2020-11-26
La mano di Dio si è portata via il pallone
Diego Armando Maradona (H.Hara/Getty Images)
A 60 anni, reduce da un'operazione al cervello, se n'è andato l'unico calciatore che ha conteso lo scettro di migliore del mondo a Pelè. Incontenibile in campo, imprendibile nella vita privata, tra droga e amici boss. Napoli si innamorò di lui ma l'Italia lo odiò ai Mondiali.Il bambino del mondo ha portato via il pallone. Quest'anno è morto il calcio; prima se ne sono andati i tifosi, poi nel silenzio anche lui, Diego Armando Maradona, quello che riempiva gli stadi da solo. Aveva 60 anni, un'età in cui ex terzini dal piede a piastrella pontificano in televisione con la cravatta settepieghe. Ha smesso di respirare per uno choc polmonare con arresto cardiaco nella casa di Tigres, dove si stava riprendendo dopo l'intervento al cervello per rimuovere un edema, tre settimane fa.Era circondato dai dottori come un tempo dai difensori delle squadre avversarie. Uno di loro si chiama Leopoldo Luque, come il centravanti baffone dell'Argentina che fu mondiale e nella quale Diego non giocò perché troppo piccolo. Medici pressanti, grintosi, niente sforzi né sgarri, ma ancora una volta li ha beffati tutti. Basta il cascame di una vecchia intervista: «Al Pibe de Oro non dici mai quello che deve fare».Non sembrava umano, per questo il mondo pensa che prima o poi ricomparirà da qualche parte in Patagonia. Non lo sembrava ma lo era più di tutti, così spontaneo, imperfetto e lunare da far dire a Gabriel Garcia Marquez: «È il mio Aureliano Buendia, le sue emozioni sono sempre più forti di lui». È morto Maradona, punto. Forse è stato il più grande tutti, forse Pelé lo era un centimetro di più. Ma oggi non ha senso, oggi conta la livella che non tiene conto dei trofei, dei gol e dei drammi. Le statistiche sono sul Web, la carriera su Wikipedia e noi vorremmo dire altro. Per esempio che è stato il più amato di tutti proprio per questa contraddizione: in campo era invincibile, fuori un disastro. Un personaggio letterario, il più sudamericano, scappato da un racconto di Osvaldo Soriano in un momento di distrazione degli stampatori. Il suo quadro clinico era definito «complesso». Come lui, per tutta la vita. Un complesso rock, i Rolling Stones riassunti in un corpo solo. C'era il Maradona immarcabile, il Maradona cocainomane senza regole, il Maradona peronista e guevarista (è morto lo stesso giorno di Fidel Castro ma anche di George Best), il Maradona contraddittorio (moralista ed evasore fiscale, amico dei bambini e dei camorristi). Il Maradona assoluto, larger than life. Eppure il 30 ottobre 1960 quando nasce è gracile e povero, come si conviene ai campioni destinati all'olimpo degli dei. Del predestinato ha tutto: il fango di Lanus, le scarpe da calcio di secondo piede, la faccia sporca del monello di strada, il sogno accarezzato nelle cebollitas, i pulcini, dell'Argentinos Junior. Suo padre Diego fa il turno di notte in un mulino, mamma Tota si occupa dei sette figli. Quando è morta un giornale ha scritto: «Se n'è andata la madre di Dio». Chissà cosa ci riserveranno oggi. Tutti smettono di faticare con il primo contratto di Dieguito, quello con il Boca Junior. A 17 anni potrebbe indossare la maglia della Juventus, Omar Sivori l'aveva segnalato all'avvocato Gianni Agnelli. Ma come rivelerà l'interessato in un'intervista: «Ero giovane e costavo troppo, in quel periodo la Fiat aveva problemi sindacali e gli operai non avrebbero accettato una spesa così alta». Va al Barcellona per 12 miliardi di lire, ma nonostante la classe infinita non viene mai accettato. Per i catalani è il sudaca (sporco terrone, pure peggio), nessuno sconto, semplicemente non gli passano la palla. Eppure è già il numero uno, lo si nota al mondiale di Spagna del 1982: immarcabile. Contro l'Italia, Maradona viene seviziato da Claudio Gentile che diventa famoso per essersi aggrappato alle sue mutande. Diventa anche campione del mondo, quindi un intoccabile. In realtà oggi non avrebbe finito il primo tempo. Due anni mesti al Barça, poi il Napoli lo compra per 13,5 miliardi senza averli: Corrado Ferlaino fa il colpo del secolo, pagherà più avanti. E Napoli si trasforma nel suo paradiso fin dal primo minuto, quando 80.000 persone gremiscono il San Paolo per vederlo palleggiare.Un uomo e una città: simbiosi assoluta. Un amore infinito, indissolubile. Due scudetti, una coppa Uefa, una Supercoppa italiana e nel frattempo il mondiale del Messico con l'Argentina. Napoli è il luogo delle magie e delle follie, delle vasche d'oro e della Ferrari gialla, delle sveglie a mezzogiorno e dell'aereo privato per portarlo a giocare mentre i compagni lo aspettano. Sanno che il sacrificio vale la pena, con lui si vince e arrivano i premi partita. Ottavio Bianchi, bresciano scolpito nella roccia, per lui conia la frase: «Chi gioca? Maradona più altri dieci». Il mito di Dieguito nasce e trova carburante sotto il Vesuvio; in via San Biagio dei Librai c'è un altarino dedicato a lui. Tutti si cimentano nella sua biografia, ce ne sono almeno 15, una l'ha firmata pure il regista Emir Kusturica (con dvd allegato). Ma la più innamorata, la più maradoniana, resta Te Diegum, scritta dagli intellettuali tifosi della città. È il tempo del mito, dei trionfi e delle lacrime. È il momento di Italia 90 e del Maradona capopopolo e fine psicologo, quello che in sala stampa a Firenze dopo aver eliminato l'ultima, fortissima Jugoslavia, prende il microfono e dice: «Per 364 giorni all'anno l'Italia disprezza i napoletani e il 365º chiederà loro di tifare per l'Italia, ma i napoletani tiferanno per me». Populista più di un grillino senza passato. Come whatsappa un amico filosofo: un meraviglioso e sgangherato rivoluzionario di sinistro. Comincia lì Italia-Argentina, la partita del destino per la generazione Vialli. E comincia il lungo addio di Diego, che qualche giorno dopo viene insultato all'Olimpico per aver detto «hijos de puta» su maxischermo in mondovisione ai tifosi che fischiavano l'inno argentino prima della finale con la Germania.Amato perché fragile, amato perché stupendo e sbagliato come un Icaro. Solenne e inarrivabile dentro gli stadi, impossibile da gestire fuori. Una vita sintetizzata ancora da Garcia Marquez in un impietoso epitaffio sociale: «Maradona non è un ricco, ma un povero con i soldi». In quegli anni gli riesce tutto, perfino di vincere la guerra delle Falkland in campo dopo che i generali l'hanno persa sul mare. Nella partita con l'Inghilterra a Mexico '86 in pochi minuti segna il gol più bello della storia e il più brutto, quello della mano de dios. Ma senza quest'ultimo, l'altro sarebbe solo un gran gesto sportivo.Nonostante la lunga carriera da allenatore, da manager, da testimonial di sé stesso, fuori dal campo il Pibe non ha capito molto del calcio. Troppo individualista per fare squadra, troppo leader per non morire con le sue idee. Mai stato tatticamente intelligente come Franz Beckenbauer o Johan Cruijff, non ne aveva bisogno. Il re del dieci più uno era la risposta agli scienziati schiavi dei tatticismi, agli allenatori matematici, all'algoritmo negli allenamenti, al bioritmo che ti porta al top. Per far saltare tutto a lui bastava un dribbling, un tiro al volo, una punizione morbida a spolverare la ragnatela dell'incrocio dei pali. Un elemento di corto circuito perenne. Da allenatore si stupiva: «È così semplice saltare l'uomo, non capisco perché quei lavativi non sappiano farlo».Era gentile, Maradona, non ti lasciava mai a piedi. Lo era come l'unico brasiliano che realmente ammirava: Ayrton Senna. Ciascuno di noi con la barba bianca ha un aneddoto per confermarlo. Io ricordo proprio la sera della fuga da Roma inseguito dalle ingiurie dopo aver perso il mondiale in quell'estate delle notti magiche. Insonne, altro che magica, per il cronista intrufolatosi a Fiumicino a caccia dell'ultima dichiarazione. Aeroporto vuoto, tre di mattina e tabellone delle partenze internazionali che segnala: Buenos Aires, ore 7. Maradona è sdraiato su un divanetto, dorme fra le valigie. Apre un occhio, vede il ragazzotto con il taccuino che gli chiede in piena notte un'ultima parola. «Sei sveglio per me, meriti di più». Sarà un'intervista lunga una pagina. Ieri è morto il calcio ma risorgerà fra tre minuti. Basta andare su YouTube per ricordarsi che certe giocate sono musica, nessuno può portartele via. Ora Maradona palleggia con un'arancia in Patagonia o in qualunque altro paradiso sognato dai bambini. Lo guardi e ti travolge lo stupore dell'impossibile; chi ama un pallone che rotola gli deve questo. Ritirate le maglie numero dieci da tutte le squadre del mondo e siamo pari.