2023-10-17
La doppia faccia della Cina mette paura
Xi Jinping (Getty images)
Pechino si è schierata con i palestinesi. Se non ci fossero di mezzo migliaia di morti verrebbe da ridere, visto il modo con cui tratta i musulmani di casa propria. Ma il suo vero obiettivo è sottrarre i Paesi arabi, ricchi di idrocarburi, all’influenza americana.La Cina sta con i palestinesi. Il suo ministro degli Esteri, che già si era distinto per non aver speso una parola di fronte alla strage di Hamas dello scorso 7 ottobre, ha criticatogli Stati Uniti per aver schierato una portaerei nel Mediterraneo, e ha sollecitato la comunità internazionale a dare seguito alla promessa di uno Stato indipendente in Palestina. Ovviamente ci è chiaro il perché. Pechino da tempo vuole allargare la propria sfera d’influenza in Medio Oriente, rafforzando le relazioni con i Paesi arabi e accreditandosi come vera potenza globale, più affidabile di quella americana. Se non ci fossero di mezzo una guerra e migliaia di morti fra i civili, ovviamente verrebbe da ridere. Ma siccome stiamo parlando di famiglie sterminate nelle proprie case e di altre che sono usate come scudi umani da una banda di terroristi, non ci si può sbellicare, ma semmai solo indignare di fronte a tanta faccia tosta. Come si fa infatti ad avere tanta impudenza di parlare in casa d’altri di legittima aspirazione all’indipendenza di un popolo, quando in casa propria non la si è concessa a nessuno e, anzi, si è usato il pugno di ferro contro chiunque rivendicasse il diritto all’autodeterminazione? La storia del Tibet è nota. Con la fine dell’impero cinese, il Dalai Lama proclamò l’indipendenza dalla Repubblica di Cina appena costituita e così è stato per alcuni decenni, cioè fino a quando, con l’avvento di Mao Tse-tung nacque la Repubblica popolare di Cina che, dopo aver promesso di consentire l’autonomia di Lhasa, qualche anno dopo inviò l’esercito per reprimere nel sangue qualsiasi richiesta di indipendenza. Da allora il Dalai Lama è «re» senza regno, costretto all’esilio, e chi sventola la bandiera tibetana rischia grosso, ovvero di passare il resto dei suoi giorni in qualche laogai. Ovviamente nel migliore dei casi, perché nei peggiori si finisce direttamente al cimitero.Tralascio le aspirazioni di Taiwan, che pur essendo libera, dalla fine della guerra civile è minacciata costantemente. Negli ultimi tempi, Pechino si è fatta sempre più temibile, dando vita a operazioni militari intorno all’isola, con il chiaro intento di intimorire il Paese e costringerlo a trattare una resa alle autorità comuniste senza sparare un colpo. Di Hong Kong non è neanche il caso di parlare, dato che la Cina ha stracciato tutti gli accordi che aveva stipulato al momento dell’addio dei soldati britannici. L’indipendenza, che era stata garantita, si è rivelata scritta su carta straccia e in pochi anni sono state incarcerate le persone che si opponevano alla trasformazione dell’ex colonia in una dependance di Xi Jinping. Tuttavia, la sfacciataggine cinese è ancor più incredibile se si guarda a ciò che la nomenclatura comunista ha portato a compimento nella regione dello Xinjiang. In quella zona e nei suoi dintorni da sempre viveva una minoranza musulmana. Gli uiguri nel corso degli anni hanno subito ogni genere di discriminazione, sopportando una repressione che puntava ad annacquarne l’identità, soprattutto dal punto di vista religioso. Alcune Ong sono arrivate al punto di parlare di genocidio, denunciando la sterilizzazione forzata delle donne per ridurre i tassi di natalità nelle zone a maggioranza uigura e l’immigrazione di massa da altre regioni, per diluire i musulmani nei territori dove sono nati. Esagerazioni? Sta di fatto che secondo le organizzazioni impegnate nel rispetto dei diritti umani, nei campi di rieducazione sono detenuti oltre un milione di uiguri. Pur di cancellare dalla regione la presenza islamica, Pechino non ha esitato a incarcerare intellettuali e religiosi, distruggendo decine di cimiteri e proibendo l’uso dei capi di abbigliamento tradizionale. Secondo alcune denunce, la Cina ha sottoposto a test medici gli uiguri, mentre alcune Ong sostengono che spesso ai prigionieri sono prelevati organi destinati a un mercato clandestino. Non è certo dunque per amore dell’autodeterminazione dei popoli e nemmeno per la libertà di professare qualsiasi religione se oggi la Cina si schiera a favore dei palestinesi. Le persecuzioni contro gli islamici, se possibile, sono state ancora più feroci rispetto a quelle messe in atto nei confronti dei cristiani. A Pechino, della causa di chi vive a Gaza o in Cisgiordania importa meno di zero. Ciò che conta per Xi Jinping è il ricco mercato degli idrocarburi e la possibilità di assumere un ruolo in un’area politicamente sensibile, sottraendola all’influenza americana. Non sono i profughi a far muovere la diplomazia cinese, ma la possibilità di destabilizzare una serie di equilibri e di dar vita a quell’asse del male che lega alcune tra le più potenti e feroci dittature del globo, a cominciare dall’Iran per finire all’Arabia. Del resto, come si vede, anche nell’ora in cui i palestinesi fuggono dai missili israeliani nessun Paese arabo si fa avanti per accoglierli. L’obiettivo non è aiutare loro, ma colpire Israele e di conseguenza l’America.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)