M6.
La prima, dice, «ha una storia imprenditoriale solida»: niente da dire, anche le fortezze hanno i loro punti deboli. Con la seconda, «una finta opportunità». Tradotto: l’affare che non c’è, ma che ti fa perdere lo stesso due settimane di telefonate.
Il vero punto, però, è che mentre noi guardiamo a Parigi, Parigi si deve rassegnare. Lo dimostra il clamoroso stop di Crédit Agricole su Bpm, piantato lì come un cartello stradale: «Fine delle ambizioni». Con Bank of America che conferma la raccomandazione «Buy» su Mps e alza il target price a 11 euro. E non c’è solo questo. Natixis ha dovuto rinunciare alla cassaforte di Generali dov’è conservata buona parte del risparmio degli italiani. Vivendi si è ritirata. Tim è tornata italiana.
Il pendolo, dicevamo, ha cambiato asse. E spinge ben più a Ovest. Certo Parigi rimane il più importante investitore estero in Italia. Ma il vento della geopolitica e cambiato. Il nuovo asse si snoda tra Washington e Roma Gli americani non stanno bussando alla porta: sono già entrati.
E non con due spicci.
Ieri le due sigle più «Miami style» che potessero atterrare nel dossier Ilva – Bedrock Industries e Flacks Group – hanno presentato le loro offerte. Americani entrambi. Dall’odore ancora fresco di oceano, baseball e investimenti senza fronzoli.
E non è un caso isolato.
In Italia operano oltre 2.700 imprese a partecipazione statunitense, che generano 400.000 posti di lavoro. Non esattamente compratori di souvenir. Sono radicati nei capannoni, nella logistica, nelle tecnologie, nei servizi, nella manifattura. Un pezzo intero di economia reale. Poi c’è il capitolo dei giganti della finanza globale: BlackRock, Vanguard, i soliti nomi che quando entrano in una stanza fanno più rumore del tuono. Hanno fiutato l’aria e annusato l’Italia come fosse un tartufo bianco d’Alba: raro, caro e conveniente.
Gli incontri istituzionali degli ultimi anni parlano chiaro: data center, infrastrutture, digitalizzazione, energia.
Gli americani non si accontentano. Puntano al core del futuro: tecnologia, energia, scienza della vita, space economy, agritech.
Dopo l’investimento di Kkr nella rete fissa Telecom - uno dei deal più massicci degli ultimi quindici anni - la direzione è segnata: Washington ha scoperto che l’Italia rende.
A ottobre 2025 la grande conferma: missione economica a Washington, con una pioggia di annunci per oltre 4 miliardi di euro di nuovi investimenti. Non bonus, non promesse, ma progetti veri: space economy, sostenibilità, energia, life sciences, agri-tech, turism. Tutti settori dove l’Italia è più forte di quanto creda, e più sottovalutata di quanto dovrebbe.
A questo punto il pendolo ha parlato: gli americani investono, i francesi frenano.
E chissà che, alla fine, non si chiuda il cerchio: gli Usa tornano in Italia come investitori netti, e Berlusconi torna in Francia come ai tempi dell’avventura di La Cinq.
Magari senza che un nuovo Mitterrand tolga la spina.
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Nel riquadro, l'attivista Blm Tashella Sheri Amore Dickerson (Ansa)
Tashella Sheri Amore Dickerson, 52 anni, storica leader di Black lives matter a Oklaoma City è stata accusata da un Gran giurì federale di frode telematica e riciclaggio di denaro. Secondo i risultati di un’indagine condotta dall’Fbi di Oklahoma City e dall’Irs-Criminal Investigation e affidata procuratori aggiunti degli Stati Uniti Matt Dillon e Jessica L. Perry, Dickerson si sarebbe appropriata di oltre 3 milioni di dollari di fondi raccolti e destinati al pagamento delle cauzioni degli attivisti arrestati e li avrebbe investiti in immobili e spesi per vacanze e spese personali. Il 3 dicembre 2025, un Gran giurì federale ha emesso nei confronti dell’attivista un atto d’accusa di 25 capi, di cui 20 di frode telematica e cinque di riciclaggio di denaro. Per ogni accusa di frode telematica, Dickerson rischia fino a 20 anni di carcere federale e una multa fino a 250.000 dollari. Per ogni accusa di riciclaggio di denaro, l’attivista rischia fino a dieci anni di carcere e una multa fino a 250.000 dollari o il doppio dell’importo della proprietà di derivazione penale coinvolta nella transazione. Secondo gli inquirenti, a partire almeno dal 2016, Dickerson è stata direttore esecutivo di Black lives matter Okc (Blmokc). Grazie a quel ruolo Dickerson aveva accesso ai conti bancari, PayPal e Cash App di Blmokc.
L’atto d’accusa, la cui sintesi è stata resa nota dalle autorità federali, sostiene che, sebbene Blmokc non fosse un’organizzazione esente da imposte registrata ai sensi della sezione 501(c)(3) dell’Internal revenue code (la legge tributaria federale americana), accettava donazioni di beneficenza attraverso la sua affiliazione con l’Alliance for global justice (Afgj), con sede in Arizona. L’Afgj fungeva da sponsor fiscale per Blmokc, alla quale imponeva di utilizzare i suoi fondi solo nei limiti consentiti dalla sezione 501(c)(3). L’Afgj richiedeva inoltre a Blmokc di rendere conto, su richiesta, dell’erogazione di tutti i fondi ricevuti e vietava a Blmokc di utilizzare i suoi fondi per acquistare immobili senza il consenso dell’Afgj.
A partire dalla tarda primavera del 2020, Blmokc ha raccolto fondi per sostenere la sua presunta missione di giustizia sociale da donatori online e da fondi nazionali per le cauzioni. In totale, Blmokc ha raccolto oltre 5,6 milioni di dollari, inclusi finanziamenti da fondi nazionali per le cauzioni, tra cui il Community Justice Exchange, il Massachusetts Bail Fund e il Minnesota Freedom Fund. La maggior parte di questi fondi è stata indirizzata a Blmokc tramite Afgj, in qualità di sponsor fiscale.
Secondo l’atto d’accusa, il Blmokc avrebbe dovuto utilizzare queste sovvenzioni del fondo nazionale per le cauzioni per pagare la cauzione preventiva per le persone arrestate in relazione alle proteste per la giustizia razziale dopo la morte di George Floyd. Quando i fondi per le cauzioni venivano restituiti al Blmokc, i fondi nazionali per le cauzioni talvolta consentivano al Blmokc di trattenere tutto o parte del finanziamento della sovvenzione per istituire un fondo rotativo per le cauzioni, o per la missione di giustizia sociale del Blmokc, come consentito dalla Sezione 501(c)(3).
Nonostante lo scopo dichiarato del denaro raccolto e i termini e le condizioni delle sovvenzioni, l’atto d’accusa sostiene che a partire da giugno 2020 e almeno fino a ottobre 2025, Dickerson si è appropriata di fondi dai conti di Blmokc a proprio vantaggio personale. L’atto d’accusa sostiene che Dickerson abbia depositato almeno 3,15 milioni di dollari in assegni di cauzione restituiti sui suoi conti personali, anziché sui conti di Blmokc. Tra le altre cose, Dickerson avrebbe poi utilizzato questi fondi per pagare: viaggi ricreativi in Giamaica e nella Repubblica Dominicana per sé e i suoi soci; decine di migliaia di dollari in acquisti al dettaglio; almeno 50.000 dollari in consegne di cibo e generi alimentari per sé e i suoi figli; un veicolo personale registrato a suo nome; sei proprietà immobiliari a Oklahoma City intestate a suo nome o a nome di Equity International, Llc, un’entità da lei controllata in esclusiva. L’atto d’accusa sostiene inoltre che Dickerson abbia utilizzato comunicazioni interstatali via cavo per presentare due false relazioni annuali all’Afgj per conto del Blmokc. Dickerson ha dichiarato di aver utilizzato i fondi del Blmokc solo per scopi esenti da imposte. Non ha rivelato di aver utilizzato i fondi per il proprio tornaconto personale.
Tre anni fa una vicenda simile aveva travolto la cofondatrice di Black lives matter Patrisse Cullors, anche lei accusata di aver utilizzato i fondi donati per beneficenza al movimento per pagare incredibili somme di denaro a suo fratello e al padre di suo figlio per vari «servizi». Secondo le ricostruzioni del 2022, Paul Cullors, fratello di Patrisse, ha ricevuto 840.000 dollari sul suo conto corrente per aver presumibilmente fornito servizi di sicurezza al movimento, secondo i documenti fiscali visionati dal New York Post. Nel frattempo, l’organizzazione ha pagato una società di proprietà di Damon Turner, padre del figlio di Patrisse Cullors, quasi 970.000 dollari per aiutare a «produrre eventi dal vivo» e altri «servizi creativi». Notizie che, all’epoca, avevano provocato non pochi malumori, alimentate anche dal fatto che la Cullors si professava marxista e sosteneva di combattere per gli oppressi e le ingiustizie sociali.
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