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2018-06-23
La Procura di Trapani sta indagando sulle Ong con «bandiere di comodo»
ANSA
A Trapani da tempo la Procura indaga su alcune Ong tedesche le cui navi usano bandiere ombra, violando i codici di navigazione. Le segnalazioni sono arrivate ai magistrati siciliani nell'ambito delle inchieste sul favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, una delle quali ha portato al sequestro della nave Iuventa. La denuncia del governo italiano sulla nuova nave pirata ha fatto drizzare le orecchie agli investigatori.
Equipaggio compreso, sulla Lifeline, una nave da 50 posti della Ong tedesca Missione Lifeline, ci sono 224 persone stipate a bordo. E al timone un capitano determinato a portare in Italia i migranti presi in acque libiche. Ma il vero problema è Malta, le cui autorità si girano dall'altra parte pur di non aprire i porti. «Malta non era né l'autorità coordinatrice né quella competente dei soccorsi», puntano i piedi da La Valletta. E rimpallano verso l'Italia, sostenendo che il soccorso è avvenuto tra la Libia e Lampedusa.
Ora la priorità è mettere in salvo le persone. «Ma sia chiaro che poi quella nave dovrà essere sequestrata e il suo equipaggio fermato. Mai più in mare a trafficare». Il tweet del ministro dell'Interno Matteo Salvini non lascia spazio a interpretazioni. Per lui quella nave è fuorilegge. E non attraccherà in Italia. Da Malta hanno continuano a fare gli gnorri per tutta la mattina di ieri: fonti del governo maltese hanno fatto sapere al quotidiano Malta Today che né la Lifeline, né il centro di coordinamento di Roma hanno trasmesso a La Valletta una richiesta formale di accogliere la nave dell'Ong con a bordo i migranti. Verso ora di pranzo, però, è stata comunicata la richiesta ufficiale della Capitaneria di porto italiana: «Fate attraccare la Lifeline». Anche perché non è Roma a guidare l'operazione questa volta. È da Frontex che hanno individuato l'area di mare Search and rescue come maltese.
Nel frattempo, su Twitter, la Ong Missione Lifeline ha messo le mani avanti, postando il documento che confermerebbe la registrazione della bandiera e l'indicazione di Amsterdam come home port. E sostenendo: «Abbiamo agito come in tutte le precedenti missioni in acque internazionali». Il governo italiano non si accontenta e Salvini ha fatto sapere di aver già mandato una nota ufficiale al governo olandese per chiedere delucidazioni sulle due navi sospette: la Lifeline e la Sealife, entrambe di Ong tedesche ed entrambe battenti bandiera olandese. Dai Paesi Bassi hanno fatto sapere che le due navi appartengono a Ong tedesche e non sono presenti nel registro navale olandese. Quindi l'Olanda non è in grado di dare istruzioni a queste imbarcazioni.
Affinché il legame con la bandiera issata a bordo abbia valore giuridico, ogni imbarcazione deve essere regolarmente registrata nel Paese di cui espone il vessillo, altrimenti è soggetta alla giurisdizione di tutti gli Stati. L'accertamento della nazionalità è un atto di polizia giudiziaria disciplinato dal codice della navigazione e da più di una convenzione internazionale.
«L'Italia è consapevole della posizione olandese», hanno ribattuto da Amsterdam, costringendo il governo italiano ad annunciare un'inchiesta su quelle che hanno tutte le caratteristiche per essere definite navi fantasma. Se dovessero arrivare in acque italiane, quindi, scatterà il loro sequestro. La storia della Lifeline è facile da ricostruire con le informazioni disponibili online. E dimostra facilmente che è una nave da avventurieri: già Sea Watch 2, ex Clupea, ha uno scafo da 32 metri di lunghezza e 8 di larghezza. La costruzione è del 1968. In origine era un peschereccio, comprato nel 2015 dalla Ong Sea Watch che se la portò ad Amburgo per ribattezzarla Sea Watch 2 il 18 marzo 2016. Poco dopo è passata di mano a Mission Lifeline per 200.000 euro. «Unaltra Ong ci ha offerto in vendita la sua nave di soccorso», è scritto sul sito nella Ong nella sezione in cui viene descritta la missione dedicata ai salvataggi nel Mediterraneo. Una nave «quasi completamente attrezzata», anche se «qua e là da riparare».
Dopo i ritocchi, il peschereccio cinquantenne è finito di nuovo in acqua. E infatti il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli su Facebook ha sottolineato che sulla Lifeline sono stati imbarcati «circa 250 naufraghi senza avere i mezzi tecnici per poter garantire l'incolumità degli stessi e dellequipaggio». Ma c'è di più, da informazioni acquisite nell'immediatezza dal governo italiano, la Ong non avrebbe collaborato con la guardia costiera libica, che stava intervenendo per salvare i migranti e riportarli su suolo libico.
Axel Steier, portavoce di Lifeline, ha confermato questa versione all'agenzia Reuters, aggiungendo però che i migranti erano in pericolo e che non c'era il tempo di aspettare. Steier ha anche aggiunto che i migranti sarebbero stati comunque in pericolo se fossero stati trasportati in Libia, dove ci sono centri di detenzione nei quali vengono spesso violati i loro diritti umani. «È da irresponsabili, non da filantropi, incentivare la partenza dei barconi della morte», ha rincarato la dose Toninelli, ribadendo che la soluzione resta quella di fermare le partenze dei barconi attivando gli hotspot in Africa. Una possibilità di cui si parlerà, nei prossimi giorni, in un vertice europeo in programma a Bruxelles.
Fino a quel momento la posizione dell'Italia sulla chiusura dei porti resta ferma. Porti chiusi per le navi delle Ong che battono bandiera straniera: «Vadano in Olanda». La flotta italiana, composta da navi militari e Guardia costiera, continuerà a pattugliare il Mar Mediterraneo e salvare vite, ma a condizioni diverse dal passato. «Staranno più vicine alle coste italiane», ha spiegato Salvini. Che ha aggiunto: «Ci sono altri che devono intervenire: la Tunisia, Malta, Francia, Spagna». La portavoce del governo spagnolo Ibabel Celaà questa volta non si è fatta attendere e ha comunicato che il ministero degli Esteri è in contatto con Malta, Italia e Francia. La linea dura, a quanto pare, paga.
Fabio Amendolara
Altri 200 morti nel Mediterraneo I libici: «È colpa dei taxi del mare»
Il conteggio dell'orrore sembra non avere fine: sono 220, secondo l'Unhcr, l'Agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati, i migranti annegati negli ultimi giorni al largo delle coste libiche, portando il numero dei morti nel Mediterraneo a oltre 1.000 dall'inizio del 2018. Una mattanza di fronte alla quale è facile urlare «basta». Ma contro chi?
Le Ong, da tempo, si sono autoinvestite del ruolo di uniche detentrici della moralità nautica, ma le cose sembrano essere più complesse. «Quando vedono le navi delle Ong i migranti che abbiamo appena imbarcato si rituffano in mare, anche se non sanno nuotare; questa storia deve finire», ha detto all'agenzia Dire il colonnello Abu Ageila Abdul Bari, comandante delle motovedette della Guardia costiera della Libia. Che tuona: «Le Ong sono taxi del mare, che di fatto aiutano i migranti a raggiungere l'Europa». Gli attivisti sedicenti umanitari, spiega ancora il militare libico, «complicano il nostro lavoro, che nonostante alcuni successi, resta difficile». Fra le autorità libiche, sul punto sembrano concordare tutti. Ieri Repubblica riportava le parole del comandante Ayub Qassim, portavoce della Guardia costiera libica, secondo cui «i trafficanti ne stanno facendo partire a migliaia e altri ancora li spingeranno in mare nei prossimi giorni». In mare, dice Qassim, «noi abbiamo soltanto nemici: i trafficanti di benzina, quelli di armi che ci sparano addosso a cannonate; poi i mercanti di migranti. Ma ci sono anche le Ong che non ci rispettano, che sono un ostacolo per noi e non fanno salvataggio, assicurano ai trafficanti le ultime miglia del loro trasporto marittimo. Noi salviamo quei migranti».
Parole chiare, che svelano una volta di più il ruolo nefasto delle Ong. Parole che, certo, vengono dalla Guardia costiera libica, la cattivissima forza anti migranti che, ci dicono, spara, sperona, affonda, tortura e chi più ne ha più ne metta.
Già, ma chi è che ha iniziato a collaborare con la Guardia costiera libica? Ma il governo del Pd, ovviamente. È sotto la supervisione dell'ex ministro della Difesa Roberta Pinotti che le nostre navi hanno iniziato a operare insieme agli uomini del Paese nordafricano. A marzo 2016, Fayez Al Sarraj aveva chiesto all'Ue mezzi e apparecchiature per un totale di almeno 800 milioni di euro. Ne era nato un accordo bilaterale che prevedeva l'addestramento, l'equipaggiamento e il sostegno alla Guardia costiera libica. Nei mesi successivi, i regali a pioggia erano quindi iniziati. Non che l'idea di puntare a fermare le partenze direttamente dalla Libia, fosse sbagliata, anzi. Quel ponte gettato verso Tripoli, tuttavia, avrebbe dovuto essere il primo passo per una partnership, al fine di porre fine alle partenze. Tutte cose che potrebbe e dovrebbe fare Matteo Salvini, che ha finalmente deciso di buttarsi anima e corpo sul dossier libico. Cominciando con l'andare in loco.
Mentre nella zona dei terminal petroliferi dell'Est Khalifa Haftar sta in queste ore guerreggiando con delle milizie criminali e jihadiste per il controllo dei pozzi (il generale ha comunque annunciato di aver ripreso sia Sider che Ras Lanuf), Salvini sarà a Tripoli lunedì 25. La visita è stata accuratamente preparata dall'ambasciatore Giuseppe Perrone, che ha incontrato Al Serraj e i ministri Taher Siala (Esteri) e Salam Ashur (Interno). Il titolare del Viminale offrirà ai partner nordafricani dieci nuove motovedette, finanziate con fondi europei, e altre tre unità navali. Sul piatto, tuttavia, ci sarà anche la questione Ong, con cui, come già detto, italiani e libici sembrano ora decisamente in sintonia. Ma la partnership verrà rinforzata, passando anche per i protocolli di intesa tra le autorità giudiziarie locali e la Procura nazionale antimafia. Un'ulteriore svolta per una risoluzione definitiva della questione potrebbe arrivare da un altro passaggio cruciale di questi giorni: le autorità libiche, infatti, stanno per dichiarare l'istituzione di una propria zona di ricerca e soccorso (Sar). Finora, infatti, le Ong avevano giocato molto su una sorta di vuoto normativo. Tripoli, infatti, non aveva ancora una zona Sar riconosciuta a livello internazionale, il che faceva sì che l'area del mar libico a Sud di quella maltese e confinante con le acque territoriali della Libia non fosse posta sotto la responsabilità di alcuno Stato. È per questa ragione che, in caso di naufragio in quell'area, la prima centrale contattata per iniziare il salvataggio era sistematicamente quella italiana. Il che, in qualche modo, legittimava le Ong a portare qui da noi i migranti recuperati (anche perché Malta, benché abbia una Sar enorme, pari a 750 volte il suo territorio, non apre le porte). Ora, però, le cose potrebbero cambiare.
Qualche giorno fa, le autorità libiche hanno inoltrato all'Organizzazione marittima internazionale (Imo) i primi riferimenti di un centro di coordinamento dei soccorsi (Rcc, Rescue coordination centre) di stanza a Tripoli. Contattata dal sito Altreconomia.it il 20 giugno, l'Imo ha riferito di attendersi dettagli al più «presto». Si tratta di un primo passo per mettere ordine in quel tratto di mare in cui trafficanti, Ong, navi militari e predoni vari fanno il bello e il cattivo tempo, in un caos assoluto che fa solo il gioco degli schiavisti. Chi risolve questo rebus, risolve gran parte del problema migranti. Per Salvini è la sfida il cui esito potrebbe segnare la differenza tra il comunicatore brillante e lo statista.
Adriano Scianca
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La Lifeline dovrebbe approdare a Malta, ma pare intenzionata a sbarcare in Italia, dove rischia il sequestro I giudici italiani sono al lavoro da qualche tempo sulle organizzazioni tedesche che usano «vessilli ombra».Dopo l'ennesima strage davanti alle coste nordafricane sono più di 1.000 le vittime da inizio 2018. La Guardia costiera di Tripoli attacca le Ong. Lunedì arriva il ministro dell'Interno, si va verso una strategia comune.Lo speciale contiene due articoliA Trapani da tempo la Procura indaga su alcune Ong tedesche le cui navi usano bandiere ombra, violando i codici di navigazione. Le segnalazioni sono arrivate ai magistrati siciliani nell'ambito delle inchieste sul favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, una delle quali ha portato al sequestro della nave Iuventa. La denuncia del governo italiano sulla nuova nave pirata ha fatto drizzare le orecchie agli investigatori. Equipaggio compreso, sulla Lifeline, una nave da 50 posti della Ong tedesca Missione Lifeline, ci sono 224 persone stipate a bordo. E al timone un capitano determinato a portare in Italia i migranti presi in acque libiche. Ma il vero problema è Malta, le cui autorità si girano dall'altra parte pur di non aprire i porti. «Malta non era né l'autorità coordinatrice né quella competente dei soccorsi», puntano i piedi da La Valletta. E rimpallano verso l'Italia, sostenendo che il soccorso è avvenuto tra la Libia e Lampedusa.Ora la priorità è mettere in salvo le persone. «Ma sia chiaro che poi quella nave dovrà essere sequestrata e il suo equipaggio fermato. Mai più in mare a trafficare». Il tweet del ministro dell'Interno Matteo Salvini non lascia spazio a interpretazioni. Per lui quella nave è fuorilegge. E non attraccherà in Italia. Da Malta hanno continuano a fare gli gnorri per tutta la mattina di ieri: fonti del governo maltese hanno fatto sapere al quotidiano Malta Today che né la Lifeline, né il centro di coordinamento di Roma hanno trasmesso a La Valletta una richiesta formale di accogliere la nave dell'Ong con a bordo i migranti. Verso ora di pranzo, però, è stata comunicata la richiesta ufficiale della Capitaneria di porto italiana: «Fate attraccare la Lifeline». Anche perché non è Roma a guidare l'operazione questa volta. È da Frontex che hanno individuato l'area di mare Search and rescue come maltese. Nel frattempo, su Twitter, la Ong Missione Lifeline ha messo le mani avanti, postando il documento che confermerebbe la registrazione della bandiera e l'indicazione di Amsterdam come home port. E sostenendo: «Abbiamo agito come in tutte le precedenti missioni in acque internazionali». Il governo italiano non si accontenta e Salvini ha fatto sapere di aver già mandato una nota ufficiale al governo olandese per chiedere delucidazioni sulle due navi sospette: la Lifeline e la Sealife, entrambe di Ong tedesche ed entrambe battenti bandiera olandese. Dai Paesi Bassi hanno fatto sapere che le due navi appartengono a Ong tedesche e non sono presenti nel registro navale olandese. Quindi l'Olanda non è in grado di dare istruzioni a queste imbarcazioni.Affinché il legame con la bandiera issata a bordo abbia valore giuridico, ogni imbarcazione deve essere regolarmente registrata nel Paese di cui espone il vessillo, altrimenti è soggetta alla giurisdizione di tutti gli Stati. L'accertamento della nazionalità è un atto di polizia giudiziaria disciplinato dal codice della navigazione e da più di una convenzione internazionale. «L'Italia è consapevole della posizione olandese», hanno ribattuto da Amsterdam, costringendo il governo italiano ad annunciare un'inchiesta su quelle che hanno tutte le caratteristiche per essere definite navi fantasma. Se dovessero arrivare in acque italiane, quindi, scatterà il loro sequestro. La storia della Lifeline è facile da ricostruire con le informazioni disponibili online. E dimostra facilmente che è una nave da avventurieri: già Sea Watch 2, ex Clupea, ha uno scafo da 32 metri di lunghezza e 8 di larghezza. La costruzione è del 1968. In origine era un peschereccio, comprato nel 2015 dalla Ong Sea Watch che se la portò ad Amburgo per ribattezzarla Sea Watch 2 il 18 marzo 2016. Poco dopo è passata di mano a Mission Lifeline per 200.000 euro. «Unaltra Ong ci ha offerto in vendita la sua nave di soccorso», è scritto sul sito nella Ong nella sezione in cui viene descritta la missione dedicata ai salvataggi nel Mediterraneo. Una nave «quasi completamente attrezzata», anche se «qua e là da riparare». Dopo i ritocchi, il peschereccio cinquantenne è finito di nuovo in acqua. E infatti il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli su Facebook ha sottolineato che sulla Lifeline sono stati imbarcati «circa 250 naufraghi senza avere i mezzi tecnici per poter garantire l'incolumità degli stessi e dellequipaggio». Ma c'è di più, da informazioni acquisite nell'immediatezza dal governo italiano, la Ong non avrebbe collaborato con la guardia costiera libica, che stava intervenendo per salvare i migranti e riportarli su suolo libico. Axel Steier, portavoce di Lifeline, ha confermato questa versione all'agenzia Reuters, aggiungendo però che i migranti erano in pericolo e che non c'era il tempo di aspettare. Steier ha anche aggiunto che i migranti sarebbero stati comunque in pericolo se fossero stati trasportati in Libia, dove ci sono centri di detenzione nei quali vengono spesso violati i loro diritti umani. «È da irresponsabili, non da filantropi, incentivare la partenza dei barconi della morte», ha rincarato la dose Toninelli, ribadendo che la soluzione resta quella di fermare le partenze dei barconi attivando gli hotspot in Africa. Una possibilità di cui si parlerà, nei prossimi giorni, in un vertice europeo in programma a Bruxelles. Fino a quel momento la posizione dell'Italia sulla chiusura dei porti resta ferma. Porti chiusi per le navi delle Ong che battono bandiera straniera: «Vadano in Olanda». La flotta italiana, composta da navi militari e Guardia costiera, continuerà a pattugliare il Mar Mediterraneo e salvare vite, ma a condizioni diverse dal passato. «Staranno più vicine alle coste italiane», ha spiegato Salvini. Che ha aggiunto: «Ci sono altri che devono intervenire: la Tunisia, Malta, Francia, Spagna». La portavoce del governo spagnolo Ibabel Celaà questa volta non si è fatta attendere e ha comunicato che il ministero degli Esteri è in contatto con Malta, Italia e Francia. La linea dura, a quanto pare, paga.Fabio Amendolara<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/la-procura-di-trapani-sta-indagando-sulle-ong-con-bandiere-di-comodo-2580383307.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="altri-200-morti-nel-mediterraneo-i-libici-e-colpa-dei-taxi-del-mare" data-post-id="2580383307" data-published-at="1766797469" data-use-pagination="False"> Altri 200 morti nel Mediterraneo I libici: «È colpa dei taxi del mare» Il conteggio dell'orrore sembra non avere fine: sono 220, secondo l'Unhcr, l'Agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati, i migranti annegati negli ultimi giorni al largo delle coste libiche, portando il numero dei morti nel Mediterraneo a oltre 1.000 dall'inizio del 2018. Una mattanza di fronte alla quale è facile urlare «basta». Ma contro chi? Le Ong, da tempo, si sono autoinvestite del ruolo di uniche detentrici della moralità nautica, ma le cose sembrano essere più complesse. «Quando vedono le navi delle Ong i migranti che abbiamo appena imbarcato si rituffano in mare, anche se non sanno nuotare; questa storia deve finire», ha detto all'agenzia Dire il colonnello Abu Ageila Abdul Bari, comandante delle motovedette della Guardia costiera della Libia. Che tuona: «Le Ong sono taxi del mare, che di fatto aiutano i migranti a raggiungere l'Europa». Gli attivisti sedicenti umanitari, spiega ancora il militare libico, «complicano il nostro lavoro, che nonostante alcuni successi, resta difficile». Fra le autorità libiche, sul punto sembrano concordare tutti. Ieri Repubblica riportava le parole del comandante Ayub Qassim, portavoce della Guardia costiera libica, secondo cui «i trafficanti ne stanno facendo partire a migliaia e altri ancora li spingeranno in mare nei prossimi giorni». In mare, dice Qassim, «noi abbiamo soltanto nemici: i trafficanti di benzina, quelli di armi che ci sparano addosso a cannonate; poi i mercanti di migranti. Ma ci sono anche le Ong che non ci rispettano, che sono un ostacolo per noi e non fanno salvataggio, assicurano ai trafficanti le ultime miglia del loro trasporto marittimo. Noi salviamo quei migranti». Parole chiare, che svelano una volta di più il ruolo nefasto delle Ong. Parole che, certo, vengono dalla Guardia costiera libica, la cattivissima forza anti migranti che, ci dicono, spara, sperona, affonda, tortura e chi più ne ha più ne metta. Già, ma chi è che ha iniziato a collaborare con la Guardia costiera libica? Ma il governo del Pd, ovviamente. È sotto la supervisione dell'ex ministro della Difesa Roberta Pinotti che le nostre navi hanno iniziato a operare insieme agli uomini del Paese nordafricano. A marzo 2016, Fayez Al Sarraj aveva chiesto all'Ue mezzi e apparecchiature per un totale di almeno 800 milioni di euro. Ne era nato un accordo bilaterale che prevedeva l'addestramento, l'equipaggiamento e il sostegno alla Guardia costiera libica. Nei mesi successivi, i regali a pioggia erano quindi iniziati. Non che l'idea di puntare a fermare le partenze direttamente dalla Libia, fosse sbagliata, anzi. Quel ponte gettato verso Tripoli, tuttavia, avrebbe dovuto essere il primo passo per una partnership, al fine di porre fine alle partenze. Tutte cose che potrebbe e dovrebbe fare Matteo Salvini, che ha finalmente deciso di buttarsi anima e corpo sul dossier libico. Cominciando con l'andare in loco. Mentre nella zona dei terminal petroliferi dell'Est Khalifa Haftar sta in queste ore guerreggiando con delle milizie criminali e jihadiste per il controllo dei pozzi (il generale ha comunque annunciato di aver ripreso sia Sider che Ras Lanuf), Salvini sarà a Tripoli lunedì 25. La visita è stata accuratamente preparata dall'ambasciatore Giuseppe Perrone, che ha incontrato Al Serraj e i ministri Taher Siala (Esteri) e Salam Ashur (Interno). Il titolare del Viminale offrirà ai partner nordafricani dieci nuove motovedette, finanziate con fondi europei, e altre tre unità navali. Sul piatto, tuttavia, ci sarà anche la questione Ong, con cui, come già detto, italiani e libici sembrano ora decisamente in sintonia. Ma la partnership verrà rinforzata, passando anche per i protocolli di intesa tra le autorità giudiziarie locali e la Procura nazionale antimafia. Un'ulteriore svolta per una risoluzione definitiva della questione potrebbe arrivare da un altro passaggio cruciale di questi giorni: le autorità libiche, infatti, stanno per dichiarare l'istituzione di una propria zona di ricerca e soccorso (Sar). Finora, infatti, le Ong avevano giocato molto su una sorta di vuoto normativo. Tripoli, infatti, non aveva ancora una zona Sar riconosciuta a livello internazionale, il che faceva sì che l'area del mar libico a Sud di quella maltese e confinante con le acque territoriali della Libia non fosse posta sotto la responsabilità di alcuno Stato. È per questa ragione che, in caso di naufragio in quell'area, la prima centrale contattata per iniziare il salvataggio era sistematicamente quella italiana. Il che, in qualche modo, legittimava le Ong a portare qui da noi i migranti recuperati (anche perché Malta, benché abbia una Sar enorme, pari a 750 volte il suo territorio, non apre le porte). Ora, però, le cose potrebbero cambiare. Qualche giorno fa, le autorità libiche hanno inoltrato all'Organizzazione marittima internazionale (Imo) i primi riferimenti di un centro di coordinamento dei soccorsi (Rcc, Rescue coordination centre) di stanza a Tripoli. Contattata dal sito Altreconomia.it il 20 giugno, l'Imo ha riferito di attendersi dettagli al più «presto». Si tratta di un primo passo per mettere ordine in quel tratto di mare in cui trafficanti, Ong, navi militari e predoni vari fanno il bello e il cattivo tempo, in un caos assoluto che fa solo il gioco degli schiavisti. Chi risolve questo rebus, risolve gran parte del problema migranti. Per Salvini è la sfida il cui esito potrebbe segnare la differenza tra il comunicatore brillante e lo statista. Adriano Scianca
MR. BRAINWASH, Banksy thrower, opera unica su carta, 2022
Contrariamente a quanto si possa pensare, la street art, così straordinariamente attuale e rivoluzionaria, affonda le sue radici negli albori della storia: si può dire che parta dalle incisioni rupestri (i graffiti primitivi sono temi ricorrenti in molti street artist contemporanei) e millenni dopo, passando per le pitture murali medievali, i murales politici del dopoguerra e il « muralismo » messicano di Diego Rivera, José Clemente Orozco e David Alfaro Siqueiros, approdi nella New York ( o meglio, nel suo sottosuolo…) di fine anni ’60, dove tag, firme e strani simboli si moltiplicano sui treni e sui muri delle metropolitane, espressione di quella nuova forma d’arte che prende il nome di writing, quell’arte urbana che è la «parente più prossima » della street art, meno simbolica e più figurativa.
E quando si parla di street art, il primo nome che viene in mente è in assoluto quello di Banksy, la figura più enigmatica della scena artistica contemporanea, che ha fatto del mistero la sua cifra espressiva. Banksy è «l‘ artista che non c’è » ma che lascia ovunque il segno del suo passaggio, con una comunicazione che si muove con intelligenza tra arte e media: i suoi profili social sono il primo canale di diffusione e le sue opere, spesso realizzate con stencil (una maschera normografica su cui viene applicata una vernice, così da ottenere un'immagine sullo spazio retrostante), sono interventi rapidi nello spazio urbano, capaci di coniugare arte e messaggio politico. Quella di Bansky è un’arte clandestina, quasi abusiva, fulminea, che compare dal nulla un po’ovunque, in primis sui grandi scenari di guerra, dal muro che divide Israele e Palestina ai palazzi bombardati in Ucraina. Le sue immagini, dall’iconica Balloon Girl (la ragazzina con un palloncino rosso a forma di cuore) ai soldati che disegnano il segno della pace, dai bambini con maschere antigas, alle ragazzine che abbracciano armi da guerra, sono ironiche e dissacranti, a volte disturbanti, ma lanciano sempre messaggi politici e chiare invettive contro i potenti del mondo.
Ed è proprio il misterioso artista (forse) di Bristol il fulcro della mostra a Conegliano, curata da Daniel Buso e organizzata da ARTIKA in collaborazione con Deodato Arte e la suggestiva cittadina veneta.
La Mostra, Keith Haring e Obey
Ricca di 80 opere, con focus sulla figura di Bansky ( particolarmente significativa la sua Kids on Guns, un'opera del 2013 che rappresenta due bambini stilizzati in cima a una montagna di armi, simbolo della lotta contro la violenza), la mostra si articola attorno a quattro grandi temi - ribellione, pacifismo, consumismo e critica al sistema – ed ospita, oltre all’enigmatico artista britannico, altri due guru della street art: Keith Haring e Shepard Fairey, in arte Obey.
Convinto che «l’arte non è un’attività elitaria riservata all’apprezzamento di pochi: l’arte è per tutti e questo è il fine a cui voglio lavorare» Haring (morto prematuramente nel 1990, a soli 32 anni, stroncato dall’AIDS) ha creato un nuovo linguaggio comunicativo caratterizzato da tematiche legate alla politica e alla società, facendo degli omini stilizzati e del segno grafico nero i suoi tratti distintivi; Fairey, in arte Obey, attualmente uno degli street artist più importanti ( e discussi) al mondo, si è fin da subito reso conto di come la società in cui è nato e cresciuto lo abbia condotto all’obbedienza senza che lui se ne rendesse conto: da qui la scelta di chiamarsi Obey , che significa obbedire.
Bansky, Haring , Obey, praticamente la storia della street art racchiusa in una mostra che non è solo un'esposizione di opere d'arte, ma anche un'occasione per riflettere sulle contraddizioni di questo oramai popolarissimo movimento artistico e sul suo ruolo nella società contemporanea. Alla domanda se un’arte nata per contestare il sistema possa oggi essere esposta nei musei, venduta all’asta e diventare oggetto di mercato, non vengono offerte risposte, ma contributi per stimolare una riflessione personale in ogni visitatore. Perché, in fondo, anche questa è la forza della Street Art: porre questioni più che dare certezze...
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Da sx in alto: americani della 92ª Divisione, alpini della Divisione «Monterosa», paracadutisti tedeschi e la frazione di Sommocolonia oggi. Garfagnana, 26 dicembre 1944
La battaglia della Garfagnana, nota come Operazione «Wintergewitter» (tempesta invernale) fu l’ultima controffensiva delle forze dell’Asse sul fronte italiano. Iniziò la notte tra Natale e Santo Stefano del 1944 per terminare tre giorni più tardi. L’obiettivo, pur presentando scarse se non nulle possibilità di raggiungerlo, era quello di arrestare l’avanzata alleata lungo il fronte della linea Gotica allora in stallo per l’inverno rallentando l’avanzata degli angloamericani che puntavano verso Bologna e la Pianura Padana. Il teatro delle operazioni fu la valle del Serchio nella Garfagnana, in provincia di Lucca, dove gli americani del 92° Infantry Regiment, i famosi «Buffalo Soldiers» a maggioranza afroamericana, si erano acquartierati nei giorni precedenti al Natale, ritenendo le ostilità in pausa. L’effetto sorpresa era proprio il punto cardine dell’operazione pianificata dal comando tedesco guidato dal generale Otto Fretter-Pico. Le forze dell’Asse consistevano sostanzialmente di reparti da montagna, i «Gebirgsjaeger» tedeschi e gli alpini italiani della Divisione «Monterosa», uno dei primi reparti addestrati in Germania dopo la nascita della Repubblica Sociale. L’attacco fu fissato per la mezzanotte, tra il 25 e il 26 dicembre e procedette speditamente. I reparti speciali tedeschi e gli alpini iniziarono una manovra di accerchiamento da Montebono per Bobbio, Tiglio e Pian di Coreglia, mentre un reparto leggero prendeva in poche ore Sommocolonia. Contemporaneamente tutti i reparti si muovono, compreso un nucleo del Battaglione «San Marco», che in poco tempo occupava Molazzana. Entro la sera di Santo Stefano la linea dei Buffalo Soldiers era sfondata, mentre i reparti americani arretravano in massa. I prigionieri erano circa 250, mentre numerose armi e munizioni venivano requisite. Anche vettovaglie e generi di conforto cadevano nelle mani degli attaccanti.
Gli americani praticamente non reagirono, ma si spostarono in massa verso la linea difensiva di Bagni di Lucca. Per un breve tempo sembrò (soprattutto agli italiani, mentre i tedeschi sembravano paghi della riuscita sorpresa) che il fronte potesse cedere fino in Versilia e verso Livorno. L’ordine di Fretter-Pico di arrestare l’avanzata fu una doccia fredda. Le ragioni dell'arresto risiedevano principalmente nella difficoltà di mantenere le posizioni, la scarsità ormai cronica di uomini e munizioni (c’era solo l’artiglieria, nessun carro armato e soprattutto nessun supporto dall’Aviazione, praticamente sparita dai cieli del Nord Italia). Gli americani invece avevano il dominio assoluto del cielo, con i cacciabombardieri che potevano decollare dai vicini aeroporti della Toscana occupata, come quelli di Grosseto e Rosignano. Tra il 27 e il 30 dicembre 1944 i P-47 Thunderbolt dell’Usaf bombardarono a tappeto, mietendo vittime soprattutto tra la popolazione civile. La linea difensiva dell’Asse ritornò nei giorni successivi alle posizioni di partenza, mentre il fronte si assestava fino all’inizio del febbraio 1945 quando gli alleati lanciarono l’operazione «Fourth Term», che portò in pochi giorni alla conquista della Garfagnana. Durante l’operazione «Wintergewitter» lo scontro più violento si verificò nell’abitato di Sommocolonia dove la guarnigione americana perse quasi tutti gli uomini, compreso il proprio comandante tenente John R. Fox che, vistosi ormai circondato dai tedeschi, chiese all’artiglieria della 92ª di sparare sull’abitato nel tentativo disperato di rallentare l’attacco a sorpresa. Morì sotto le macerie della sua postazione e solamente nel 1997 fu insignito della medaglia d’onore.
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Lee Raybon avrebbe ambizioni da detective. Non da investigatore tout court. Piuttosto, vorrebbe essere un reporter, di quelli capaci - forti solo delle proprie risorse - di portare a termine indagini e inchieste, di dar forma alle notizie prima ancora che queste vengano diffuse dalle autorità competenti.
L'ambizione, tuttavia, è rimasta tale, nel corso di un'esistenza che ha costretto Raybon a ripiegare su altro per il mero sostentamento. Si è reinventato libraio, Lee Raybon, gestendo di giorno un negozio di libri rari. La notte, però, ha continuato a seguire il cuore, dando spazio alle sue indagini scalcagnate. Qualcuna è riuscito a trasformarla in articolo di giornale, venendola alle pagine di cronaca locale di Tulsa, città che ospita il racconto. E sono i pezzi ritagliati, insieme ai libri ormai giallognoli, ad affollare l'apportamento di Raybon, che la moglie ha mollato su due piedi, quando ben ha realizzato che non ci sarebbe stato spazio per altro nella vita di quell'uomo. Raybon, dunque, è rimasto solo. Non solo come il crime, per lo più, ha raccontato i suoi detective. Non è, cioè, una solitudine disperata, quella di Raybon. Non c'è tristezza né emarginazione. C'è passione, invece: quella per un mestiere cui anche la figlia dell'uomo sembra guardare con grande interesse.
Francis, benché quattordicenne, ha sviluppato per il secondo mestiere del padre una curiosità quasi morbosa, in nome della quale ha cominciato a seguirlo in ogni dove, partecipando lei pure alle indagini. Cosa, questa, che si ostina a fare anche quando la situazione diventa insolitamente complicata. Lee Raybon ha messo nel mirino i Washberg, una tra le famiglie più potenti di Tulsa. Ma uno di loro, Dale, si è tolto la vita, quando l'articolo di Raybon sulle faccende losche della dinastia è stato pubblicato su carta. Perché, però? Quali segreti nascondo i Washberg? Le domande muovono la nuova indagine di Raybon, la sostanziano. E, attorno alla ricerca di risposte, si dipana The Lowdon, riuscendo a bilanciare l'irrequietezza del suo protagonista, il suo cinismo, con il racconto di una dinamica familiare di solito estranea al genere crime.
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