2018-06-13
La moda domina i social network: Snapchat arretra davanti all'avanzata di 21 buttons
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L'app diventata famosa per le foto con le orecchie da cane soffre la concorrenza di Instagram perdendo terreno e utili. Spopola, invece, 21 buttons la piattaforma che permette a tutti di sentirsi fashion blogger e garantisce ritorni economici grazie alla partnership con le case di abbigliamento.«Alloora, anche voi non aprite più Snapchat? O sono solo io … bleah è così triste». Così twittava il 21 febbraio scorso Kylie Jenner, la sorellastra di Kim Kardashian da 109 milioni di seguaci su Instagram, a proposito di quella che solo due anni fa veniva celebrata come l'app più popolare fra i teenager americani.Proprio in questi due anni, però, le cose sembrano aver preso una piega decisamente negativa per la celebre applicazione del fantasmino bianco su sfondo giallo. Con il suo tweet da meno di 280 caratteri - che è stato accusato di aver provocato un crollo delle azioni del 7.2 % della Snap inc. in quel giorno -, la più piccola del clan Kardashian-Jenner è riuscita a fotografare la situazione: Snapchat non è più il social network più utilizzato e amato dai millennial.La principale causa di questa sempre più netta battuta d'arresto ha un nome e cognome: Mark Zuckerberg e, nello specifico, le Instagram stories. Era il 2 agosto 2016 quando il social network leader incontrastato nella condivisione d'immagini lanciò sul mercato una nuova funzione di fatto copiata a quella introdotta da Snapchat cinque anni prima. Lo scopo? Svecchiare l'app e renderla più appetibile agli occhi dei teenager. È quindi così che Instagram, acquisita nel 2012 dal gruppo Facebook, ha iniziato a offrire ai propri utenti un nuovo modo immediato di condivisione di foto e video della durata massima di 15 secondi, che si andava ad aggiungere al tradizionale sistema «scatto-condivido-ricevo like». E, come accade su Snapchat, anche i contenuti digitali targati Instagram non erano che temporanei: sparivano, infatti, nell'arco di 24 ore. Ma le similitudini fra i due social network non finiscono qui: i filtri facciali, unico vero motivo per cui molti utenti rimasero fedeli a Snapchat anche dopo l'agosto 2016, sono stati introdotti anche nelle Instagram stories a partire dal marzo 2017. E il Web è stato inondato da sempre più selfie con orecchie da cane, da coniglio, da gatto e così via. Un quadro che potrebbe addirittura parere buffo, ma che per Snapchat ha rappresentato una battuta d'arresto.I primi segnali di questa crisi sono stati evidenti già l'anno successivo al lancio delle Instagram stories. Nel primo trimestre del 2017 la società Snap inc., amministrata dall'allora ventisettenne Evan Spiegel, ha subito una perdita netta di 443,2 milioni di dollari, pari a circa 383,5 milioni di euro. In più, Snapchat non ha raggiunto allora i ricavi previsti (150 milioni al posto dei 158 milioni prefissati) e ha iniziato a soffrire di difficoltà nell'attrarre nuovi utenti, sottraendoli alla concorrenza del rivale Instagram.Poco ha aiutato le casse della società anche l'introduzione sul mercato nel novembre 2016 degli Spectacles, speciali occhiali da sole dotati di due videocamere agli angoli su cui la Snap Inc. era pronta a puntare come «prodotto del futuro», o la messa a punto di nuovi servizi come le videochat di gruppo. Anzi, un recente sondaggio del Pew research center rivela il deludente abbassamento dell'indice di gradimento di Snapchat: solo il 69%, in netto calo rispetto al 2015, degli adolescenti statunitensi fra i 13 e i 17 anni ammette di usarlo quotidianamente, contro il 72% ottenuto da Instagram e l'85% da Youtube. Facebook si ferma al 51%, a riprova del fatto che la creazione di Zuckerberg è sempre più distante dagli interessi dei più giovani. Parlando di numeri, sono stati 166 milioni gli utenti giornalieri di Snapchat nel 2017, con un tasso di crescita rallentato al 35%. Ancora una volta, quindi, Instagram, con i suoi 200 milioni di user quotidiani, esce vincitore dal duello. Se da un lato risulta che il 30% degli influencer ha lasciato Snapchat nell'ultimo anno, dall'altro il 44% dei giovani americani si dichiara ancora disposto a sceglierlo come unico social network da usare su un'ipotetica isola deserta. Ciò che risulta sorprendente è il fatto che i millennial d'oltreoceano prediligano Snapchat non tanto per la sua funzione di condivisione immediata d'immagini, quanto piuttosto per il servizio di instant messaging che offre. Diversa, invece, la situazione nel nostro Paese: per chattare e condividere storie i giovani italiani si dimostrano affezionati utenti di Whatsapp e soprattutto di Instagram. Almeno hai già tutto in un'app, puoi condividere foto durature e non, è la convinzione di molti. In un goffo tentativo di smorzare la tensione in casa Snapchat, il ceo Spiegel ha dichiarato, non senza amarezza: «Il fatto che Yahoo! abbia una funzione di ricerca non lo rende Google». Della serie: Zuckerberg può copiare quanto vuole, ma rimane comunque Snapchat il pioniere di questa nuova ondata di comunicazione via social network. Se da un lato Snapchat si avvia ormai verso una fase di declino dettata dall'ingombrante concorrenza di Instagram, dall'altro non mancano di certo realtà innovative e in ascesa. È il caso, per esempio, di 21 buttons, applicazione dedicata alla moda che in Italia ha fatto il suo debutto nell'estate 2017. Il concetto di questa nuova frontiera del fashion è semplice, simile per molti versi a quello già ampiamente diffuso da Instagram: basta registrarsi, scattare una foto del proprio outfit o di un qualsiasi accessorio, specificarne con un tag la marca e, quindi, indirizzare i propri follower direttamente al sito su cui si potrà acquistare l'oggetto in questione. Ma qual è il segreto di 21 buttons? Perché piace cosi tanto agli appassionati di moda di tutto il mondo? Semplice: partendo da un sistema di condivisione intuitivo «scatto-taggo il sito-posto» e da un'idea di fondo di per sé rivoluzionaria, permette agli utenti di acquistare i capi indossati dai propri influencer preferiti o anche soltanto di prendere ispirazione per nuovi look.Il successo di 21 buttons s'inserisce perfettamente all'interno della società in cui viviamo: offre a chiunque l'illusione di poter giocare a fare i fashion blogger postando i propri outfit. Si tratta, quindi, di un duplice concetto: ispirare ma anche essere ispirati. Collocandosi a metà strada fra Instagram e un qualunque sito di e-commerce, 21 buttons rappresenta quindi anche una fonte di guadagno: ogni volta che una persona comprerà un determinato capo attraverso il link condiviso, l'influencer del momento riceve, infatti, una percentuale della vendita direttamente dal brand che investe in pubblicità.Appare così chiaro che i social network costituiscano sempre di più un mezzo attraverso il quale lanciare o addirittura creare da zero il proprio business. Ed è forse è proprio questo l'elemento che è venuto a mancare a Snapchat negli ultimi anni, un fattore che Instagram ben conosce e di cui si sta facendo portavoce: la possibilità di favorire dal punto di vista economico fashion blogger emergenti, proponendosi come un'importante fonte di guadagno. Qual è, dunque, la nuova frontiera dei social network? Senza ombra di dubbio il business, che al giorno d'oggi passa attraverso post di Instagram, di 21 buttons o persino attraverso le stesse Instagram stories, che permettono fra l'altro di copiare link e taggare luoghi o persone. E Snapchat sembra essere rimasta al palo.
(Guardia di Finanza)
I peluches, originariamente disegnati da un artista di Hong Kong e venduti in tutto il mondo dal colosso nella produzione e vendita di giocattoli Pop Mart, sono diventati in poco tempo un vero trend, che ha generato una corsa frenetica all’acquisto dopo essere stati indossati sui social da star internazionali della musica e del cinema.
In particolare, i Baschi Verdi del Gruppo Pronto Impiego, attraverso un’analisi sulla distribuzione e vendita di giocattoli a Palermo nonché in virtù del costante monitoraggio dei profili social creati dagli operatori del settore, hanno individuato sette esercizi commerciali che disponevano anche degli iconici Labubu, focalizzando l’attenzione soprattutto sul prezzo di vendita, considerando che gli originali, a seconda della tipologia e della dimensione vengono venduti con un prezzo di partenza di circa 35 euro fino ad arrivare a diverse migliaia di euro per i pezzi meno diffusi o a tiratura limitata.
A seguito dei preliminari sopralluoghi effettuati all’interno dei negozi di giocattoli individuati, i finanzieri ne hanno selezionati sette, i quali, per prezzi praticati, fattura e packaging dei prodotti destavano particolari sospetti circa la loro originalità e provenienza.
I controlli eseguiti presso i sette esercizi commerciali hanno fatto emergere come nella quasi totalità dei casi i Labubu fossero imitazioni perfette degli originali, realizzati con materiali di qualità inferiore ma riprodotti con una cura tale da rendere difficile per un comune acquirente distinguere gli esemplari autentici da quelli falsi. I prodotti, acquistati senza fattura da canali non ufficiali o da piattaforme e-commerce, perlopiù facenti parte della grande distribuzione, venivano venduti a prezzi di poco inferiori a quelli praticati per gli originali e riportavano loghi, colori e confezioni del tutto simili a questi ultimi, spesso corredati da etichette e codici identificativi non conformi o totalmente falsificati.
Questi elementi, oltre al fatto che in alcuni casi i negozi che li ponevano in vendita fossero specializzati in giocattoli originali di ogni tipo e delle più note marche, potevano indurre il potenziale acquirente a pensare che si trattasse di prodotti originali venduti a prezzi concorrenziali.
In particolare, in un caso, l’intervento dei Baschi Verdi è stato effettuato in un negozio di giocattoli appartenente a una nota catena di distribuzione all’interno di un centro commerciale cittadino. Proprio in questo negozio è stato rinvenuto il maggior numero di pupazzetti falsi, ben 3.000 tra esercizio e magazzino, dove sono stati trovati molti cartoni pieni sia di Labubu imbustati che di scatole per il confezionamento, segno evidente che gli addetti al negozio provvedevano anche a creare i pacchetti sorpresa, diventati molto popolari proprio grazie alla loro distribuzione tramite blind box, ossia scatole a sorpresa, che hanno creato una vera e propria dipendenza dall’acquisto per i collezionisti di tutto il mondo. Tra gli esemplari sequestrati anche alcune copie più piccole di un modello, in teoria introvabile, venduto nel mese di giugno a un’asta di Pechino per 130.000 euro.
Soprattutto in questo caso la collocazione all’interno di un punto vendita regolare e inserito in un contesto commerciale di fiducia, unita alla cura nella realizzazione delle confezioni, avrebbe potuto facilmente indurre in errore i consumatori convinti di acquistare un prodotto ufficiale.
I sette titolari degli esercizi commerciali ispezionati e destinatari dei sequestri degli oltre 10.000 Labubu falsi che, se immessi sul mercato avrebbero potuto fruttare oltre 500.000 euro, sono stati denunciati all’Autorità Giudiziaria per vendita di prodotti recanti marchi contraffatti.
L’attività s’inquadra nel quotidiano contrasto delle Fiamme Gialle al dilagante fenomeno della contraffazione a tutela dei consumatori e delle aziende che si collocano sul mercato in maniera corretta e che, solo nell’ultimo anno, ha portato i Baschi Verdi del Gruppo P.I. di Palermo a denunciare 37 titolari di esercizi commerciali e a sequestrare oltre 500.000 articoli contraffatti, tra pelletteria, capi d’abbigliamento e profumi recanti marchi delle più note griffe italiane e internazionali.
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